ARBËRIA NEWS Blog

ARBËRIA NEWS Blog

Visualizzazioni totali

lunedì 19 giugno 2017

Villa Badessa, l'enclave albanese in Abruzzo.

(di Ragno Anna Maria)
Una leggenda racconta che i profughi albanesi, nel trasportare la loro preziosa icona della Madonna Odigitria (dal greco “Colei che indica la Via, la direzione”), furono rallentati dalla sua pesantezza fino a che non divenne così pesante da non poter essere più spostata oltre e rimasero bloccati proprio nel luogo dove ora sorge il paese: Villa Badessa nacque così.

Nucleo familiare di Villa Badessa in abito tradizionale (1912). Foto dell'Associazione culturale Villa Badessa.

Decima delle undici immigrazioni albanesi in Italia dal sec XV al sec XVIII, Villa Badessa, fraz. di Rosciano (Prov. Di Pescara), costituisce in terra d'Abruzzo una rara oasi orientale. I profughi albanesi, provenienti dall'Epiro trovarono ospitalità nel Regno di Napoli all'Epoca di Carlo III Borbone, che offrì loro i terreni ereditati dalla Madre Elisabetta Farnese in tenimento di Penne-Pianella. Alle prime 18 famiglie albanesi, che raggiunsero il territorio Abruzzese nell' anno 1743, esuli dal villaggio costiero di Piqeras vicino a porto Edda (provincia di Himarë), in conflitto con il vicino villaggio di Borsh, diventata a causa turca di religione a maggioranza musulmana,  si aggiunsero nel 1748 altre 5 famiglie da Lukove, Klikùrsi, Nivica, Shën Vasilj e Corfù.

Luigi del Giudice, costume della Villa Badessa (fine XVIII sec.).

Il rito e la chiesa.
La chiesa di Villa Badessa è parte integrante dell’Eparchia di Lungro, in cui si celebrano le funzioni con rito greco bizantino del Tipicòn di Costantinopoli. L'istituzione di questa parrocchia nel 1744, fu il primo atto pubblico dell'insediamento della colonia albanese in Abruzzo.  
La chiesa è dedicata alla Theotocos Assunta in cielo (Kimisis) ed è dotata di una  Ikonostasi con 75 preziosi dipinti su tavola dal sec. XV al sec. XX, tutte restaurate dal Ministero dei Beni Culturali e riconosciute, inventariate come opere storico-artistiche di interesse internazionale e tali da costituire una rara e unica Collezione in tutta l'Europa Occidentale.
In questo raro documentario, Lino Bellizzi (morto nel 2002), papàs di rito bizantino della Chiesa S. Maria Assunta di Villa Badessa dal 1957 al 2000, celebra un matrimonio con il rito greco bizantino.

martedì 13 giugno 2017

Nje virgjereshe e betuar: dalla vergine giurata di Edith Durham alla bocha posh dell'Afghanistan.

Ancor prima dell’antropologa Antonia Young (2000) con il suo libro “Women who become men” e di Elvira Dones in Hana, il romanzo pubblicato in Italia con il titolo di “Vergine giurata, edizioni Feltrinelli (2007), delle “vergini giurate” aveva già scritto nei primi del ‘900 anche Edith Durham, una viaggiatrice e scrittrice inglese nota per i suoi appunti antropologici di vita in Albania nei primi anni venti del Secolo scorso. 

Nje virgjereshe e betuar. Foto Edith Durham, 1908.

La “burnesha” o “virgjinesha” è la donna che al sopraggiungere della maturità sessuale decide di vivere come un uomo. Una decisione legata più all’identità sociale che alla sessualità. Fa voto di verginità con un giuramento pubblico e ottene, quindi, il permesso di vivere come un uomo. Per questo, si attribuisce un nome maschile, si veste con abiti maschili, porta i capelli corti, possiede un’arma, fuma e beve alcol, svolge lavori maschili e, in alcuni casi, ricopre il ruolo di capofamiglia. Tutte cose un tempo proibite alla donna che, per tradizione, aveva ridotte capacità decisionali, non aveva diritti sui beni della famiglia e sui figli, ed era esclusa dalle faide del clan.
Questa pratica non è scomparsa e ancora oggi, nelle zone montagnose dell’Albania settentrionale, si possono incontrare alcune “burneshe”. Secoli d’isolamento, per via delle zone impervie dei territori, hanno permesso che quest’usanza tribale, arcaica, persistesse sino ai giorni nostri. Un fenomeno sociale che si sta, tuttavia, progressivamente estinguendo: le “Virgjineshe” sono, infatti, ora, circa un centinaio, e sono quasi tutte anziane.
Il giuramento.
Come già detto, l’assunzione del ruolo sociale di uomo era condizionato dal giuramento di “castità totale” (la rinuncia al matrimonio, ai figli, al sesso), espresso davanti ai 12 uomini più influenti del clan di appartenenza. Per le donne che venivano meno al giuramento era prevista l’uccisione, persino attraverso il rogo. Questa regola era codificata dal Kanun, che riconosceva il diritto alla donna di proclamarsi uomo, di comportarsi come uomo e di acquisire tutti i diritti riservati esclusivamente agli uomini, soltanto nel caso in cui questa avesse rinunciato per sempre alla propria sessualità e femminilità. Dal momento del giuramento, la “burnesh” (dall’albanese burré=uomo) acquisiva tutti i diritti che il “Kanun” attribuiva agli uomini: diventava il patriarca della famiglia, mangiava con gli uomini nella stanza dove alle donne era proibito restare, acquisiva il diritto di vendere, comprare e gestire le proprietà familiari, poteva lavorare i campi e prendersi cura del bestiame, possedere il fucile, partecipare alla vendetta tra clan. Aveva, infine, diritto di voto nel consiglio dei saggi del villaggio.  
L’origine del fenomeno.
L’origine del fenomeno delle burneshe, prevalentemente diffuso nelle zone montuose del nord dell’Albania e in Kosovo, ma anche in Serbia, Montenegro e Bosnia e in altre aree dei Balcani occidentali, risale al XV secolo, e nasce come reazione alle regole imposte dal Kanun, l’ antico codice consuetudinario, che aveva codificato un sistema familiare di tipo “patrilineare” (la trasmissione della ricchezza e dell’autorità seguiva la linea maschile) e “patrilocale” (la donna, quando si sposava, si doveva trasferire nel villaggio del marito). La famiglia era basata anche sul clan, e i matrimoni erano spesso uno strumento per stabilire alleanze tra i vari clan.
Le famiglie senza presenze maschili erano considerate come dei paria. Di conseguenza, alcune donne si trovavano, per necessità, ad assumere il ruolo sociale di uomini. Quando in una famiglia nascevano, ad esempio, solo femmine, una di queste assumeva un’identità maschile e diventava una “burnesha”. Questo le consentiva di prendere decisioni al posto del padre anziano o assente, di avere voce in capitolo sulle proprietà della famiglia, sui membri della famiglia e di decidere sui matrimoni - quasi sempre combinati - delle sorelle. Capitava anche che i figli di una famiglia, di solito numerosa, perdessero entrambi i genitori o il padre. In questo caso, una delle figlie più grandi diventava una “burnesh”, assumendo così la patria potestà sui propri fratellini e sorelline.
Le ragioni.
Le donne diventavano “vergini giurate” per “libera scelta”, quando volevano raggirare le privazioni e i soprusi dovuti al fatto di essere donna, celare il proprio lesbismo, poter vivere sole, o per “necessità”, vale a dire per sfuggire ad un matrimonio combinato, nel caso in cui malattie o faide avessero decimato tutti gli uomini della famiglia, in assenza nel nucleo familiare di figli maschi. In quest’ultimo caso, spesso il padre spingeva una delle figlie a farsi uomo.
La conversione di una donna in un uomo soddisfaceva, innanzitutto, la necessità socio-economica di avere in famiglia la presenza di almeno un maschio, l’unico che poteva godere di quei diritti che non erano trasmessi “in linea femminile” (linja e tamblit).
Farsi “vergine giurata” era anche un modo per evitare la vendetta: se una ragazza di un clan rifiutava il fidanzato di un altro clan che le era stato destinato, l’orgoglio ferito dell’uomo rifiutato era causa di vendetta tra i due clan. Se, invece, la donna faceva voto di castità e rinunciava alla propria femminilità, l’obbligo di vendetta veniva annullato.
Bacha posh.
La pratica di travestire le ragazze come ragazzi è tuttora diffusa in certe zone dell'Afghanistan e del Pakistan, in cui le famiglie prive di figli maschi inducono per l'appunto una delle loro figlie femmine a vestirsi e comportarsi come se fosse un ragazzo. Questa pratica, così simile a quelle delle virgjereshe e betuar descritte già da Edith Durhan nei primi del 900, permette alla famiglia d'evitare lo stigma sociale associato al fatto di non aver figli maschi.
In Afghanistan e Pakistan vi è, infatti, una forte pressione sociale perché le famiglie abbiano un figlio maschio che possa portarne avanti il nome ed ereditare la proprietà paterna; ma in mancanza di un figlio i genitori possono decidere di vestire e far vivere una delle loro figlie come un maschio, favoriti anche dalla credenza che questo fatto renderà più probabile per la madre partorire in seguito un vero figlio maschio. Lo scopo di una tale pratica non è quello d'ingannare le persone, in quanto saranno tutti perfettamente consapevoli che il "bambino" è in realtà una femmina.
All'interno della famiglia occuperà uno status intermedio in cui continuerà ad essere trattata né completamente come una donna né completamente come un uomo, non avrà in ogni modo l'obbligo di eseguire le faccende domestiche, ma nella sua qualità di Bacha posh sarà più facilmente in grado di frequentare una scuola, muoversi liberamente in pubblico, scortare le sorelle nei luoghi ove queste non possono recarsi senza essere accompagnate da un maschio e fare sport.
Diversamente dalle burnesha, lo status della bacha posh solitamente si conclude nel momento in cui ella entra nella fase della pubertà.


 (Grazie all'amica giornalista e mediatrice culturale Emanuela Frate)

giovedì 8 giugno 2017

Dashurija ime për vendin ku u isha një fëmije.

(di Elsa Musacchio)
Portocannone. Foto Elsa Musacchio.
Sto seduta davanti al computer e non so come iniziare a raccontare quello che ho provato quando le prime case del paese si sono presentate davanti ai miei occhi. E' stata un'emozione grandissima che mi ha fatto battere il cuore in modo incredibile. Ero finalmente a casa! Nella casa della mia infanzia dove tutto era fantastico. Le corse per le strade e le amiche con le quali si correva in mezzo al brecciolino e ai carri. Sì, ora andiamo tutti in macchina ma, allora il carretto e il cavallo erano i nostri mezzi di spostamento. Si andava al mare col carretto e il telo che serviva per la raccolta delle olive diventava l'ombrellone. E noi tutti eravamo felici per quel poco che avevamo. 
Prima visita a mia cugina Filomena alla quale sono legatissima perché è l'unica forse, che ha tenuto il contatto con la mia anima arbëresh. Agli altri parenti voglio bene ma, sinceramente, li sento un po' estranei. L'ho trovata provata nel fisico ma ha conservato una mente sveglia. 

Elsa con l'amica Cristina.

La Madonna si Costantinopoli. Foto Musacchio
Seconda tappa dalla mia amica Cristina Acciaro. Donna impegnatissima ma sempre disponibile.. Ho portato i miei amici nella nostra chiesa davanti alla nostra Madonna. Anche lì quanti ricordi! Piccolissima fra i banchi stentavo a rimanere tranquilla durante la funzione e le suore, allora sempre presenti nella nostra educazione, mi rimproveravano il giorno dopo dicendo che in chiesa serviva umiltà e decoro. Come si fa a parlare di umiltà e decoro a bambine piccole che andavano dalle suore per il ricamo? A nessuno interessava stare lì seduta quando fuori c'era il sole e la campagna. Infatti spessissimo scappavamo nei campi dove era possibile giocare in mezzo alle piante e salire sugli alberi come ragazzacci, così diceva mia madre. Per la prima volta ho pregato la Madonna forse perché il fisico si è indebolito e i problemi di salute sono tanto per cui bisogna solo sperare di cavarsela. L'ho guardata con altri occhi e mi è sembrato di vederla per la prima volta E' bella e sembra che ti sorrida quando dici una preghiera. Sono uscita emozionata. Alla prossima puntata vi parlerò di come ho vissuto l'attesa per l'arrivo dei carri.
Riprendo a scrivere e a parlare della corsa dei carri . La carrese è l'anima del paese. I buoi corrono ma corrono anche le persone che aiutano i buoi a raggiungere il traguardo per primi.Quando il carro vincitore arriva in paese si alza un boato che penetra si nelle orecchie ma arriva fino al cuore. Una volta, prima dell'arrivo e della partenza dei carri la gente mormora in albanese " Shëmërija ju bakoftë". E' il profano che entra nel religioso perché la frase vuole dire" La Madonna vi benedica". 

Una vecchia foto della Carrese di Portocannone. Autore sconosciuto.
La paura insieme all'eccitazione si tagliava col coltello e famiglie intere aspettavano "Qerret" per vedere i loro cari sani e salvi. Ogni famiglia era rappresentata o dal cateniere o dai cavalieri o dalle persone sopra il carro. Non esistevano più gjërit, miqtë e gjitanija perché quello che importava era il carro che portava integri i partecipanti che poi avrebbero avuto l'onore di portare la Madonna in processione il giorno dopo. 
Io seguivo papà, che essendo stato un cateniere, era il primo ad arrivare in piazza. Allora il carro vincitore doveva entrare attraverso la porta e fermarsi sui gradini della chiesa. Papà mi metteva sulle spalle per farmi vedere meglio l'arrivo. Era mutilato di guerra ma, nonostante la gamba di legno, restava fermo "si lisi" come un albero. Era alto e forte e noi lo adoravamo. Ricordo una volta, quando i carri arrivarono quasi insieme ma vinsero i giovani, papà corse dall'amico cateniere, lo abbracciò e disse" Bërët mirë". Poi mi portò al BAR e mi offrì il gelato.
Lasciamo i ricordi e torniamo al presente. Verso le tre eravamo in piazza in tempo per la benedizione dei carri e per andare al Comune dove avevamo deciso di assistere alla corsa. La corsa! Erano anni che non vedevo i carri correre! 
Mi sono venute in mente le storie che raccontava papà,eravamo in attesa sotto il sole, quando lui, giovane e forte, tirava la catena che aiutava il carro ad andare per la giusta strada. Come ricordo aveva perso le prima falange del dito medio ed anulare della mano destra, perché i buoi avevano avuto uno scatto e lui si era trovato con la catena che stringeva le dita. Papà lo mostrava come un punto di forza e ci ha insegnato ad amare la carrese, perché è non solo la tradizione ma l'anima del paese. 
Abbiamo aspettato l'arrivo insieme a Cristina Acciaro con il cuore in gola. Speravo che i colori fossero giallo e rosso e così è stato. Corsa strana, due carri rovesciati ed arrivati in ritardo. Applausi per tutti e niente risposte alle piccole miserie che uscivano dalla bocca degli sconfitti. Il video che è stato postato ha risolto il mistero. Oggi con calma mi sono abbandonata ai ricordi. Perdonatemi se ho scritto troppo e vi ho annoiati.

venerdì 2 giugno 2017

Il Borsci San Marzano, l'Elisir arberesh.

(di Anna M. Ragno) 
Nel 1840 nel comune di San Marzano di San Giuseppe, il liquorista Giuseppe Borsci, originario di Borshi in Albania, ispirandosi ad un'antica ricetta ereditata dai suoi avi, perfeziona e inizia a produrre il suo Elisir, ponendo fin dalle origini sulla storica etichetta gialla la dicitura "Specialità Orientale" insieme all'aquila bicipite caratteristica del Paese d’origine.
Tutta la storia, quindi, inizia quando il signor Giuseppe Borsci decide di creare un Elisir liquore dal gusto unico ed inconfondibile, facendolo diventare ben presto uno dei liquori più apprezzati in Italia e all'estero.
Dopo moltissimi anni trascorsi a San Marzano, la famiglia Borsci decide di ampliare l'azienda con un nuovissimo impianto all'avanguardia a Taranto. L'Elisir San Marzano Borsci si tramanda così da generazione in generazione, crescendo e diventando una SpA.
Dopo il fallimento dell’azienda, avvenuto nel 2012, lo stabilimento storico dell’industria liquori Borsci di Taranto, viene gestito dal Gruppo CAFFO, nota per la produzione del Vecchio Amaro del Capo. L’azienda calabrese nel 2013 ha ripreso a produrre e commercializzare il più famoso liquore arbereshe, secondo la ricetta ariginaria, che prevede l'utilizzo di spezie come la noce moscata, la cannella, i chiodi di garofano, il fieno greco, il coriandolo, la preziosa mirra e lo zafferano. 
La nomina di Egidio Borsci - quarta generazione della famiglia - a direttore di produzione dello stabilimento di Taranto, dimostra che la nuova gestione si è posta in continuità con la storia e la tradizione del noto liquore nato nel comune arbereshe più grande d’Italia.