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martedì 29 gennaio 2013

Il battesimo delle bambole: il comparatico arbëresh.



IL RITO DEL BATTESIMO FRA GLI ARBËRESHË
Enzo Spera, docente di Antropologia all'Università di Siena, ha curato per la RAI-TV un servizio su "Il battesimo delle bambole a Barile"; mentre Giovanni B. Bronzini dell'Università di Bari, cattedra di Tradizioni Popolari e V. Presidente nazionale F.l.T.P., lo ha ampiamente studiato a San Paolo e San Costantino Albanese (Potenza), pubblicando diversi saggi e pubblicazioni.
Il battesimo fra gli Arbëreshë, come rito di ingresso ufficiale nella comunità cristiana, ha tutt'altro significato e diversa modalità di somministrazione. Emerge - soprattutto - in tale evento la suggestiva figura, in sfarzosi paramenti greco-bizantini, del papàs (il sacerdote orientale, presente in circa trenta comunità etniche del territorio italiano) davanti all'ikonòstasi, mentre l'ispirata corale intona i canti dell'iniziazione (in lingua: 'Ndrikuila-kumbari e/o 'NdrikuilaNuni) il papàs - dopo aver introdotto "prindet" (i genitori) e tutti i parenti ("gjirit") alla liturgia bizantina con le litanìe diaconali - avvia la benedizione dell'acqua e dell'olio.
Questa fase rituale viene accompagnata, dal celebrante, con tre segni di croce sulla "Kolinvithra" e da una triplice alitazione. Indi il papàs invita i testimoni a porgergli la creatura (fàmulli se maschio, fàmulla se femmina) senza alcun indumento, perché possa immergerla tre volte ancora nel bagno "di purificazione " dal peccato originale (lo stesso in India si effettua, mutatis mutandis, nelle acque del "sacro" fiume Gange).
Un'altra caratteristica della spiritualità bizantina risiede nel conferimento immediatamente successivo secondo quei canoni, del sacramento della cresima e della stessa comunione. La 'Kolinvithra" è, generalmente, una grande bacinella in rame artisticamente lavorato. Segue, dopo la cerimonia religiosa, lo scambio dei regali da parte dei testimoni che entrano, così, a far parte di quella famiglia e di quella rete sociale di solidarietà (in Arbéresh, definita "gitonìe") oppure, con il poeta, "besa gjiakut" (la promessa inalienabile di fede e lealtà verso la memoria ed il sangue degli antenati skipetari). Va anche detto che l'origine tradizionale, teste descritta, sta diffondendosi, a macchia d'olio, nelle numerose comunitna alloglotte d'Italia, così come nelle grandi città che ospitano folti gruppi d'immigrati della nostra "Arberìa": Torino, Milano, Firenze, Roma, Bari, Cosenza e Palermo.

Fotografia, Roberto Alzani
Montaggio, Bruno Perna
Regia, Sandro Lai

venerdì 18 gennaio 2013

Tutto fa brodo. I costumi di Piana.

di Anna Maria Ragno

Le figurine Liebig venivano allegate alle confezioni delle tavolette di estratto di carne, l’antesignano del dado per brodo. I costumi qui raffigurati dell’Eparchia di Piana dei Greci, come veniva chiamata allora Piana degli Albanesi, fanno parte di una serie di sei figurine dedicate ai costumi folcloristici della Sicilia, che riportano la data del 1958. La figura di sinistra è accompagnata dalle seguente didascalia:

“Il costume di Piana dei Greci deriva dal ceppo albanese, trapiantatosi in Italia, per le persecuzioni dei Turchi, fra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI, e tuttora conserva i caratteristici attributi orientali. Il costume si compone della “zilona”, che è un’ampia gonna di seta o di taffettà nei vari colori del rosso, arricciata alla vita quasi tutta sul dietro, con splendidi ricami in oro, a foglie, che ricordano i parati del ‘500 e del ‘600. Sulla gonna vi è il “crascéte”, bustino i seta scura ricamata, al quale si attaccano le “mengheté”, che raccolgono le maniche della camicia e sono maniche esse stesse, con fioriti ricami. La camicia è di finissima tela di lino, funziona spesso da corpetto ed è ornata di ricami e pizzi d’alto pregio. Alla vita vi è una pesante cintura d’argento detto “bresi”, allacciata sul davanti con uno scudo che raffigura, in rilievo, l’immagine di San Giorgio che uccide il drago, o San Nicolò patrono delle colonie albanesi, o la Madonna dell’Odigitria. Le calze sono bianche, lavorate ad uncinetto; le scarpe di pelle, con fibbia, oppure dello stesso tessuto della gonna. L’abito si completa spesso con un grembiule nero con gli orli sfilati e con una mantellina di seta, bordata di ricami in oro e foderata di seta rosa. Gli orecchini sono d’oro o d’argento, e la collana è di prezzo; questa viene talvolta sostituita da un nastro di velluto che sostiene un gioiello d’oro finemente lavorato. Molto spesso il costume viene tramandato, in dote, dalla madre alla figlia ed i preziosi ricami della camicia e della gonnella, di particolare finezza, richiedono un impegno di parecchi anni”.


La figura di destra riporta una didascalia che differisce di poco dalla precedente, eccezion fatta per la descrizione più particolareggiata dei ricchi gioielli del secondo costume:

“Si compone di una gonna di pesante taffettà o di seta, molto ampia, o con un’arricciatura alla vita portata quasi tutta sul dietro, ed è guarnita da ricchi ricami in oro. La camicia è in tela di lino, con ricami e pizzi di gran pregio e porta al collo un risvolto ricamato e trinato. Il corpetto è molto attillato e si allaccia sul davanti con nastri; le maniche sono trattenute da nodi di seta. La vita è cinta da una pesante cintura d’argento detta “brezo” o “bresi”, allacciata sul davanti con uno scudo raffigurante, in rilievo, l’immagine di San Giorgio che uccide il drago, o San Nicolò patrono delle colonie albanesi, o la Madonna dell’Odigitria. Le calze sono bianche, lavorate ad uncinetto; le scarpe di pelle, con fibbia, oppure dell’identica seta della gonna; gli orecchini sono in oro o in argento con brillanti, rubini, perle; spesso hanno pendagli di preziosa fattura. La collana è in oro lavorata o è sostituita da un nastro di velluto che porta una crocetta d’oro con pietre. Tutto insieme è fuso in un delicato accordo di toni e di motivi e costituisce un esemplare modello di perfetta eleganza”.


Sitografia: 


giovedì 17 gennaio 2013

Lamento per la morte di Skanderbeg

di Anna Maria Ragno
Ritratto dell’eroe Giorgio Castriota Skanderbeg 
esposto agli Uffizi di Firenze.  E’ stato attribuito a Cristofano dell'Altissimo (c. 1525–1605).
Giorgio Castriota Skanderbeg morì il 17 gennaio 1468 ad Alessio, di febbre malarica. Quando il sultano Maometto II apprese la notizia della sua morte esclamò: "Se non fosse vissuto Skanderbeg, io avrei sposato il Bosforo con Venezia, avrei posto il turbante sul capo del Papa ed avrei posto la mezzaluna sulla cupola della Chiesa di S. Pietro a Roma!" Prima di cadere definitivamente nelle mani dei Turchi, l'Albania resistette, dopo la morte di Skanderbeg, quasi per altri 20 anni. Da allora, molti albanesi, per salvare la loro Libertà e la loro Fede, si rifugiarono nel Regno di Napoli, dove Ferdinando d'Aragona li accolse benevolmente, memore dei benefici ricevuti da Skanderbeg.

VDEKJA E SKANDERBEGUT  
Skoj një ditë mijegullore
mjegullore e helmore,
foka qielli doj të vaitonej,
pra tue e ditur me shi
nga tregu një thirmë u gjegj,
çë hiri e shtu lipin
ndër zëmrat e ndër pëlleset! 
Ish Lekë Dukagjini:
ballët përpiq me një dorë
shqir leshtë me jatrën:
- «Trihimisu, Arbëri!
Eni zonja e bularë
eni të vapëhta e ushtërtorë,
eni e qani me hjidhi!
Sot të varfëva qëndruat,
pa prindin çë ju porsinej,
ju porsin e ndihnej.
E më hjenë e vashavet,
më harenë e gjitonivet,
as kini kush të ju ruanjë.
Prindi e Zoti i Arbërit
ai vdiq çë somenatë;
Skanderbeku s'është më!»
Gjetin sjpitë e u trihimistin,
gjetin malet e u ndajtin,
kambanart'e qishëvet
zunë lipin mbë vetëhenë;
po ndër qiell të hapëta hinej
Skanderbeku i pa-fanë! 
(Rapsodie e scene di vita degli albanesi 
di Calabria, Papas Prof. Giuseppe Ferrari, 
Teologo dell'Eparchia, Docente 
all'Università di Bari. Lungro 1959. 
Tipografia SCAT- Cosenza)

LA MORTE DI SKANDERBEG
Passò un giorno nebbioso,
nebbioso e malinconico,
quasi pianger, pare, volesse il cielo.
Venne il novo mattino
tetro, pioviginoso;
dalla piazza s'udì tremendo un ululo,
sparse nei cuori il gelo,
nei palagi portò lacrime e lutto.
Plorava urlando Lek Dukagjino,
con una mano si percotea la fronte
e con l'altra strappavasi i capelli:
- Scuoti dal piano al monte
tutti i cordini tuoi, scuoti, Albania,
agli occhi nostri tutto
s'oscura il mondo: Skander non è più!
Matrone e cavalieri qui accorrete,
venite qui, soldati e poverelli,
il Grande a calde lagrime piangete.
Orbi oggi tutti siete
del padre, della guida, dell'aiuto;
oggi avete perduto
quei che vi custodìa
l'onore delle vergini,
dei villaggi la pace e l'allegria.
Grave giorno di lutto!
Stamane è morto il Principe,
il padre dell'Albania,
s'oscura il mondo tutto:
Skandergeg non è più! -
Alla feral notizia
i palazzi tremâr dai fondamenti,
cadder le rupi e seppelir le fonti;
dai campanili delle chiese in lenti
tocchi annunziâr le squille il grave lutto.
In alto, dell'empireo
s'aprì l'etereo velo
e Skanderbeg magnanime
e sventurato in gloria entrò nel cielo. 

Il Lamento per la morte di Skanderbeg nell'interpretazione appassionata e dal vivo della cantante arbëreshe Silvana Licursi.





venerdì 4 gennaio 2013

In te si rallegra tutto il Creato: l'icona che canta.

di Anna Maria Ragno
Icona dell’Epì sì Chèri

Fra i tesori della Parrocchia di San Nicola di Myra di Mezzojuso, figura la bellissima icona dell’Epì sì Chèri. La tavola, unica nel suo genere, illustra completamente il Theotòkion (detto anche Tropario) alla Madre di Dio. Attribuito a Giovanni Damasceno, il Tropario, che rappresenta una vera e propria composizione poetica cantata solitamente durante la Liturgia domenicale, inizia con questa bellisssima invocazione: “In te si rallegra, o piena di grazia, tutto il Creato”. Il canto proviene dall’Ochtoèchos, il libro liturgico che comprende l’officiatura domenicale per i Vespri e i Mattutini, e sembra sia stato aggiunto in epoca non determinata alla Liturgia di San Basilio, dove, come già detto, funge da Megalinàrio, cioè da Inno in onore alla Madre di Dio dopo la Consacrazione. 

La tavola è firmata da Léos Moskos, pittore della scuola siculo-cretese, attivo a Zante e a Venezia intorno alla seconda metà del XVII secolo. Misura cm 59x69 e ha  quindi dimensioni superiori a quelle normalmente associate alle icone destinate alla devozione privata. I princìpi iconografici e compositivi a cui si ispira l’icona, si rifanno sicuramente al modello fortemente innovativo di Theodros Poulakis, suo contemporaneo, che ci ha lasciato una serie di icone dedicate allo stesso soggetto. 

Il pregio dell’icona è dato dal modo attraverso cui l’iconografo, “scrivendo l’icona”, ha illustrato l’inno, utilizzando una serie di piccole composizioni dal diverso orientamento tematico, disposte in tre registri. L’iconografo, quindi, ha reso visibile quanto contenuto nella preghiera, che così recita: “In Te si rallegra, O Piena di Grazie, tutto il Creato, gli angelici cori, e l’umana progenie (primo registro, in alto), o tempio santificato e paradiso, vanto delle Vergini (secondo registro, al centro). Da te ha preso carne Dio ed è diventato infante Colui che prima dei secoli è il nostro Dio. Del tuo seno, infatti, Egli fece il suo trono, rendendolo più vasto dei cieli (terzo registro, in basso)”. 

L’icona, dice papàs Di Marco, è Anamnesi, cioè ricordo e richiamo;  Kèrisma, cioè annuncio e catechesi; Theoria, cioè contemplazione e preghiera; richiamo alla Tradizione; annuncio e dichiarazione di una presenza; contemplazione e coinvolgimento vitale per un cammino di speranza. L’icona del canto alla Madre di Dio rappresenta anche la relazione fra iconografia e musica bizantina, uno degli aspetti meno investigati della tradizione culturale e religiosa arbëreshë di Rito greco bizantino. Anche questo Inno, infatti, appartiene al grande ceppo della Musica Bizantina, della quale conserva le caratteristiche:

La grammatica musicale del repertorio liturgico arbëreshe, analogamente al canto gregoriano, non è basata sulla sensibilità tonale e sulla opposizione fra modi maggiori e minori che caratterizza la musica colta occidentale. Il suo sistema musicale è infatti di tipo modale e non tonale.  Questo sistema (modale) viene definito anche “ piano o orizzontale”. Quello che conta (anche nella polifonia) è la melodia di ciascuna voce, il procedere orizzontale delle note. Non è per niente presente il concetto di verticalità, ossia il concetto di una relazione tra le voci che non sia di tipo melodico ma di tipo armonico: il concetto di accordo è del tutto estraneo alla modalità. Quest’ultimo aspetto non è di poco conto, perché alla base c’è l’idea che il coro degli Angeli e i Serafini, a cui si rifà la melurgia bizantina, non può sfidare o competere con Dio in altezza. 

Il suo sistema musicale modale del repertorio abëreshë rimanda alla teoria bizantina dell'oktoíchos. Le melodie, infatti, obbediscono alla divisione modale della musica bizantina che comprende otto modi o “ìchì” con caratteristiche proprie di ogni “ìchos”. La divisione che non è esterna e formale, ma investe la struttura intima di ogni canto.

A differenza delle melodie della musica occidentale, rigidamente inquadrate nel rigo musicale e nel pentagramma, nelle melodie bizantine non esiste il rigo musicale. Gli intervalli, variamente intecciati e disposti, vengono determinati da simìa, coè da segni (o neumi), che man mano hanno sostituito i cenni della mano di chi dirigeva il coro.

Le forme poetico-musicali ancor oggi in uso, sono quelle dell'innografia bizantina: dalle semplici linee del tropario, come nel caso di questo canto alla Madre di Dio, alla complessità del contacio e del canone. Forme "minori", tra le altre, sono la katavasía, il theotokíon, lo stikirón. L’elemento fondamentale è il tropárion, una sorta di inno monostrofico a schema e metro liberi, che assume nomi diversi a seconda del soggetto o delle sue caratteristiche.

La trasmissione orale dei canti, nei termini illustrati, consente ai fedeli, per lo più in difetto di conoscenze musicali tecniche, di appropriarsi di un patrimonio che, secondo le occasioni, provoca atmosfere di grande suggestione psicologica e di profonda adesione spirituale. La tradizione musicale liturgica come tale è espressione di processi di autoidentificazione che rinforzano il senso di appartenenza alla comunità.

Per concludere, la relazione melurgia-iconografia bizantina rivela una mistica che è assoluta trascendenza, in quanto espressione di valori ultrasensibili, Presenza dell’Invisibile, sguardo dell’Uomo su Dio e di Dio sull’Uomo, finestra aperta sul mistero della Madre di Dio, in cui tutto il Creato si rallegra, divenendo sintesi di colore e suono.

Biblografia:
Pietro Di Marco (a cura di), Icone, arte e fede,  La Brinja soc. coop. a r.l., Comune di Mezzojuso, 1996-1997
Maria Concetta Di Natale (Catalogo a cura di), Arte sacra a Mezzojuso, Arti Grafiche SicilianeS.r.l, Palermo, 1991
Sitografia:




La Natività

di Anna Maria Ragno

Su questa icona è raffigurato tutto il messaggio evangelico dell’incarnazione di Gesù dalla Vergine Maria, insieme ad altri dettagli aggiunti dalla tradizione.
     Icona della Natività di ANDREJ RUBLEV, il più famoso iconografo russo.
Nel diagramma qui mostrato, tratto da un disegno per un’icona, possiamo individuare almeno 8 elementi principali.
Il centro dell’icona è rappresentato dalla nascita di nostro Signore dalla Vergine Maria (1), che viene mostrata più grande di tutte le altre figure, sdraiata su una stuoia, mentre guarda non verso il Bambino, ma verso san Giuseppe (7), che viene mostrato in basso a sinistra, mentre conversa con Satana, travestito da vecchio pastore. La postura di san Giuseppe è quella del dubbio e del travaglio interiore, per lui che si chiedeva se fosse possibile che il concepimento e la nascita non venissero da qualche unione umana segreta. Il Bambinello è mostrato in fasce, che giace in una mangiatoia, “perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Cfr Luca 2). Lo sfondo del presepe è una grotta (3), nella quale ci sono un bue e un asino, dettagli non citati negli evangeli, ma che rappresentano una caratteristica invariabile di ogni icona della Natività. (2) Al di sopra di questa composizione centrale, nel centro stesso dell’icona vi è la stella che ha guidato i Magi (6). Lateralmente si vedono gli Angeli (4) mentre glorificano Dio e portano la buona novella della nascita del Signore ai pastori (5).  Il dettaglio finale di questa icona, la scena del lavaggio del Signore (8) è un elemento che ha causato qualche polemica nel corso dei secoli. In alcune chiese dei monasteri del Monte Athos, la scena negli affreschi è stata deliberatamente cancellata e sostituita con cespugli o pastori. Era opinione comune che questa scena fosse degradante verso Cristo, che non aveva bisogno di essere lavato, essendo nato in una maniera miracolosa da una vergine pura.

SITOGRAFIA:
http://makj.jimdo.com/

La Madonna dell' Elemosina

di Anna Maria Ragno
Madonna dell' Elemosina

Il titolo "Mater Elemosinae" traduce il greco "Eleùsa" (misericordiosa, pietosa, che ha compassione) ed esprime un particolare attributo di Maria: Madre di Misericordia. Tale appellativo venne per primo attribuito da S. Oddone (+ 942) per celebrare la Vergine che ha generato Gesù Cristo, che è la Misericordia visibile dell'invisibile Dio misericordioso: perciò Maria, in quanto Madre di Cristo, è anche Madre della Misericordia, che offre attraverso le sue braccia per la salvezza di tutti gli uomini ed intercede potentemente come divina amministratrice delle Grazie. Questa fiducia nella potente intercessione della Madonna si esprime nella celebrazione della sua bellezza; come Lei stessa rispose quando interrogata: "Sono così bella perchè amo così tanto." In Maria il vero e il bene si offrono alla contemplazione e dalla loro simbiosi scaturisce il bello.  Maria, infatti, per i siciliani, prima ancora che "Santa" è "Bella", perciò si continua ad invocarla tra la gente comune col titolo di "Bedda Matri" in particolare a Biancavilla "Bedda Matri 'a Limosina" (la Bella Madre dell'Elemosina).
La particolare raffigurazione degli organi di senso (occhi senza luccichìo, orecchie di forme strane, naso sottile e lungo, narici piccole, bocca sempre chiusa), esprimono la sordità alle manifestazioni del mondo, un distacco da ogni eccitazione. Il volto appare trasfigurato, eterno, esso appartiene al mondo spirituale; la bellezza è la purezza spirituale. Le vesti seguono il corpo in perfetta logica, ma non mostrano la materia reale e concreta; il ritmo delle pieghe, il colore e la distribuzione delle luci e delle ombre sono sottoposti alle leggi dell’armonia e dell’equilibrio, e nell’economia dell’icona esprimono “l’abito dell’incorruttibilità”. Nel 1482, a seguito della vittoria dei turchi musulmani sulla terra d'Albania, una colonia di profughi, proveniente dalla città di Scutari e guidata da Cesare De Masi, sbarcò in Sicilia, portando con sè il loro tesoro più prezioso: l'icona bizantina della Madre di Dio, una reliquia del soldato martire d'Arabia, Zen, e una croce in legno di stile orientale.
La destinazione finale del piccolo gruppo di esuli era Palermo, ove contavano di congiungersi agli altri loro conterranei nell'attuale Piana degli Albanesi. Durante il loro viaggio gli esuli sostarono a 30 km circa da Catania, in un campo denominato "Callicari", proprietà dei Conti Moncada di Adernò. Dopo aver piantato l'accampamento appesero la sacra icona ad un albero di fico ove agevolmente poter svolgere le funzioni di culto. Però, dopo una notte, al mattino, al momento di riprendere il viaggio, gli esuli trovarono la loro icona interamente aggrovigliata fra i rami del fico, cresciuti nottetempo, al punto che non fu loro possibile districarla senza fare danni. L'evento prodigioso fu interpretato come la chiara volontà della Madonna, di rimanere in quel luogo, ove il piccolo gruppo potesse trovare una nuova patria. Lo stesso Conte Gian Tommaso Moncada, signore del luogo, rimase profondamente colpito da quegli accadimenti, concedendo così il massimo dell'ospitalità al piccolo gruppo di albanesi.

http://www.reginamundi.info/icone/elemosina.asp


giovedì 3 gennaio 2013

La Vergine dalle tre mani

di Anna Maria Ragno
L’icona della Vergine dalle tre mani, detta Tricherusa o Troerucica, è legata a San Giovanni Damasceno (nato a Damasco, 676 ca. e morto a Laura di San Saba nel 749 ca.), che è stato monaco, sacerdote e teologo. Di famiglia araba e di fede cristiana, lottò strenuamente con i suoi scritti in difesa del culto delle sacre immagini e contro l'iconoclastia, decretata dall'imperatore di Costantinopoli Leone III nel 726. Divenuto monaco nel monastero di Mar Saba vicino a Gerusalemme, si dedicò alla composizione di inni sacri fino alla morte. E’ ricordato tradizionalmente il 4 dicembre (con memoria facoltativa), data alla quale è stato riportato nel Nuovo Calendario del Concilio Vaticano II, dopo essere stato a lungo ricordato il 27 marzo.
Icona della Vergine Tricherusa
                                                                                 La tradizione vuole che la lotta dottrinale tra Giovanni e l'imperatore Leone III di Bisanzio, abbia visto Giovanni Damasceno  vittima della violenza dell'imperatore, che lo accusò ingiustamente dinanzi al califfo, facendogli amputare la mano destra. Durante la notte, assorto in preghiera, Giovanni promise alla Madre di Dio, che se l'arto gli fosse stato restituito, avrebbe continuato a difendere con la sua opera dottrinale la venerazione (proskynesis) delle sacre icone. Le sue preghiere furono esaudite e l'arto fu recuperato miracolosamente. Come ex voto Giovanni fece porre una mano d'argento all'icona che aveva pregato con tanto fervore e questa da allora fu chiamata l'icona de La Madre di Dio delle tre mani, detta Tricherusa o Troerucica. 

Invece la leggenda devozionale  dice che Giovanni avrebbe offerto la mano tagliata ad un'immagine della Madonna, senza chieder nulla. Dall'icona sarebbe uscita una mano della Vergine, che avrebbe riattaccato l'arto offeso. Allora Giovanni fece applicare all'icona una mano votiva d'argento. Col successo delle tesi del Santo, crebbe anche la fama di questa Madonna con tre mani, detta, frequente nell'iconografia ortodossa, di cui si conserva una copia preso il Monastero di Hilandar, nella penisola del Monte Athos, repubblica monastica in territorio greco.

Un’altra leggenda dice che  l'imperatore Leone III Isaurico fece tagliare la mano destra al santo perché questi difendeva strenuamente le immagini sacre. La Madonna tuttavia gliela riattaccò lasciandogli un segno rosso sul polso. Giovanni Damasceno viene quindi per questo raffigurato a volte monco, o con una linea rossa attorno al polso destro. Il turbante indica la sua origine siriaca. San Giovanni è il Patrono di pittori, monchi e farmacisti.

Una grande immagine di san Giovanni Damasceno si trova nella chiesa di San Blandano di Bronte, ai piedi dell'Etna, dove è ritratto nella pala destra dell'altare con tre braccia, due protese a venerare la Vergine, una nell'atto di scrivere.

 

Il canto del lievito

di Anna Maria Ragno

Nei paesi arbëreshë della Calabria, quattro giorni prima del matrimonio, viene cantata questa rapsodia, che Giuseppe Ferrari, papas dell’Eparchia di Lungro e docente all’Università di Bari, inserisce nel Ciclo del matrimonio. Il pane, che è sempre stato simbolo di potere, di ricchezza e di vita stessa, qui evoca la fertilità, magicamente propiziata attraverso il lievito. Questo canto rientra quindi nell’ambito di quelle celebrazioni rituali intese a promuovere ogni forma di energia generativa e vitale nel mondo naturale e umano.


KËNGA E BRUMIT
Se ti vashëza hadhjare,
me mbë shpi t'ëm'ëm e t'ët atë,
sa hadhjare edhe dëlirë,
çë më ngjeshën ata brumë,
ngjeshe fort e ngure shumë.
Bën kuleçë e m'i dërgo
gjithë gjirivet mbë shpi,
gjithë gjitonëvet mbë derë,
të t'mburonjë buka ndër duar,
të të shtohen ditët e mira,
të t'zbardhet ajo jetë
pjot me dritë e me hare
si e bardhëz je ti vetë. 
* * *
E kur një bir të ketë ajo zonjë,
më ju rritët e ju bëftë trim,
me defugen ndër duar 
e me shpatëzën ndë brest.
Pra nd'amahjit m'e dërgoftë
sa t'i priret mbë shpi
me hie pjot e me argjënd,
e turkeshëzën m'i sjelltë
për hare të gjitonisë. 
* * *
Se një vashëz kur të ketë,
më ju rritët e m'i pastë hje,
m'e martoftë dymbëdhjetë vieç
e pastë miell e më bëftë kuleçë,
e pastë tri nore kriate
t'i kujdesjën nga menatë
bijt'e shpin' e asajë zonjë
e t'i bëjën hje për monë.

CANTO DEL LIEVITO
O giovinetta di grazie adorna,
con in casa e padre e madre
quanto di grazie ornata, igenua tanto;
tu che ora quel lievito m'impasti,
spianalo forte e induralo assai.
Fa' le ciambelle e mandale 
ad ogni casa dei parenti,
ad ogni porta dei vicini
che il pane in man ti si moltiplichi,
ché ti accresca il numero dei dì felici,
ché la tua vita sia radiosa
di luce piena e d'allegria
così come radiosa sei tu stessa. 
* * *
E quando un figlio quella signora n'abbia,
possa egli crescere e farsi un baldo giovane
che sappia maneggiare il suo fucile
e la spada al cinto porti.
Poi baldanzoso parta per la guerra,
e salvo a casa ritornato,
d'argento carco e d'onore grande,
con sé riporti ancor la giovanetta turca
per allietare del vicinato il coro. 
* * *
Una figliola poi quella signora n'abbia
e bella cresca e le sia d'onore,
e a dodici anni la possa maritare,
e m'abbia sempre farina e farsi torte
e ancora tre donzelle assai prudenti,
ch'ogni mattin si prendan cura 
dei figli e della casa della signora
e le siano sempre a decoro. 

(Rapsodie e scene di vita degli albanesi di Calabria, Papas Prof. Giuseppe Ferrari, Teologo dell'Eparchia, Docente all'Università di Bari. Lungro 1959. Tipografia SCAT- Cosenza)

La keza delle donne maritate.

di Anna Maria Ragno
di Santa Sofia d’Epiro. Di velluto o raso, veniva ricamata sul telaino con fili dorati ed argentati. Generalmente i ricami riproducevano in forma stilizzata uccelli, fiori o l’aquila bicipide, simbolo della stirpe albanese. Foto di Nicodemo Misiti.
Elemento indispensabile della dote di ogni ragazza arbërëshe, la Keza è il simbolo del nuovo status sociale che la donna acquisterà con il matrimonio.  Giuseppe Ferrari, papas dell’Eparchia di Lungro e docente all’Università di Bari, che ha raccolto i canti del Ciclo del matrimonio, ha trascritto anche questo bellissimo canto di fidanzamento dal titolo “Il cipresso e la vite”, in cui per l’appunto la Keza viene citata come elemento indispensabile dei beni dotali della sposa, in genere comprendenti il corredo (biancheria e utensili per la casa) e i beni immobili e fondiari (case e terreni).


QIPARISI E DHRIEJA
Bëri këshillë Zonja Lenë
po vetëm me trezë bujarë
nënë mollë e nënë dardhë,
nënë kumbullzën e bardhë,
të martojin dhrinë e bardhë,
të m'i jipin qiparisin:
«Qiparis i hjeshmi
çë të jep tina jot'ëmë?»
«Çë palë mua më taksi tata».
Malin më taksi me kafsha,
më taksi fushazit me ara,
perivol edhe me lule,
pjot me zoq e me kangjele,
katër kuej e t'armatosur,
katër shatra kaluar»
«Thuaj ti dhri e dhriza e bardhë,
çë stoli të taksi yt atë»
«Çë stoli më vjoi mëma?
Nëndë cohë e nëndë linjë,
nëndë brezëz të rëgjëndë,
nëndë keza të vëlushta
të tërjorme me ar,
nëndë sqepez të hollë
edhe sqepin me kurorë
më jep pesë nore kriate
edhe mua t'bukurën!»


IL CIPRESSO E LA VITE
Radunò a consiglio donna Elena
i tre nobili bugliari
sotto il melo,sotto il pero,
sotto l'ombra del bianco pruno:
maritar con il cipresso
si volea la vite bianca.
- O cipresso, ella le chiese,
o cipresso d'ombre estese,
che daratti mai tua madre?
- Ha la mamma a me promesso
pien d'armenti una montagna,
un giardino pien di fiori,
che d'augelli ha lieti cori,
due pariglie di giannetti
con complete bardature
e due coppie di valletti.
- O mia vite, bianca vite,
qual corredo, di' tu pure,
t'ha promesso il signor padre?
- A me il babbo m'ha promesso
nove zoghe tutte nuove,
nove keze vellutate
tutte in oro ricamate,
nove ancor sottili veli,
nove ancelle assai fedeli
ed ancor la mia beltate. 
(Rapsodie e scene di vita degli albanesi di Calabria, Papas Prof. Giuseppe Ferrari, Teologo dell'Eparchia, Docente all'Università di Bari. Lungro 1959. Tipografia SCAT- Cosenza)

La Keza ha una forte attinenza con il Flammeun, il velo color fiamma, ossia arancione, rosso o giallo, che faceva parte dell’abbigliamento tradizionale della sposa romana. La valenza di questo capo di abbigliamento per la sposa romana era tale che l'atto di 'sposarsi' per la donna era detto nubere, ossia in senso proprio "velarsi, prendere il velo". Come per la donna arbërëshe, una volta sposata, la donna romana era destinata a non uscire mai più di casa a testa nuda. 
Secondo alcuni il Flammeum aveva una valenza simbolica negativa, in quanto rappresentava la rinuncia alla libertà e la reclusione fra le pareti domestiche. La Keza ha invece una valenza più positiva e distintiva, perché rappresenta il nuovo status sociale della donna arbërëshe e il rispetto dei doveri mulibri e dei valori tradizionali della famiglia.