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mercoledì 9 maggio 2012

La Carrese di Ururi. Polisemia e rappresentazione identitaria

di Anna Maria Ragno

                                         

LA CARRESE di URURI. 3 Maggio 2012

I carri si sono recati davanti al Municipio dove, nel silenzio più assoluto, il prete ha  impartito la benedizione prima in italiano e poi in arbërisht a buoi, carrieri e cavalieri. In seguito i carri, seguiti dai sostenitori, si sono avviati alla partenza, dove si sono disposti ad una distanza di 20-25 metri l'uno dall'altro, secondo l'arrivo dell'anno passato. La corsa è iniziata alla masseria Pantoni, a 4 km dal paese, ed è termina nella piazza principale. 
Oggi è il 3 maggio, il giorno della Carrese di Ururi, l’epilogo finale di un anno di preparativi, speranze, paure, attese, che mette in campo credenze magiche ancestrali e religiosità, autentica devozione e folklore. E’il giorno che tutti hanno atteso con una emozione mista a commozione e spirito epico difficile da raccontare, difficile da capire per chi non è un Arbëresh, anzi un Arbëresh del Molise, perché la Carrese è un fenomeno che interessa i comuni arbëreshë di Portocannone (provincia di Cb), Ururi (provincia di Cb) e Chieuti (oggi in provincia di Foggia, ma in passato facente parte del contado del Molise). A corsa finita qualcuno piange per la felicità, qualcun altro ride per il nervosismo. I carri si sono sfidati e c’è  chi ha perso, ma è come se non ci fossero né vinti né vincitori: alla fine vince sempre e solo la Carrese. Tutti stanno già pensando a quella dell’anno prossimo.
Ururi: il  SS. Legno della Croce
Il carro giunto per primo in paese ha seguito obbligatoriamente il percorso di via del Piano e via Tanassi, di 19 metri più lungo rispetto al percorso che, invece, ha seguito il carro dei Fedayn. Ha vinto il carro dei Giovani, seguito dai Giovanotti, arrivati da via Commerciale, il vicolo che conduce alla piazza. Domani il carro vincitore avrà l'onore di trasportare il SS. Legno della Croce  per le vie del paese. Ci accompagnano Luisa Iannacci, assessore alla Cultura del Cumune, ed Emanuela Frate, l’amica giornalista. Quella a cui abbiamo assistito io e Rossella De Rosa è stata una una battaglia che poi è esplosa in gioia, condivisione, commozione,  catarsi collettiva di un popolo ridiventato contadino, che celebra il ricordo  delle nobili origini di tutti gli Arbëreshë, valorosi guerrieri arrivati in Italia al seguito dell’eroe Giorgio Castriota Skanderbeg.  Alla fine ,caduta la tensione, i conflitti all’interno dei gruppi si sono pacificati. Si applaude anche ai Giovanotti, arrivati secondi e ai Fedayn, arrivati terzi, felici del fatto che il cronometro si è fermato a poco più di cinque minuti. Fra qualche giorno ci sarà un banchetto in onore dei vincitori; il giorno seguente verranno festeggiati i Giovanotti, arrivati secondi; poi i Fedayn. 
Ururi, la Carrese.
Più che una festa è una gara che contrappone il sacro al profano, l’anno vecchio all’anno nuovo, il tempo della festa al tempo dedicato al lavoro, i Giovani ai Giovanotti, i soldati ai contadini, una gjitonia all’altra. Anticamente tutti i paesi arbëreshë erano formati da gjitonie, le corti di vicinato. La signora Lina dice che la gjitonia era più del sangue: quando una donna andava in sposa il testimone era un elemento maschio della propria gjitonia. La scelta preferenziale del coniuge avveniva sempre all’interno del proprio villaggio (endogamia di villaggio) e di un’altra gjitonia. Quando questo non era possibile, la scelta preferenziale cadeva sul coniuge del paese arbëresh più vicino (endogamia etnica). La scelta preferenziale di terzo livello prevedeva che fosse almeno meridionale. La regola della scelta preferenziale è valsa anche per la signora Lina,  che è di Portocannone ma ha sposato un ururese, andando a vivere nel paese del marito: all’endogamia è sempre connessa anche la norma della residenza virilocale.
Quella fra gjitonie è solo una delle contrapposizioni che entrano in gioco. La vera contrapposizione è quella che mette a confronto la cultura maggioritaria dei Latinì (Italiani) e la cultura minoritaria Arbëreshe; l’Arbëria (formata da tutti gli Arbëreshë d’Italia) e gli Arbëreshë del Molise; gli Arbëreshë molisani e i cosiddetti “Zampettari” (come vengono scherzosamente definiti i Molisani); la Pagliara maje maje dei Croati e la Carrese; la Carrese dei tre paesi arbëreshë e la Carrese di San Martino in Pensilis e Larino, i paesi non arbëreshë a pochi chilometri da Ururi. 
La Carrese di Montecilfone. Foto Archivio Kamastra
http://www.youtube.com/watch?v=KjEa1vduBwI




Un discorso a parte merita la contrapposizione fra la Carrese dei paesi arbëreshë e la Sfilata dei buoi di Montecilfone, il quarto paese arbëresh del Molise. Fernanda Pugliese, in un articolo della  prestigiosa rivista bilingue che dirige (Kamastra, anno 2, numero 3, maggio-giugno 1998) parla dell’altro volto della Carrese. In realtà è proprio la sopravvivenza di questa manifestazione che colloca l’origine della Carrese nel ciclo dei riti primaverili a carattere magico-sacrificale e propiziatorio, che si celebrano in varie località dell’Europa ( il Palo di maggio tedesco, o il Jack in the green inglese) e nel nostro Meridione. La Sfilata dei buoi di Montecilfone mantiene il carattere originale di quei riti di  incremento diffusi nella regione molisana, poi assurti a strumenti di affermazione identitaria nella minoranza croata ed italo-albanese.  
http://sagre.zero.eu/2012/05/la-pagliara-maje-maje-2/calia
La Pagliara di Fossalto è un esempio di questo rimodellamento delle tradizioni molisane, rivissute da parte della minoranza croata secondo i propri miti e le proprie tradizioni, in quanto è stata per così dire cambiata di “segno” e trasformata nella Pagliara maje maje, il pupazzo antropomorfo di Acquaviva Collecroce, paese della minoranza croato-molisana. Così come la Carrese era già in uso nella chiesa di Larino prima dell’arrivo dei coloni albanesi, la Pagliara era già in uso a Fossalto prima dell’arrivo dei coloni slavi, con la variante della croce che la sormontava. Questi riti di incremento che servivano a propiziarsi l’inizio del nuovo ciclo produttivo, la fecondazione arborea  e la benevolenza della dea Maja, la madre terra, sono poi assurti a strumenti di affermazione ed identificazione identitaria, diventando il  simbolo totemico attorno a cui ricostruire la propria storia comune e inventare la propria diversità rispetto agli altri. 
Larino. San Pardo. Foto di Guerino Trivisonno
La Carrese, in questo senso, rappresenta la rielaborazione adattiva dei valori culturali degli Arbëreshë,  rispetto all’assimilazione dei valori culturali esterni e dei modelli dominanti. Attraverso la Carrese, quindi, gli Ururesi non solo affermano la propria identità in maniera contrastativa rispetto all’esterno, ma enfatizzano e creano i propri elementi distintivi perché essi possano distinguersi come gruppo etnico italo-albanese rispetto ai Latinì, ai Molisani, ai Croati e agli stessi Arbëreshë di Basilicata o Calabria.
Anche la Carrese che si tiene a Larino, dedicata a San Pardo, è da ricollegarsi a quei riti di incremento, atti a propiziare la fecondazione arborea e il risveglio della natura. Anche qui ritorna l’offerta di beni alimentari e il simbolismo arboreo, rappresentato a Monteclfone dai grossi rami di  lauro con cui vengono adornati i carri. A Larino, invece, i carri vengono adornati da un grosso ramo di ulivo, a cui si appendono prodotti caseari.  Festa San Pardo
Anche qui ritorna il simbolismo del bue, che rappresenta il duro lavoro nei campi e la capacità dell’uomo di “aggiogare” e addomesticare le forze della natura. Anche qui ritorna il simbolismo del carro, che rappresenta la divisione fra i vari gruppi sociali e familiari. Il carro è stato sempre il simbolo di quelle culture che hanno patito la diaspora e l’immigrazione: anche la  bandiera dei Rom, ad esempio, rappresenta la ruota di un carro.
La Pagliara, insomma,  non è slava, così la Carrese non è albanese, ma questi riti propiziatori, legati ai riti pagani della Madre Terra e ancora in uso nella diocesi di Larino, sono diventati via via riti religiosi e nel contempo strumenti di affermazione e rivendicazione identitaria per le due minoranze molisane. Questo spiega quanto abbiano attinto dai modelli molisani i due gruppi minoritari e perché la Carrese  è un fenomeno “solo” molisano, che non interessa le altre comunità arbëreshë (ad esempio della Sicilia).
Foto di Guerino Trivisonno
Pur conservando molti tratti comuni, le Carresi si distinguono l’una dall’altra per il numero dei carri partecipanti, che possono essere due o tre; fino a diversi anni fa, i buoi aggiogati a ciascun carro erano quattro, poi sono diventati due. Ai vincitori  della Carrese di Chieuti viene  consegnata una treccia di caciocavallo di circa 80 chili con le gesta di S. Giorgio, che verrà portata in processione insieme alla statua del Santo. Ogni anno una famiglia, a turno, prepara questo grande Tarallo che dopo la processione verrà distribuito fra tutte le famiglie del paese. A San Martino in Pensilis, dove la corsa si svolge su un percorso di 9 km, a metà c’è uno spettacolare pit stop per il cambio dei buoi. 
Gli elementi che rimangono comuni, invece, sono rappresentati dal fatto che il carro vincitore avrà l’onore di portare la statua del Santo in processione: per Portocannone è la Madonna di Costantinopoli; per Chieuti San Giorgio Martire;  e per San Martino in Pensilis il busto di San Leo, per Ururi le reliquie della Santa Croce. Inoltre tutte le Carresi si svolgono fra fine aprile e gli inizi di maggio, tranne quella di Portocannone che è mobile in quanto legata al giorno della Pentecoste, a conferma del fatto che la loro rappresentazione è fedele a uno schema che si ritrova nei riti di incremento, cioè in quelle cerimonie religiose atte ad assicurare o a promuovere la riproduzione delle specie animali o la crescita dei raccolti.
In termini più generali, la Carrese è uno degli strumenti messi in atto per affermare la propria alterità etnica, attraverso la condivisione di quei valori e di quei simboli che creano un comune sentire e al contempo la mediazione fra le diversità, secondo il doppio codice di relazione ed opposizione noi/loro. La Carrese, attraverso la tradizione, inventa le differenze ed alimenta il gioco della doppia identità (albanese ed italiana, arbëreshe e molisana); alimenta il culto della provenienza e delle origini comuni; ricostruisce la propria storia e con essa un rapporto mitologicamente appagante con il passato; ma soprattutto riattualizza il proprio passato di soldati divenuti contadini.
Ururi, 3 Maggio 2012
Per i Giovani la Carrese è un vero e proprio rito di iniziazione, un passaggio obbligato, in cui i giovani devono dare prova di fierezza, coraggio e destrezza, al fine di mostrare la loro accettabilità nel gruppo. Per i Giovanotti un rito di inversione, in cui per i “vecchietti” è possibile “tornare giovanotti”, confermando la superiorità dell’esperienza sull’inesperienza, della tenacia sull’ incostanza, del duro lavoro sull’improvvisazione.
Insieme alla Pagliara dei Croati del Molise, la Carrese rientra nei riti pagani celebrati in primavera (come la festa dei Serpari di San Domenico a Cocullo, il Matrimonio degli alberi ad Accettura, ecc.) per assicurare ed incrementare il raccolto o la riproduzione delle specie animali, in un momento stagionale critico, in cui le forze vitali si risvegliano, un po' fra l’essere e il non essere, per cui è necessario incoraggiarle magicamente con canti, suoni e laudate, come quella di San Martino in Pensilis ed Ururi. Come diceva Alfonso Di Nola (Gli aspetti magico-rituali di una cultura subalterna italiana, Bollati Boringhieri): “La festa è solidale delle specifiche fasi del ciclo produttivo, dei momenti, cioè, di disimpegno della rotazione coltivatoria, o anche, in una coincidenza ricca di conflittualità, dei momenti di maggior tensione e attesa (periodi dell’inizio delle semine, della prima germogliatura, dell’imminenza delle messi, ecc.).
Ururi, l'arrivo dei tre carri.
La festa della Carrese, quindi,  rappresenta un momento essenziale nell’esistenza, in quanto innesta un dinamismo culturale che rivitalizza i significati sottesi a certi gesti religiosi; consolida le radici storiche e religiose che alimentano l’identità; favorisce l’aggregazione sociale e la soluzione dei conflitti all’interno del gruppo; risolve la precarietà esistenziale mediante la valorizzazione del ludico, del gratuito e  dell’edonistico; scandisce  il trascorrere del “tempo sociale”, entro cui si collocano le fasi  della vita individuale, le attività economiche, il trascorrere delle stagioni. Come tale, il termine “festa” è riduttivo: le Carresi devono essere intese come “fatti demologici”, che tengono conto del carattere storico di usi e costumi che valorizzano il carattere spirituale della cultura trasmessa oralmente, espressione della diversità culturale di un popolo e della creatività umana. In questo senso le proteste degli animalisti dovrebbero tenere in maggior conto la nozione di bene culturale immateriale.
La Carrese di Ururi rappresenta un esempio di polisemia identitaria; gli Arbëreshë mantengono sempre la capacità di fare propri gli elementi attinti dall’incontro/scontro con le altre culture, maggioritarie o minoritarie che siano, e di cambiare segno o attribuire più significati allo stesso segno o fattore  identitario. L’identità degli Arbëreshë, infatti, è stata creata attraverso sei elementi, una sorta di cubo di Rubik dell’identità, di cui ogni volta si deve comporre il lato spostando le tessere e gli elementi che lo costruiscono: l’Arbërisht, l’Endogamia (etnica e di villaggio), il Rito greco bizantino (presente solo nelle due Eparchie  di Lungro e Piana degli Albanesi), il Costume (anzi i Costumi, visto che elementi come il Brezi esistono solo nel Costume di Piana degli Albanesi), la Carrese (anzi le Carresi), e la Musica (anzi le Musiche).





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