ARBËRIA NEWS Blog

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venerdì 30 marzo 2018

Le tradizioni pasquali di Frascineto: i Tintori e il rito del Teschio.

(di Anna M. Ragno)
Durante le celebrazioni per la Pasqua, a Frascineto è consuetudine eseguire le vallje, le tipiche danze, o ridde, albanesi. Le vallje sono formate da giovani vestiti con il ricco costume tradizionale arbëresh, che tenendosi a catena per mezzo di fazzoletti e guidati all'estremità da due figure particolari, chiamati "flamurtarë" (portabandiera), si snodano per le vie del paese eseguendo canti epici, rapsodie tradizionali, canti augurali o di sdegno per lo più improvvisati.
Nelle danze è consuetudine coinvolgere i “lëinjt” (i non albanesi, ossia i latini), che un apposito gruppo di “untori” ha già provveduto ad individuare annerendogli il volto. Contemporaneamente, altri giovani sono soliti ripetere il rito del Teschio (kùtula).

La tradizione dei Tintori. Il martedì di Pasqua, girano per il paese i Tintori, i quali provvedono a segnare con la fuliggine il volto di chi non sa parlare l’arbërisht, chiedendo all’ospite di pronunciare la frase “tumac me qiqrra / tagliatelle e ceci”.


La tradizione del Teschio (kùtula). Giovani incappucciati, vestiti di bianco, impersonano gli “spiriti” che invitano gli anziani (non arbëreshë) a baciare un teschio d’asino o di bue, dicendo: “Mbaj mend se ke të vdesësh (ricorda che devi morire)”.


La frase trae origine da una particolare usanza tipica dell'antica Roma: quando un generale rientrava nella città dopo un trionfo bellico e sfilando nelle strade raccoglieva gli onori che gli venivano tributati dalla folla, correva il rischio di essere sopraffatto dalla superbia e dalle manie di grandezza. Per evitare che ciò accadesse, un servo dei più umili veniva incaricato di ricordare all’autore dell’impresa la sua natura umana e lo faceva pronunciando questa frase: “Memento mori! (Ricordati che devi morire!)”. Il seguito memento mori divenne il motto dei monaci trappisti.



martedì 13 marzo 2018

Le mattre per San Giuseppe.

(di Anna Maria Ragno)


La tradizione delle “tavolate” di San Marzano di San Giuseppe, trae origine dell’usanza di bandire banchetti da offrire ai poveri ed ai forestieri nel giorno della festa di S. Giuseppe, in memoria dell’ ospitalità ricevuta dalla Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto.
Nell’antica comunità arbereshe, che alcuni amano definire “Albania Tarantina”, la realizzazione delle tavolate era affidata alle donne di uno stesso quartiere, che si riunivano in casa per preparare le tredici pietanze, in ricordo dell’ Ultima Cena.

Il 10 marzo di quest’anno, in occasione del 152° anniversario del patrocinio del Santo Patrono, il Comitato feste Patronali ha realizzato una “Mattra” della lunghezza di 152 metri. L’intento degli organizzatore non è stato quello di raggiungere un Guinness dei Primati, ma semplicemente di rafforzare la devozione verso il Santo Patrono.

Le tavolate o “mattre”, come vengono chiamate in arberisht, venivano allestite su tavolieri di legno e disposte lungo la via principale che parte dalla Chiesa Madre. Sovente prendevano l’aspetto di veri e propri altarini a sette piani (simbolo dei sette sacramenti).
Si utilizzano ancor oggi gli alimenti tipici della civiltà contadina: olio, farina, pepe, pesce, legumi ed ortaggi. Non compaiono né formaggio né carne perché costosi e perché la festa coincide con il periodo di quaresima.
Il piatto principale è il pane servito con finocchio ed un’ arancia; segue l’ insalata, i “ lampascioni “ lessati con olio e pepe; fave con olio, pepe ed un’ acciuga; ceci e fagioli conditi nello stesso modo; cavolfiore lessato intero ed insaporito con olio e pepe; riso con sugo ed un pezzetto di baccalà fritto; stoccafisso al sugo; massa di San Giuseppe con olio, “spunzale” ed un pezzo di baccalà; maccheroni lunghi fatti a mano e conditi con miele e mollica di pane fritto; “carteddate” con pepe.
I 13 piatti potevano essere serviti per 3,5 o 15 “Santi” scelti tra le famiglie più povere del paese, che rappresentavano la Sacra Famiglia (da sola o accompagnata da San Gioacchino e Sant’ Anna o dai dodici apostoli)
La sera del 18 marzo, dopo la messa e prima dell’accensione di un falò di proporzioni eccezionali di cui parleremo in seguito, il parroco benedice le tavolate e, dopo che i padroni di casa hanno lavato le mani ai Santi ( gesto rituale che ricorda l’ Ultima Cena), questi possono assaggiare le pietanze. Terminata la rappresentazione il cibo viene offerto ai poveri e/o ai forestieri. Negli anni addietro il rituale prevedeva che i santi facessero il giro delle case dove erano state allestite le tavolate.

La benedizione del pane.
Il rito della benedizione del pane si ricollega all’ origine del culto del santo, protettore dei bisognosi. Il pane, nella forma circolare recante le iniziali di S. Giuseppe o il simbolo della croce, è senza dubbio uno dei protagonisti della festa.
Le donne devote preparano, nei due giorni precedenti i festeggiamenti, l’ impasto che lasciano lievitare per una notte intera. All’alba del 18 marzo viene portato nei forni a cuocere e tutto il paese è invaso dalla fragranza del pane caldo.


La mattina della vigilia si celebra la “ benedizione del pane di San Giuseppe”: la Chiesa Madre è ricolma di grandi ceste piene di pane che, al termine della benedizione, verrà distribuito ai poveri ed ai forestieri. Il pane deve essere spezzato con le mani e consumato dopo aver recitato una preghiera al Santo. Anticamente veniva conservato un pezzo della pagnotta e le briciole venivano sparse nelle campagne per allontanare il cattivo tempo.

Il falò e la processione delle fascine.
Il pomeriggio della vigilia è contrassegnato da un’altra importante cerimonia: la processione della legna, che si conclude con “zjarri e mate”, un falò dalle proporzioni straordinarie, alto anche 10 metri.
L’ origine di questo rito è da rintracciare in un evento accaduto agli inizi dell’ 800, che è rimasto nella memoria collettiva sanmarzanese. A causa delle temperature molto rigide e dell’ eccessiva miseria, gli abitanti del paese decisero di rinunciare ai piccoli falò che abitualmente venivano offerti a S. Giuseppe nei vicoli. Ma durante la notte della vigilia si scatenò sul paese un violento nubifragio, che divelse molti alberi nella campagne. Il fatto venne interpretato come un atto punitivo del Santo. I saggi del paese decisero allora di offrire a S. Giuseppe un unico grande falò da accendere sul largo Monte ( “ laerte Mali” ), in modo da essere visto anche dai paesi limitrofi.
Da allora, per quasi due secoli, la processione dei carri e delle fascine rimane il momento più suggestivo dell’anima popolare e religiosa dei sanmarzanesi.
E’ una processione interminabile che si snoda per le vie del paese e vede la partecipazione di tutti.
Protagonisti della processione sono anche i cavalli, addobbati per l’ occasione con eleganti finimenti. Essi sono ammaestrati a trainare gli enormi carri carichi di fascine, sormontati dall’immagine del Patrono, e a “genuflettersi” davanti alla statua del santo, appena giunti davanti alla chiesa.


Al termine della Messa serale il parroco, dopo la benedizione della legna ( fatta ai quattro lati della catasta, secondo i punti cardinali), accende il fuoco che per tutta la notte illuminerà il paese invocando la protezione del Santo Protettore.