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martedì 13 giugno 2017

Nje virgjereshe e betuar: dalla vergine giurata di Edith Durham alla bocha posh dell'Afghanistan.

Ancor prima dell’antropologa Antonia Young (2000) con il suo libro “Women who become men” e di Elvira Dones in Hana, il romanzo pubblicato in Italia con il titolo di “Vergine giurata, edizioni Feltrinelli (2007), delle “vergini giurate” aveva già scritto nei primi del ‘900 anche Edith Durham, una viaggiatrice e scrittrice inglese nota per i suoi appunti antropologici di vita in Albania nei primi anni venti del Secolo scorso. 

Nje virgjereshe e betuar. Foto Edith Durham, 1908.

La “burnesha” o “virgjinesha” è la donna che al sopraggiungere della maturità sessuale decide di vivere come un uomo. Una decisione legata più all’identità sociale che alla sessualità. Fa voto di verginità con un giuramento pubblico e ottene, quindi, il permesso di vivere come un uomo. Per questo, si attribuisce un nome maschile, si veste con abiti maschili, porta i capelli corti, possiede un’arma, fuma e beve alcol, svolge lavori maschili e, in alcuni casi, ricopre il ruolo di capofamiglia. Tutte cose un tempo proibite alla donna che, per tradizione, aveva ridotte capacità decisionali, non aveva diritti sui beni della famiglia e sui figli, ed era esclusa dalle faide del clan.
Questa pratica non è scomparsa e ancora oggi, nelle zone montagnose dell’Albania settentrionale, si possono incontrare alcune “burneshe”. Secoli d’isolamento, per via delle zone impervie dei territori, hanno permesso che quest’usanza tribale, arcaica, persistesse sino ai giorni nostri. Un fenomeno sociale che si sta, tuttavia, progressivamente estinguendo: le “Virgjineshe” sono, infatti, ora, circa un centinaio, e sono quasi tutte anziane.
Il giuramento.
Come già detto, l’assunzione del ruolo sociale di uomo era condizionato dal giuramento di “castità totale” (la rinuncia al matrimonio, ai figli, al sesso), espresso davanti ai 12 uomini più influenti del clan di appartenenza. Per le donne che venivano meno al giuramento era prevista l’uccisione, persino attraverso il rogo. Questa regola era codificata dal Kanun, che riconosceva il diritto alla donna di proclamarsi uomo, di comportarsi come uomo e di acquisire tutti i diritti riservati esclusivamente agli uomini, soltanto nel caso in cui questa avesse rinunciato per sempre alla propria sessualità e femminilità. Dal momento del giuramento, la “burnesh” (dall’albanese burré=uomo) acquisiva tutti i diritti che il “Kanun” attribuiva agli uomini: diventava il patriarca della famiglia, mangiava con gli uomini nella stanza dove alle donne era proibito restare, acquisiva il diritto di vendere, comprare e gestire le proprietà familiari, poteva lavorare i campi e prendersi cura del bestiame, possedere il fucile, partecipare alla vendetta tra clan. Aveva, infine, diritto di voto nel consiglio dei saggi del villaggio.  
L’origine del fenomeno.
L’origine del fenomeno delle burneshe, prevalentemente diffuso nelle zone montuose del nord dell’Albania e in Kosovo, ma anche in Serbia, Montenegro e Bosnia e in altre aree dei Balcani occidentali, risale al XV secolo, e nasce come reazione alle regole imposte dal Kanun, l’ antico codice consuetudinario, che aveva codificato un sistema familiare di tipo “patrilineare” (la trasmissione della ricchezza e dell’autorità seguiva la linea maschile) e “patrilocale” (la donna, quando si sposava, si doveva trasferire nel villaggio del marito). La famiglia era basata anche sul clan, e i matrimoni erano spesso uno strumento per stabilire alleanze tra i vari clan.
Le famiglie senza presenze maschili erano considerate come dei paria. Di conseguenza, alcune donne si trovavano, per necessità, ad assumere il ruolo sociale di uomini. Quando in una famiglia nascevano, ad esempio, solo femmine, una di queste assumeva un’identità maschile e diventava una “burnesha”. Questo le consentiva di prendere decisioni al posto del padre anziano o assente, di avere voce in capitolo sulle proprietà della famiglia, sui membri della famiglia e di decidere sui matrimoni - quasi sempre combinati - delle sorelle. Capitava anche che i figli di una famiglia, di solito numerosa, perdessero entrambi i genitori o il padre. In questo caso, una delle figlie più grandi diventava una “burnesh”, assumendo così la patria potestà sui propri fratellini e sorelline.
Le ragioni.
Le donne diventavano “vergini giurate” per “libera scelta”, quando volevano raggirare le privazioni e i soprusi dovuti al fatto di essere donna, celare il proprio lesbismo, poter vivere sole, o per “necessità”, vale a dire per sfuggire ad un matrimonio combinato, nel caso in cui malattie o faide avessero decimato tutti gli uomini della famiglia, in assenza nel nucleo familiare di figli maschi. In quest’ultimo caso, spesso il padre spingeva una delle figlie a farsi uomo.
La conversione di una donna in un uomo soddisfaceva, innanzitutto, la necessità socio-economica di avere in famiglia la presenza di almeno un maschio, l’unico che poteva godere di quei diritti che non erano trasmessi “in linea femminile” (linja e tamblit).
Farsi “vergine giurata” era anche un modo per evitare la vendetta: se una ragazza di un clan rifiutava il fidanzato di un altro clan che le era stato destinato, l’orgoglio ferito dell’uomo rifiutato era causa di vendetta tra i due clan. Se, invece, la donna faceva voto di castità e rinunciava alla propria femminilità, l’obbligo di vendetta veniva annullato.
Bacha posh.
La pratica di travestire le ragazze come ragazzi è tuttora diffusa in certe zone dell'Afghanistan e del Pakistan, in cui le famiglie prive di figli maschi inducono per l'appunto una delle loro figlie femmine a vestirsi e comportarsi come se fosse un ragazzo. Questa pratica, così simile a quelle delle virgjereshe e betuar descritte già da Edith Durhan nei primi del 900, permette alla famiglia d'evitare lo stigma sociale associato al fatto di non aver figli maschi.
In Afghanistan e Pakistan vi è, infatti, una forte pressione sociale perché le famiglie abbiano un figlio maschio che possa portarne avanti il nome ed ereditare la proprietà paterna; ma in mancanza di un figlio i genitori possono decidere di vestire e far vivere una delle loro figlie come un maschio, favoriti anche dalla credenza che questo fatto renderà più probabile per la madre partorire in seguito un vero figlio maschio. Lo scopo di una tale pratica non è quello d'ingannare le persone, in quanto saranno tutti perfettamente consapevoli che il "bambino" è in realtà una femmina.
All'interno della famiglia occuperà uno status intermedio in cui continuerà ad essere trattata né completamente come una donna né completamente come un uomo, non avrà in ogni modo l'obbligo di eseguire le faccende domestiche, ma nella sua qualità di Bacha posh sarà più facilmente in grado di frequentare una scuola, muoversi liberamente in pubblico, scortare le sorelle nei luoghi ove queste non possono recarsi senza essere accompagnate da un maschio e fare sport.
Diversamente dalle burnesha, lo status della bacha posh solitamente si conclude nel momento in cui ella entra nella fase della pubertà.


 (Grazie all'amica giornalista e mediatrice culturale Emanuela Frate)

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