ARBËRIA NEWS Blog

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lunedì 11 giugno 2012

Le icone bizantine. La teologia della tenerezza

di Anna Maria Ragno 
(da Albania news)


Se non comprendiamo che ogni atto di cultura è verità, non saremo in grado di riconoscergli dignità interiore e vera umanità. Pavel Aleksandrovic Florenskij
Iconostasi coro Abbazia di Grottaferrata


Le Chiese di rito Bizantino dell’Eparchia di Lungro e di Piana degli Albanesi si distinguono dalle Chiese di rito Latino per le loro splendide Iconostasi, i canti liturgici, l’altare quadrato, le croci greche, l’assenza di statue e di strumenti musicali come l’organo.


La pianta delle Chiese bizantine rappresenta il corpo della Madre. L’ombelico (Onfos) corrisponde al cerchio situato dopo il primo gradino, fra l’altare  ed il popolo. Il seno materno, invece,   corrisponde al gradino a semicerchio  (Solea), di fronte alla porta centrale  dell’Iconostasi, dove il papàs distribuisce l’Eucarestia con il pane e il vino.

L’Iconostasi (o Transetto), quindi,  è quella parete divisoria in legno, che separa il Sancta Santorum dal resto della Chiesa, i fedeli dal santuario, dove si celebra il sacrificio. Qui le icone sono collocate secondo un ordine stabilito. In genere nell’iconostasi ci sono tre porte. Sopra la porta centrale, chiamata porta santa o Speciosa, attraverso la quale può passare solo il Celebrante, è raffigurata l’icona dell’ultima Cena, in mezzo ai dodici Apostoli. All’entrata della porta settentrionale (detta anche tempio di Dio o Paradiso), che si trova in basso a sinistra, ai lati della porta laterale, sono raffigurati  la Vergine Maria e il protettore della Chiesa. All’entrata della porta meridionale o diaconale, perché vi passa solo il Diacono, ai lati della porta laterale destra, sono raffigurati il Redentore e S. Giovanni Battista.

Le icone, come dicevamo, sono collocate prevalentemente nell’iconostasi. Ma cosa è materialmente una icona? Il termine deriva dal greco bizantino "εἰκόνα" (éikóna), cioè  ”immagine”. Essa è una pittura su tavola o su altro materiale, raffigurante l’immagine del Signore Gesù Cristo, della Madre di Dio o dei Santi.


La leggenda vuole che la prima icona della storia, rappresenti il Volto santo di Gesù, impresso su un velo detto Mandylion. Esso viene qualificato come acheropita, cioè non fatto da mano d’uomo ma impresso miracolosamente. Questa effigie era conservata ad Edessa, in Siria (oggi Urfa, in Turchia). Per difenderla da una incursione di infedeli, era stata murata e coperta da un grande mattone. Quando la si tolse dal nascondiglio, si trovò che i segni del volto di Gesù si erano riprodotti anche sul mattone. L’icona, insieme con il mattone,  fu trasportata a Costantinopoli. Il fazzoletto, sul quale Gesù aveva impresso l’immagine del suo volto, fu mandato dal Nazzareno al re di Edessa, Abgar, gravemente malato di lebbra, che venne guarito dalla reliquia. 

Anche della Madonna fu tramandata l'immagine originale che, secondo la tradizione, venne dipinta da San Luca Evangelista, il quale la rappresentò in tre aspetti diversi: Madonna Orante (senza Bambino); Madonna Hodighitria (con Bambino, Colei che indica la retta via); Madonna Eleusa (con Bambino)". Quest’ultima, detta anche Madonna della Tenerezza si caratterizza per via del suo sguardo compassionevole, già consapevole del futuro di Passione del Salvatore. Sono legate a quest’icona le varianti della Madonna del Bacio (detta Glykophilousa), nella quale si enfatizza l’intimità della figurazione, dando forza allo scambio d’affetto tra Madre e Figlio e la Madonna del Gioco (detta Pelagotinissa), dove è l’umanità del Bambino a rivelarsi in un vivace slancio di vitalità verso la Madre.



Madonna della Tenerezza
 (Vladimirskaja)
dell'iconografa
Veronica Cavallo
Ma perché abbiamo parlato di “teologia”, anzi di teologia della tenerezza, e non semplicemente di arte sacra? Può aiutarci a trovare una risposta questa icona, l’icona della Madonna della Tenerezza, protettrice della Russia (per questo detta anche di Vladimir), ma presente anche a Roma nelle chiese bizantine di S. Attanasio dei Greci e di San Francesco a Ripa (non accessibile), a patto che abbandoniamo le nostre categorie estetiche e ci lasciamo andare al nostro sentire di credenti, perché di fronte ad una icona, non siamo semplicemente in presenza di un oggetto devozionale o di una rappresentazione pittorica, con intenti figurativi ed artistici, ma di fronte al mistero. Non di sola arte sacra si può parlare, ma di teologia (indagine su Dio), perché l’icona è essenzialmente una teofania, ossia una rivelazione di Dio e del suo mistero apofatico o catafatico, ossia inspiegabile o rivelato; una Preghiera che santifica l'anima del credente con il mezzo materiale della vista, così come la melurgia bizantina santifica attraverso l'udito. 


(Simeron kremate epì xilu o en idhasi tin ghin kremàsas. Inno al Crocifisso della tradizione bizantina. Qui è proposto secondo la tradizione musicale di Piana degli Albanesi. Si usa cantarlo la sera del Grande Giovedì alla fine del Mattutino della Passione, a luci spente. Canta Papas Jani Pecoraro.)



I teologi definiscono l’icona una finestra sul mistero e sull’invisibile, capace di far entrare il credente, grazie alla contemplazione, dentro la dimensione dello spirito e di condurlo alla martyreia e alla mymesis, cioè alla testimonianza della fede e all’imitazione del modello originario. Pertanto è inesatto dire “dipingere una icona”: l’icona viene “scritta” perché è la parola di Dio scritta con l’immagine, mediante un linguaggio codificato da secoli. L’iconografo, infatti, si prepara alla sua opera mediante il digiuno e recitando questa preghiera: «Tu, divino Signore di tutto ciò che esiste, illumina e dirigi l'anima mia, il cuore e lo spirito del tuo servo, guida le sue mani, affinché possa rappresentare degnamente e perfettamente la tua immagine, quella della tua santa Madre e di tutti i santi, per la gloria e il decoro della tua santa Chiesa. Amen».


“Leggendo” la Madonna della Tenerezza, vediamo che Maria tiene il Bambino sul braccio destro e lo stringe contro di sé. La Madre inclinando la testa tocca con la sua guancia quella del Figlio, che risponde appoggiando la sua mano su di lei. Lo sguardo del Bambino è tutto incentrato su quello della Madre ed esprime la compassione per coloro che soffrono. L’ombra sulla guancia, in cui si uniscono i due volti, traduce in immagine la promessa dell’Angelo: teneramente il Figlio accoglie sotto la sua ombra la Madre, proteggendola con amore infinito. Il Bambino Gesù si dispone dolcemente a custodire l’umanità della Vergine. L’ombra evoca l’ineludibile limite della conoscenza che l’uomo può avere di Dio.  Lo splendore nasconde un’ombra: il timore di Dio, il dubbio, il tentativo umano di sfuggire alla sofferenza, il desiderio di sottrarsi alla chiamata di Dio, le domande al Dio nascosto.

Ma chi è che veramente compie l’abbraccio? Un credente sa che chi veramente abbraccia è Dio.  E’ Lui che sta compiendo l’azione, che avvolge ed abbraccia Maria, l'umanità, la terra, attraverso il Figlio, che con quella manina sinistra sproporzionata, volutamente troppo lunga, avvolge tutta sua Madre, stringendola a se. La Madre si lascia abbracciare e, reclinando il capo sul Bambino, si abbandona a questo suo Amore, lo accoglie con delicatezza, come qualcosa di preziosissimo, che però non gli appartiene. La laconicità e l'espressività del volto della Madre, fanno di questa icona una preghiera-pianto, una preghiera di consolazione e di cura a cui la Madonna risponde con tenerezza.

Da questa “lettura” della Madonna della Tenerezza si evincono le caratteristiche fondamentali di tutte le icone:

•    L’assenza della luce naturale: la tecnica della luce nell’icona è la cosiddetta “luce propria“. La luce emana dal fondo d’oro. I colori, specie quelli delle vesti, sono ravvivati con riflessi di luce. Però i riflessi non sono posti come se venissero da una sorgente luminosa, ma nei punti più vicini allo spettatore. 
L’icona non vuole dare l’illusione della realtà generata dall’opposizione luce-ombra. Non vi è una sorgente di luce, l’immagine e la luce non sono separate e la luce irradia direttamente verso lo spettatore. Sulle icone non c’è mai una sorgente di luce, perché la luce è il loro soggetto: non si illumina il sole. Il fondo e tutte le linee, le sottolineature d’oro vogliono proprio significare una luce sovrannaturale.

Nell’iconografia trova espressione l’insegnamento ortodosso dell’esicasmo: Dio è solo trascendenza e non si può conoscere nella sua essenza. Però Egli si manifesta con la sua grazia attraverso un’energia divina, che effonde nel mondo sotto forma di luce.

•    La prospettiva è rovesciata: le linee si dirigono in senso inverso rispetto a chi guarda, cioè non verso un punto di fuga dietro il quadro, ma verso un punto esterno.  L’impressione è che i personaggi vadano incontro allo spettatore e che l’icona si muova verso di lui. La tridimensionalità non esiste, pertanto non vi è profondità all’interno della rappresentazione; lo spazio è ridottissimo e si estende verso lo spettatore. 

•    La prospettiva d’importanza: le proporzioni delle figure, la posizione degli oggetti, la loro grandezza non sono naturali, ma relativi al valore delle persone o delle cose. Pesi e volumi non esistono, come non esiste il chiaroscuro naturalistico o il realismo ottico. Quello che conta è il simbolismo delle rappresentazioni, le combinazioni geometriche e il significato dei colori e dell’oro. Il corpo, sempre slanciato, sottile, con testa e piedi minuscoli, è disegnato a tratti leggeri. Tutto comunque è dominato dal volto, perché è da qui che il pittore prende le mosse. Per indicare ascesi, purezza, interiorità, gli occhi sono molto grandi, fissi, a volte malinconici, sotto una fronte larga e alta; il naso è allungato; le labbra sono sottili; il mento è sfuggente; il collo è gonfio.. Altro aspetto frequente che si trova nelle icone è la simmetria, che indica un centro ideale al quale tutto converge.

Insieme alla melurgia, cioè ai bellissimi canti liturgici bizantini, l’iconografia rappresenta la matrice culturale, artistica, emotiva e spirituale degli Arbëreshë, arrivati in Italia cinque secoli fa, in seguito alla prima diaspora dall’Albania. Le bellissime chiese delle Eparchie di Lungro e Piana degli Albanesi, custodiscono questo preziosissimo scrigno di saperi materiali ed immateriali, resistendo ai tentativi di omologazione forzata attuati dalla Chiesa Latina, come tante volte è avvenuto in passato, ad esempio con l’imposizione delle statue (vedi  arbitalia ).

Bibliografia essenziale:
Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza, l'arte dell'icona, San Paolo, Torino, 1990 
AA. VV., Le Icone, Milano, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 2000. 
Gaetano Passarelli, Perché venerare le icone, Libreriauniversitaria.it, 2011






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