ARBËRIA NEWS Blog

ARBËRIA NEWS Blog

Visualizzazioni totali

venerdì 15 giugno 2012

Chi ha riportato Doruntina? Il mito, la Besa, il Kanun.

di Anna Maria Ragno
(da Albania news)
Il Kanun è una legge che è stata raccolta come i chicchi di grano in questa grande povertà. (Ndrek Pjetri)
Doruntina e Kostandin



Chi ha riportato Doruntina?
Il mito, la Besa, il Kanun.
Il mito di Doruntina e Costantino racconta una storia, che ogni Albanese e ogni Arbereshe conosce: l’unica figlia di una vedova, viene sposata lontanissimo dal fratello, il quale promette all’anziana donna,  oramai costernata dalla guerra e dalla povertà, di riportarle l’amata figlia ogniqualvolta ne avesse bisogno. Ma l’inverno per la povera donna è stato molto duro e freddo, le ha fatto perdere nove figli sul campo di battaglia, tra cui Costantino. Piangente sulla tomba del figlio, la donna lo rimprovera d’essersene andato senza aver tenuto fede alla promessa (Bessa) di riportarle Doruntina. Allora Costantino esce dalla tomba e, dopo un lungo viaggio, riporta la sorella della madre.


Kush e solli Doruntinën
(Chi ha riportato Doruntina)
Il grande scrittore Ismail Kadarè, nel suo libro “Chi ha riportato Doruntina?”, attingendo al grande patrimonio leggendario del suo Paese, ripropone  il mito di Costantino come un thriller fuori dal tempo. Il capitano Stres, incaricato di far luce sull’evento, così riferisce sull’accaduto:

“Voi tutti avete già sentito parlare (….) delle strane nozze di Doruntina Vranaj, nozze che stanno all’origine di questa storia. Saprete certamente, ritengo, che questa unione lontana, la prima conclusa in un Paese tanto distante, non sarebbe avvenuta se Costantino, uno dei fratelli della sposa, non avesse dato la propria parola alla madre di riportarle Doruntina ogniqualvolta lei avesse desiderato la sua presenza, in occasione di gioie e di dolori. Sapete anche che i Vrenaj, come tutti gli albanesi, non hanno tardato a essere colpiti da un lutto atroce. E tuttavia, nessuno riportò Doruntina, perché colui che aveva promesso di farlo era morto. 

Siete anche al corrente della maledizione che la signora-madre pronunciò contro il proprio figlio per violazione della bessa, e sapete che, tre settimane dopo che fu proferita quella maledizione, Doruntina riapparve infine in casa dei suoi. Ecco perché affermo e ribadisco che Doruntina non è stata riportata da altri che dal fratello Costantino, in virtù della parola data, della sua bessa. Quel viaggio non si spiega né potrebbe spiegarsi altrimenti. Poco importa che Costantino sia uscito o no dal sepolcro per compiere la propria missione, poco importa di sapere ch fu il cavaliere che partì in quella notte oscura e quale cavallo sellò, quali mani tennero le redini, quali piedi poggiarono sulle staffe, di chi erano i capelli ricoperti della polvere del cammino. Ciascuno di noi ha la sua parte in questo viaggio, perché la bessa di Costantino, colui che ha riportato Doruntina, è germogliata qui fra noi. E dunque, per essere più precisi, si può dire che, attraverso Costantino, siamo stati noi tutti, voi, io, i nostri morti che riposano nel cimitero accanto alla chiesa, a riportare Doruntina.”

“ Nobili signori (…) vorrei dirvi (….) che cosa è questa forze sublime in grado di infrangere le leggi della morte. (….) Cercherò di spiegarvi perché questa nuova legge morale è nata e si diffonde fra di noi.”


“Ogni popolo, di fronte al pericolo, affina i suoi strumenti di difesa e –questo è l’essenziale- ne crea di nuovi. Bisogna avere la vista corta per non comprendere che l’Albania si trova di fronte a grandi drammi. Presto o tardi, giungeranno fino ai suoi confini, se già non vi sono arrivati. Allora, si pone la domanda: in simili nuove condizioni di aggravamento dello stato generale del mondo, in quest’epoca di sfide, di crimini e di odiose perfidie, quale sarà il volto dell’Albania? Sposerà il male o vi si opporrà? In breve, cambierà volto per adattarsi le maschere dell’epoca, onde assicurare la propria sopravvivenza, o manterrà un volto immutato, col rischio di attirare su di sé la collera dei tempi? L’Albania vede avvicinarsi l’era delle prove, della scelta fra quei due volti. E, se il popolo albanese ha cominciato a elaborare nel più profondo di sé delle istituzioni tanto sublimi quanto la bessa, ciò sta ad indicare che l’Albania è sul punto di fare la sua scelta. E’ per portare questo messaggio all’Albania e al resto del mondo che Costantino è uscito dalla tomba.”

La Besa, o Bessa, come dice Kadarè è all’origine stessa della società albanese. Dalla Besa prendono vita “strutture eterne più stabili delle leggi e delle istituzioni esteriori, strutture eterne ed universali insite nell’uomo stesso, inviolabili ed invisibili e perciò indistruttibili” (Ismail Kadarè, Chi ha riportato Doruntina?, Longanesi, pag 129). La Besa è la parola data da Costantino alla madre. Il termine, intraducibile in qualsiasi altra lingua, indica il rispetto dei patti, delle regole e dell’ordine. Significa mantenere la parola, garantire la tregua, assicurare la protezione dell’ospite. E’ quindi collegata all’onore, al rispetto della parola data, all’ospitalità, a quanto vi è di più sacro, ma è anche vendetta e sangue.

E’ il Kanun che istituisce la Besa, sintesi delle istanze che reggono l’intera organizzazione sociale albanese. Il Kanun di Lek Dukagjini - riportato alle stampe dall’antropologa Patriza Resta, per i tipi della Besa Editrice (1996) - è un codice di leggi consuetudinarie, che si sono tramandate oralmente per secoli. Pur modificati, alcuni dei valori in esso contenuti, costituiscono il nocciolo duro dell’identità albanese.

La traduzione di Kanun è Canone, cioè regola, ma la radice etimologica è riga o righello. La riga serve a mantenere l’ordine: da bambini scrivevamo sui quaderni a righe, così le parole erano allineate. Il Kanun mantiene l’ordine, l’integrità e la sua etimologia lo garantisce. Secondo Ndrek Pjetri, capo della rinata Associazione per la fratellanza e la pace, “ il Kanun è stata la legge, il modo di vivere del popolo albanese, la nostra tradizione giuridica e rappresenta in parte anche la nostra libertà nazionale” ( Resta P. (a cura di), Il Kanun di Lek Dukagjini, Besa Editrice, pag. 15). In quanto tale  esso prescrive atteggiamenti positivi ed eleva al rango di fede il rispetto nei confronti della parola data. Questo è il principio trasposto, col suo alto lirismo, dal grande scrittore Kadarè in Chi ha riportato Doruntina?

(dedicato al prof. Sante Grillo)

lunedì 11 giugno 2012

Le icone bizantine. La teologia della tenerezza

di Anna Maria Ragno 
(da Albania news)


Se non comprendiamo che ogni atto di cultura è verità, non saremo in grado di riconoscergli dignità interiore e vera umanità. Pavel Aleksandrovic Florenskij
Iconostasi coro Abbazia di Grottaferrata


Le Chiese di rito Bizantino dell’Eparchia di Lungro e di Piana degli Albanesi si distinguono dalle Chiese di rito Latino per le loro splendide Iconostasi, i canti liturgici, l’altare quadrato, le croci greche, l’assenza di statue e di strumenti musicali come l’organo.


La pianta delle Chiese bizantine rappresenta il corpo della Madre. L’ombelico (Onfos) corrisponde al cerchio situato dopo il primo gradino, fra l’altare  ed il popolo. Il seno materno, invece,   corrisponde al gradino a semicerchio  (Solea), di fronte alla porta centrale  dell’Iconostasi, dove il papàs distribuisce l’Eucarestia con il pane e il vino.

L’Iconostasi (o Transetto), quindi,  è quella parete divisoria in legno, che separa il Sancta Santorum dal resto della Chiesa, i fedeli dal santuario, dove si celebra il sacrificio. Qui le icone sono collocate secondo un ordine stabilito. In genere nell’iconostasi ci sono tre porte. Sopra la porta centrale, chiamata porta santa o Speciosa, attraverso la quale può passare solo il Celebrante, è raffigurata l’icona dell’ultima Cena, in mezzo ai dodici Apostoli. All’entrata della porta settentrionale (detta anche tempio di Dio o Paradiso), che si trova in basso a sinistra, ai lati della porta laterale, sono raffigurati  la Vergine Maria e il protettore della Chiesa. All’entrata della porta meridionale o diaconale, perché vi passa solo il Diacono, ai lati della porta laterale destra, sono raffigurati il Redentore e S. Giovanni Battista.

Le icone, come dicevamo, sono collocate prevalentemente nell’iconostasi. Ma cosa è materialmente una icona? Il termine deriva dal greco bizantino "εἰκόνα" (éikóna), cioè  ”immagine”. Essa è una pittura su tavola o su altro materiale, raffigurante l’immagine del Signore Gesù Cristo, della Madre di Dio o dei Santi.


La leggenda vuole che la prima icona della storia, rappresenti il Volto santo di Gesù, impresso su un velo detto Mandylion. Esso viene qualificato come acheropita, cioè non fatto da mano d’uomo ma impresso miracolosamente. Questa effigie era conservata ad Edessa, in Siria (oggi Urfa, in Turchia). Per difenderla da una incursione di infedeli, era stata murata e coperta da un grande mattone. Quando la si tolse dal nascondiglio, si trovò che i segni del volto di Gesù si erano riprodotti anche sul mattone. L’icona, insieme con il mattone,  fu trasportata a Costantinopoli. Il fazzoletto, sul quale Gesù aveva impresso l’immagine del suo volto, fu mandato dal Nazzareno al re di Edessa, Abgar, gravemente malato di lebbra, che venne guarito dalla reliquia. 

Anche della Madonna fu tramandata l'immagine originale che, secondo la tradizione, venne dipinta da San Luca Evangelista, il quale la rappresentò in tre aspetti diversi: Madonna Orante (senza Bambino); Madonna Hodighitria (con Bambino, Colei che indica la retta via); Madonna Eleusa (con Bambino)". Quest’ultima, detta anche Madonna della Tenerezza si caratterizza per via del suo sguardo compassionevole, già consapevole del futuro di Passione del Salvatore. Sono legate a quest’icona le varianti della Madonna del Bacio (detta Glykophilousa), nella quale si enfatizza l’intimità della figurazione, dando forza allo scambio d’affetto tra Madre e Figlio e la Madonna del Gioco (detta Pelagotinissa), dove è l’umanità del Bambino a rivelarsi in un vivace slancio di vitalità verso la Madre.



Madonna della Tenerezza
 (Vladimirskaja)
dell'iconografa
Veronica Cavallo
Ma perché abbiamo parlato di “teologia”, anzi di teologia della tenerezza, e non semplicemente di arte sacra? Può aiutarci a trovare una risposta questa icona, l’icona della Madonna della Tenerezza, protettrice della Russia (per questo detta anche di Vladimir), ma presente anche a Roma nelle chiese bizantine di S. Attanasio dei Greci e di San Francesco a Ripa (non accessibile), a patto che abbandoniamo le nostre categorie estetiche e ci lasciamo andare al nostro sentire di credenti, perché di fronte ad una icona, non siamo semplicemente in presenza di un oggetto devozionale o di una rappresentazione pittorica, con intenti figurativi ed artistici, ma di fronte al mistero. Non di sola arte sacra si può parlare, ma di teologia (indagine su Dio), perché l’icona è essenzialmente una teofania, ossia una rivelazione di Dio e del suo mistero apofatico o catafatico, ossia inspiegabile o rivelato; una Preghiera che santifica l'anima del credente con il mezzo materiale della vista, così come la melurgia bizantina santifica attraverso l'udito. 


(Simeron kremate epì xilu o en idhasi tin ghin kremàsas. Inno al Crocifisso della tradizione bizantina. Qui è proposto secondo la tradizione musicale di Piana degli Albanesi. Si usa cantarlo la sera del Grande Giovedì alla fine del Mattutino della Passione, a luci spente. Canta Papas Jani Pecoraro.)



I teologi definiscono l’icona una finestra sul mistero e sull’invisibile, capace di far entrare il credente, grazie alla contemplazione, dentro la dimensione dello spirito e di condurlo alla martyreia e alla mymesis, cioè alla testimonianza della fede e all’imitazione del modello originario. Pertanto è inesatto dire “dipingere una icona”: l’icona viene “scritta” perché è la parola di Dio scritta con l’immagine, mediante un linguaggio codificato da secoli. L’iconografo, infatti, si prepara alla sua opera mediante il digiuno e recitando questa preghiera: «Tu, divino Signore di tutto ciò che esiste, illumina e dirigi l'anima mia, il cuore e lo spirito del tuo servo, guida le sue mani, affinché possa rappresentare degnamente e perfettamente la tua immagine, quella della tua santa Madre e di tutti i santi, per la gloria e il decoro della tua santa Chiesa. Amen».


“Leggendo” la Madonna della Tenerezza, vediamo che Maria tiene il Bambino sul braccio destro e lo stringe contro di sé. La Madre inclinando la testa tocca con la sua guancia quella del Figlio, che risponde appoggiando la sua mano su di lei. Lo sguardo del Bambino è tutto incentrato su quello della Madre ed esprime la compassione per coloro che soffrono. L’ombra sulla guancia, in cui si uniscono i due volti, traduce in immagine la promessa dell’Angelo: teneramente il Figlio accoglie sotto la sua ombra la Madre, proteggendola con amore infinito. Il Bambino Gesù si dispone dolcemente a custodire l’umanità della Vergine. L’ombra evoca l’ineludibile limite della conoscenza che l’uomo può avere di Dio.  Lo splendore nasconde un’ombra: il timore di Dio, il dubbio, il tentativo umano di sfuggire alla sofferenza, il desiderio di sottrarsi alla chiamata di Dio, le domande al Dio nascosto.

Ma chi è che veramente compie l’abbraccio? Un credente sa che chi veramente abbraccia è Dio.  E’ Lui che sta compiendo l’azione, che avvolge ed abbraccia Maria, l'umanità, la terra, attraverso il Figlio, che con quella manina sinistra sproporzionata, volutamente troppo lunga, avvolge tutta sua Madre, stringendola a se. La Madre si lascia abbracciare e, reclinando il capo sul Bambino, si abbandona a questo suo Amore, lo accoglie con delicatezza, come qualcosa di preziosissimo, che però non gli appartiene. La laconicità e l'espressività del volto della Madre, fanno di questa icona una preghiera-pianto, una preghiera di consolazione e di cura a cui la Madonna risponde con tenerezza.

Da questa “lettura” della Madonna della Tenerezza si evincono le caratteristiche fondamentali di tutte le icone:

•    L’assenza della luce naturale: la tecnica della luce nell’icona è la cosiddetta “luce propria“. La luce emana dal fondo d’oro. I colori, specie quelli delle vesti, sono ravvivati con riflessi di luce. Però i riflessi non sono posti come se venissero da una sorgente luminosa, ma nei punti più vicini allo spettatore. 
L’icona non vuole dare l’illusione della realtà generata dall’opposizione luce-ombra. Non vi è una sorgente di luce, l’immagine e la luce non sono separate e la luce irradia direttamente verso lo spettatore. Sulle icone non c’è mai una sorgente di luce, perché la luce è il loro soggetto: non si illumina il sole. Il fondo e tutte le linee, le sottolineature d’oro vogliono proprio significare una luce sovrannaturale.

Nell’iconografia trova espressione l’insegnamento ortodosso dell’esicasmo: Dio è solo trascendenza e non si può conoscere nella sua essenza. Però Egli si manifesta con la sua grazia attraverso un’energia divina, che effonde nel mondo sotto forma di luce.

•    La prospettiva è rovesciata: le linee si dirigono in senso inverso rispetto a chi guarda, cioè non verso un punto di fuga dietro il quadro, ma verso un punto esterno.  L’impressione è che i personaggi vadano incontro allo spettatore e che l’icona si muova verso di lui. La tridimensionalità non esiste, pertanto non vi è profondità all’interno della rappresentazione; lo spazio è ridottissimo e si estende verso lo spettatore. 

•    La prospettiva d’importanza: le proporzioni delle figure, la posizione degli oggetti, la loro grandezza non sono naturali, ma relativi al valore delle persone o delle cose. Pesi e volumi non esistono, come non esiste il chiaroscuro naturalistico o il realismo ottico. Quello che conta è il simbolismo delle rappresentazioni, le combinazioni geometriche e il significato dei colori e dell’oro. Il corpo, sempre slanciato, sottile, con testa e piedi minuscoli, è disegnato a tratti leggeri. Tutto comunque è dominato dal volto, perché è da qui che il pittore prende le mosse. Per indicare ascesi, purezza, interiorità, gli occhi sono molto grandi, fissi, a volte malinconici, sotto una fronte larga e alta; il naso è allungato; le labbra sono sottili; il mento è sfuggente; il collo è gonfio.. Altro aspetto frequente che si trova nelle icone è la simmetria, che indica un centro ideale al quale tutto converge.

Insieme alla melurgia, cioè ai bellissimi canti liturgici bizantini, l’iconografia rappresenta la matrice culturale, artistica, emotiva e spirituale degli Arbëreshë, arrivati in Italia cinque secoli fa, in seguito alla prima diaspora dall’Albania. Le bellissime chiese delle Eparchie di Lungro e Piana degli Albanesi, custodiscono questo preziosissimo scrigno di saperi materiali ed immateriali, resistendo ai tentativi di omologazione forzata attuati dalla Chiesa Latina, come tante volte è avvenuto in passato, ad esempio con l’imposizione delle statue (vedi  arbitalia ).

Bibliografia essenziale:
Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza, l'arte dell'icona, San Paolo, Torino, 1990 
AA. VV., Le Icone, Milano, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 2000. 
Gaetano Passarelli, Perché venerare le icone, Libreriauniversitaria.it, 2011