ARBËRIA NEWS Blog

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mercoledì 24 aprile 2013

Jasteku

di Eleonora Niko Qeparoi   


DOLCI SOGNI  Mária Szánthó (1898-1984)
                                  

Jasteku
E mbusha jastekun me endrra,
Poshte, siper, anash, kudo i vendosa,
I bera si fiqte kallamates qe bente nena.
Rreshtuar nje nga nje ne fije zhuke te thata
Nga burimet e plazhit te Skalomes, t’embla…
Cuditerisht, zbavitem me endrrat e mia
Here si xixellonja ne tavan me ndrijne
Here i kthej ne mijra margaritare qe vezullojne,
Sa here djajte mundohen, gjumin te ma largojne! 
©Elko
4 Tetor-12


Pillow
I filled my pillow with dreams
Below, above, sideways, 
I placed them everywhere
Piled them up like the dry figs 
my mom used to pack together
one on top of the other, 
hanging by a dry thread of the zhuke plant
found in the sources of sweet freshwater
at the Ionian sea, Skaloma’s beach ...
Strangely, I get lost in my dreams 
like fireflies they lighten up the ceiling 
sometimes, I transform them
into thousands of twinkled pearls 
but sometimes devils attempt to repeal ! 






In chiesa, di K. Kavafis. Traduzione dal greco di Luigi Ferrara degli Uberti


IN CHIESA
Io amo la chiesa, amo i suoi labari,
gli arredi d’argento, i candelieri,
le luci, le immagini, gli amboni.
Quando sono là, nella chiesa dei Greci,
con i fumi fragranti dell’incenso,
le voci degli officianti e le polifonie,
con le sacerdotali figure maestose
nel ritmo grave d’ogni loro gesto,
splendide nei paramenti decorati,
la mente corre ai fasti della nostra stirpe,
alla nostra gloriosa era bizantina.
(K. Kavafis)
(Trad. dal greco di Luigi Ferrara degli Uberti)

sabato 6 aprile 2013

Silvana Licursi vista da Pino Settanni.

                                                                                                               Video di Rossella De Rosa

Eja uz lartë - Vieni su da me - Come up and see me
Adattamento di Silvana Licursi su testo tradizionale arbëresh di
Ururi (CB)

Vieni su da me,
no, piano, non salire!
 Fanciulla mia, non toccarmi il cuore.

Vieni dalla montagna,
vieni, montanina, 
il cuore devi darmelo
mano nella mano!
Vieni su da me,
tu non sai
- o cuore mio- 
 cosa mi hai fatto!

Vieni dalla montagna,
.......

Nastrino rosa,
per causa tua non trovo pace!
Nastrino color del mare,
per te --ahimè- morirò ucciso!

TESTO ARBËRESH

Eja uz lartë
dalë, mos hip!
Oj vajza ime
zëmërën mos me nghit.

Eja mall vashë,
eja malësore, 
zëmërën kat me japësh
ashtu dorë e dorë!

Eja uz lartë,
ti nghe di 
-oj zëmëra ime-
çë më bëre ti.

Eja mall vashë
...

E zahareleza kulor dë rosë
e u për tija nghë gjenj rëposë!
E zahareleza kulor dë marë
e u për tija --mëmë- vdes vrarë!


Silvana Licursi. Foto di Pino Settanni.

martedì 29 gennaio 2013

Il battesimo delle bambole: il comparatico arbëresh.



IL RITO DEL BATTESIMO FRA GLI ARBËRESHË
Enzo Spera, docente di Antropologia all'Università di Siena, ha curato per la RAI-TV un servizio su "Il battesimo delle bambole a Barile"; mentre Giovanni B. Bronzini dell'Università di Bari, cattedra di Tradizioni Popolari e V. Presidente nazionale F.l.T.P., lo ha ampiamente studiato a San Paolo e San Costantino Albanese (Potenza), pubblicando diversi saggi e pubblicazioni.
Il battesimo fra gli Arbëreshë, come rito di ingresso ufficiale nella comunità cristiana, ha tutt'altro significato e diversa modalità di somministrazione. Emerge - soprattutto - in tale evento la suggestiva figura, in sfarzosi paramenti greco-bizantini, del papàs (il sacerdote orientale, presente in circa trenta comunità etniche del territorio italiano) davanti all'ikonòstasi, mentre l'ispirata corale intona i canti dell'iniziazione (in lingua: 'Ndrikuila-kumbari e/o 'NdrikuilaNuni) il papàs - dopo aver introdotto "prindet" (i genitori) e tutti i parenti ("gjirit") alla liturgia bizantina con le litanìe diaconali - avvia la benedizione dell'acqua e dell'olio.
Questa fase rituale viene accompagnata, dal celebrante, con tre segni di croce sulla "Kolinvithra" e da una triplice alitazione. Indi il papàs invita i testimoni a porgergli la creatura (fàmulli se maschio, fàmulla se femmina) senza alcun indumento, perché possa immergerla tre volte ancora nel bagno "di purificazione " dal peccato originale (lo stesso in India si effettua, mutatis mutandis, nelle acque del "sacro" fiume Gange).
Un'altra caratteristica della spiritualità bizantina risiede nel conferimento immediatamente successivo secondo quei canoni, del sacramento della cresima e della stessa comunione. La 'Kolinvithra" è, generalmente, una grande bacinella in rame artisticamente lavorato. Segue, dopo la cerimonia religiosa, lo scambio dei regali da parte dei testimoni che entrano, così, a far parte di quella famiglia e di quella rete sociale di solidarietà (in Arbéresh, definita "gitonìe") oppure, con il poeta, "besa gjiakut" (la promessa inalienabile di fede e lealtà verso la memoria ed il sangue degli antenati skipetari). Va anche detto che l'origine tradizionale, teste descritta, sta diffondendosi, a macchia d'olio, nelle numerose comunitna alloglotte d'Italia, così come nelle grandi città che ospitano folti gruppi d'immigrati della nostra "Arberìa": Torino, Milano, Firenze, Roma, Bari, Cosenza e Palermo.

Fotografia, Roberto Alzani
Montaggio, Bruno Perna
Regia, Sandro Lai

venerdì 18 gennaio 2013

Tutto fa brodo. I costumi di Piana.

di Anna Maria Ragno

Le figurine Liebig venivano allegate alle confezioni delle tavolette di estratto di carne, l’antesignano del dado per brodo. I costumi qui raffigurati dell’Eparchia di Piana dei Greci, come veniva chiamata allora Piana degli Albanesi, fanno parte di una serie di sei figurine dedicate ai costumi folcloristici della Sicilia, che riportano la data del 1958. La figura di sinistra è accompagnata dalle seguente didascalia:

“Il costume di Piana dei Greci deriva dal ceppo albanese, trapiantatosi in Italia, per le persecuzioni dei Turchi, fra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI, e tuttora conserva i caratteristici attributi orientali. Il costume si compone della “zilona”, che è un’ampia gonna di seta o di taffettà nei vari colori del rosso, arricciata alla vita quasi tutta sul dietro, con splendidi ricami in oro, a foglie, che ricordano i parati del ‘500 e del ‘600. Sulla gonna vi è il “crascéte”, bustino i seta scura ricamata, al quale si attaccano le “mengheté”, che raccolgono le maniche della camicia e sono maniche esse stesse, con fioriti ricami. La camicia è di finissima tela di lino, funziona spesso da corpetto ed è ornata di ricami e pizzi d’alto pregio. Alla vita vi è una pesante cintura d’argento detto “bresi”, allacciata sul davanti con uno scudo che raffigura, in rilievo, l’immagine di San Giorgio che uccide il drago, o San Nicolò patrono delle colonie albanesi, o la Madonna dell’Odigitria. Le calze sono bianche, lavorate ad uncinetto; le scarpe di pelle, con fibbia, oppure dello stesso tessuto della gonna. L’abito si completa spesso con un grembiule nero con gli orli sfilati e con una mantellina di seta, bordata di ricami in oro e foderata di seta rosa. Gli orecchini sono d’oro o d’argento, e la collana è di prezzo; questa viene talvolta sostituita da un nastro di velluto che sostiene un gioiello d’oro finemente lavorato. Molto spesso il costume viene tramandato, in dote, dalla madre alla figlia ed i preziosi ricami della camicia e della gonnella, di particolare finezza, richiedono un impegno di parecchi anni”.


La figura di destra riporta una didascalia che differisce di poco dalla precedente, eccezion fatta per la descrizione più particolareggiata dei ricchi gioielli del secondo costume:

“Si compone di una gonna di pesante taffettà o di seta, molto ampia, o con un’arricciatura alla vita portata quasi tutta sul dietro, ed è guarnita da ricchi ricami in oro. La camicia è in tela di lino, con ricami e pizzi di gran pregio e porta al collo un risvolto ricamato e trinato. Il corpetto è molto attillato e si allaccia sul davanti con nastri; le maniche sono trattenute da nodi di seta. La vita è cinta da una pesante cintura d’argento detta “brezo” o “bresi”, allacciata sul davanti con uno scudo raffigurante, in rilievo, l’immagine di San Giorgio che uccide il drago, o San Nicolò patrono delle colonie albanesi, o la Madonna dell’Odigitria. Le calze sono bianche, lavorate ad uncinetto; le scarpe di pelle, con fibbia, oppure dell’identica seta della gonna; gli orecchini sono in oro o in argento con brillanti, rubini, perle; spesso hanno pendagli di preziosa fattura. La collana è in oro lavorata o è sostituita da un nastro di velluto che porta una crocetta d’oro con pietre. Tutto insieme è fuso in un delicato accordo di toni e di motivi e costituisce un esemplare modello di perfetta eleganza”.


Sitografia: 


giovedì 17 gennaio 2013

Lamento per la morte di Skanderbeg

di Anna Maria Ragno
Ritratto dell’eroe Giorgio Castriota Skanderbeg 
esposto agli Uffizi di Firenze.  E’ stato attribuito a Cristofano dell'Altissimo (c. 1525–1605).
Giorgio Castriota Skanderbeg morì il 17 gennaio 1468 ad Alessio, di febbre malarica. Quando il sultano Maometto II apprese la notizia della sua morte esclamò: "Se non fosse vissuto Skanderbeg, io avrei sposato il Bosforo con Venezia, avrei posto il turbante sul capo del Papa ed avrei posto la mezzaluna sulla cupola della Chiesa di S. Pietro a Roma!" Prima di cadere definitivamente nelle mani dei Turchi, l'Albania resistette, dopo la morte di Skanderbeg, quasi per altri 20 anni. Da allora, molti albanesi, per salvare la loro Libertà e la loro Fede, si rifugiarono nel Regno di Napoli, dove Ferdinando d'Aragona li accolse benevolmente, memore dei benefici ricevuti da Skanderbeg.

VDEKJA E SKANDERBEGUT  
Skoj një ditë mijegullore
mjegullore e helmore,
foka qielli doj të vaitonej,
pra tue e ditur me shi
nga tregu një thirmë u gjegj,
çë hiri e shtu lipin
ndër zëmrat e ndër pëlleset! 
Ish Lekë Dukagjini:
ballët përpiq me një dorë
shqir leshtë me jatrën:
- «Trihimisu, Arbëri!
Eni zonja e bularë
eni të vapëhta e ushtërtorë,
eni e qani me hjidhi!
Sot të varfëva qëndruat,
pa prindin çë ju porsinej,
ju porsin e ndihnej.
E më hjenë e vashavet,
më harenë e gjitonivet,
as kini kush të ju ruanjë.
Prindi e Zoti i Arbërit
ai vdiq çë somenatë;
Skanderbeku s'është më!»
Gjetin sjpitë e u trihimistin,
gjetin malet e u ndajtin,
kambanart'e qishëvet
zunë lipin mbë vetëhenë;
po ndër qiell të hapëta hinej
Skanderbeku i pa-fanë! 
(Rapsodie e scene di vita degli albanesi 
di Calabria, Papas Prof. Giuseppe Ferrari, 
Teologo dell'Eparchia, Docente 
all'Università di Bari. Lungro 1959. 
Tipografia SCAT- Cosenza)

LA MORTE DI SKANDERBEG
Passò un giorno nebbioso,
nebbioso e malinconico,
quasi pianger, pare, volesse il cielo.
Venne il novo mattino
tetro, pioviginoso;
dalla piazza s'udì tremendo un ululo,
sparse nei cuori il gelo,
nei palagi portò lacrime e lutto.
Plorava urlando Lek Dukagjino,
con una mano si percotea la fronte
e con l'altra strappavasi i capelli:
- Scuoti dal piano al monte
tutti i cordini tuoi, scuoti, Albania,
agli occhi nostri tutto
s'oscura il mondo: Skander non è più!
Matrone e cavalieri qui accorrete,
venite qui, soldati e poverelli,
il Grande a calde lagrime piangete.
Orbi oggi tutti siete
del padre, della guida, dell'aiuto;
oggi avete perduto
quei che vi custodìa
l'onore delle vergini,
dei villaggi la pace e l'allegria.
Grave giorno di lutto!
Stamane è morto il Principe,
il padre dell'Albania,
s'oscura il mondo tutto:
Skandergeg non è più! -
Alla feral notizia
i palazzi tremâr dai fondamenti,
cadder le rupi e seppelir le fonti;
dai campanili delle chiese in lenti
tocchi annunziâr le squille il grave lutto.
In alto, dell'empireo
s'aprì l'etereo velo
e Skanderbeg magnanime
e sventurato in gloria entrò nel cielo. 

Il Lamento per la morte di Skanderbeg nell'interpretazione appassionata e dal vivo della cantante arbëreshe Silvana Licursi.





venerdì 4 gennaio 2013

In te si rallegra tutto il Creato: l'icona che canta.

di Anna Maria Ragno
Icona dell’Epì sì Chèri

Fra i tesori della Parrocchia di San Nicola di Myra di Mezzojuso, figura la bellissima icona dell’Epì sì Chèri. La tavola, unica nel suo genere, illustra completamente il Theotòkion (detto anche Tropario) alla Madre di Dio. Attribuito a Giovanni Damasceno, il Tropario, che rappresenta una vera e propria composizione poetica cantata solitamente durante la Liturgia domenicale, inizia con questa bellisssima invocazione: “In te si rallegra, o piena di grazia, tutto il Creato”. Il canto proviene dall’Ochtoèchos, il libro liturgico che comprende l’officiatura domenicale per i Vespri e i Mattutini, e sembra sia stato aggiunto in epoca non determinata alla Liturgia di San Basilio, dove, come già detto, funge da Megalinàrio, cioè da Inno in onore alla Madre di Dio dopo la Consacrazione. 

La tavola è firmata da Léos Moskos, pittore della scuola siculo-cretese, attivo a Zante e a Venezia intorno alla seconda metà del XVII secolo. Misura cm 59x69 e ha  quindi dimensioni superiori a quelle normalmente associate alle icone destinate alla devozione privata. I princìpi iconografici e compositivi a cui si ispira l’icona, si rifanno sicuramente al modello fortemente innovativo di Theodros Poulakis, suo contemporaneo, che ci ha lasciato una serie di icone dedicate allo stesso soggetto. 

Il pregio dell’icona è dato dal modo attraverso cui l’iconografo, “scrivendo l’icona”, ha illustrato l’inno, utilizzando una serie di piccole composizioni dal diverso orientamento tematico, disposte in tre registri. L’iconografo, quindi, ha reso visibile quanto contenuto nella preghiera, che così recita: “In Te si rallegra, O Piena di Grazie, tutto il Creato, gli angelici cori, e l’umana progenie (primo registro, in alto), o tempio santificato e paradiso, vanto delle Vergini (secondo registro, al centro). Da te ha preso carne Dio ed è diventato infante Colui che prima dei secoli è il nostro Dio. Del tuo seno, infatti, Egli fece il suo trono, rendendolo più vasto dei cieli (terzo registro, in basso)”. 

L’icona, dice papàs Di Marco, è Anamnesi, cioè ricordo e richiamo;  Kèrisma, cioè annuncio e catechesi; Theoria, cioè contemplazione e preghiera; richiamo alla Tradizione; annuncio e dichiarazione di una presenza; contemplazione e coinvolgimento vitale per un cammino di speranza. L’icona del canto alla Madre di Dio rappresenta anche la relazione fra iconografia e musica bizantina, uno degli aspetti meno investigati della tradizione culturale e religiosa arbëreshë di Rito greco bizantino. Anche questo Inno, infatti, appartiene al grande ceppo della Musica Bizantina, della quale conserva le caratteristiche:

La grammatica musicale del repertorio liturgico arbëreshe, analogamente al canto gregoriano, non è basata sulla sensibilità tonale e sulla opposizione fra modi maggiori e minori che caratterizza la musica colta occidentale. Il suo sistema musicale è infatti di tipo modale e non tonale.  Questo sistema (modale) viene definito anche “ piano o orizzontale”. Quello che conta (anche nella polifonia) è la melodia di ciascuna voce, il procedere orizzontale delle note. Non è per niente presente il concetto di verticalità, ossia il concetto di una relazione tra le voci che non sia di tipo melodico ma di tipo armonico: il concetto di accordo è del tutto estraneo alla modalità. Quest’ultimo aspetto non è di poco conto, perché alla base c’è l’idea che il coro degli Angeli e i Serafini, a cui si rifà la melurgia bizantina, non può sfidare o competere con Dio in altezza. 

Il suo sistema musicale modale del repertorio abëreshë rimanda alla teoria bizantina dell'oktoíchos. Le melodie, infatti, obbediscono alla divisione modale della musica bizantina che comprende otto modi o “ìchì” con caratteristiche proprie di ogni “ìchos”. La divisione che non è esterna e formale, ma investe la struttura intima di ogni canto.

A differenza delle melodie della musica occidentale, rigidamente inquadrate nel rigo musicale e nel pentagramma, nelle melodie bizantine non esiste il rigo musicale. Gli intervalli, variamente intecciati e disposti, vengono determinati da simìa, coè da segni (o neumi), che man mano hanno sostituito i cenni della mano di chi dirigeva il coro.

Le forme poetico-musicali ancor oggi in uso, sono quelle dell'innografia bizantina: dalle semplici linee del tropario, come nel caso di questo canto alla Madre di Dio, alla complessità del contacio e del canone. Forme "minori", tra le altre, sono la katavasía, il theotokíon, lo stikirón. L’elemento fondamentale è il tropárion, una sorta di inno monostrofico a schema e metro liberi, che assume nomi diversi a seconda del soggetto o delle sue caratteristiche.

La trasmissione orale dei canti, nei termini illustrati, consente ai fedeli, per lo più in difetto di conoscenze musicali tecniche, di appropriarsi di un patrimonio che, secondo le occasioni, provoca atmosfere di grande suggestione psicologica e di profonda adesione spirituale. La tradizione musicale liturgica come tale è espressione di processi di autoidentificazione che rinforzano il senso di appartenenza alla comunità.

Per concludere, la relazione melurgia-iconografia bizantina rivela una mistica che è assoluta trascendenza, in quanto espressione di valori ultrasensibili, Presenza dell’Invisibile, sguardo dell’Uomo su Dio e di Dio sull’Uomo, finestra aperta sul mistero della Madre di Dio, in cui tutto il Creato si rallegra, divenendo sintesi di colore e suono.

Biblografia:
Pietro Di Marco (a cura di), Icone, arte e fede,  La Brinja soc. coop. a r.l., Comune di Mezzojuso, 1996-1997
Maria Concetta Di Natale (Catalogo a cura di), Arte sacra a Mezzojuso, Arti Grafiche SicilianeS.r.l, Palermo, 1991
Sitografia:




La Natività

di Anna Maria Ragno

Su questa icona è raffigurato tutto il messaggio evangelico dell’incarnazione di Gesù dalla Vergine Maria, insieme ad altri dettagli aggiunti dalla tradizione.
     Icona della Natività di ANDREJ RUBLEV, il più famoso iconografo russo.
Nel diagramma qui mostrato, tratto da un disegno per un’icona, possiamo individuare almeno 8 elementi principali.
Il centro dell’icona è rappresentato dalla nascita di nostro Signore dalla Vergine Maria (1), che viene mostrata più grande di tutte le altre figure, sdraiata su una stuoia, mentre guarda non verso il Bambino, ma verso san Giuseppe (7), che viene mostrato in basso a sinistra, mentre conversa con Satana, travestito da vecchio pastore. La postura di san Giuseppe è quella del dubbio e del travaglio interiore, per lui che si chiedeva se fosse possibile che il concepimento e la nascita non venissero da qualche unione umana segreta. Il Bambinello è mostrato in fasce, che giace in una mangiatoia, “perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Cfr Luca 2). Lo sfondo del presepe è una grotta (3), nella quale ci sono un bue e un asino, dettagli non citati negli evangeli, ma che rappresentano una caratteristica invariabile di ogni icona della Natività. (2) Al di sopra di questa composizione centrale, nel centro stesso dell’icona vi è la stella che ha guidato i Magi (6). Lateralmente si vedono gli Angeli (4) mentre glorificano Dio e portano la buona novella della nascita del Signore ai pastori (5).  Il dettaglio finale di questa icona, la scena del lavaggio del Signore (8) è un elemento che ha causato qualche polemica nel corso dei secoli. In alcune chiese dei monasteri del Monte Athos, la scena negli affreschi è stata deliberatamente cancellata e sostituita con cespugli o pastori. Era opinione comune che questa scena fosse degradante verso Cristo, che non aveva bisogno di essere lavato, essendo nato in una maniera miracolosa da una vergine pura.

SITOGRAFIA:
http://makj.jimdo.com/

La Madonna dell' Elemosina

di Anna Maria Ragno
Madonna dell' Elemosina

Il titolo "Mater Elemosinae" traduce il greco "Eleùsa" (misericordiosa, pietosa, che ha compassione) ed esprime un particolare attributo di Maria: Madre di Misericordia. Tale appellativo venne per primo attribuito da S. Oddone (+ 942) per celebrare la Vergine che ha generato Gesù Cristo, che è la Misericordia visibile dell'invisibile Dio misericordioso: perciò Maria, in quanto Madre di Cristo, è anche Madre della Misericordia, che offre attraverso le sue braccia per la salvezza di tutti gli uomini ed intercede potentemente come divina amministratrice delle Grazie. Questa fiducia nella potente intercessione della Madonna si esprime nella celebrazione della sua bellezza; come Lei stessa rispose quando interrogata: "Sono così bella perchè amo così tanto." In Maria il vero e il bene si offrono alla contemplazione e dalla loro simbiosi scaturisce il bello.  Maria, infatti, per i siciliani, prima ancora che "Santa" è "Bella", perciò si continua ad invocarla tra la gente comune col titolo di "Bedda Matri" in particolare a Biancavilla "Bedda Matri 'a Limosina" (la Bella Madre dell'Elemosina).
La particolare raffigurazione degli organi di senso (occhi senza luccichìo, orecchie di forme strane, naso sottile e lungo, narici piccole, bocca sempre chiusa), esprimono la sordità alle manifestazioni del mondo, un distacco da ogni eccitazione. Il volto appare trasfigurato, eterno, esso appartiene al mondo spirituale; la bellezza è la purezza spirituale. Le vesti seguono il corpo in perfetta logica, ma non mostrano la materia reale e concreta; il ritmo delle pieghe, il colore e la distribuzione delle luci e delle ombre sono sottoposti alle leggi dell’armonia e dell’equilibrio, e nell’economia dell’icona esprimono “l’abito dell’incorruttibilità”. Nel 1482, a seguito della vittoria dei turchi musulmani sulla terra d'Albania, una colonia di profughi, proveniente dalla città di Scutari e guidata da Cesare De Masi, sbarcò in Sicilia, portando con sè il loro tesoro più prezioso: l'icona bizantina della Madre di Dio, una reliquia del soldato martire d'Arabia, Zen, e una croce in legno di stile orientale.
La destinazione finale del piccolo gruppo di esuli era Palermo, ove contavano di congiungersi agli altri loro conterranei nell'attuale Piana degli Albanesi. Durante il loro viaggio gli esuli sostarono a 30 km circa da Catania, in un campo denominato "Callicari", proprietà dei Conti Moncada di Adernò. Dopo aver piantato l'accampamento appesero la sacra icona ad un albero di fico ove agevolmente poter svolgere le funzioni di culto. Però, dopo una notte, al mattino, al momento di riprendere il viaggio, gli esuli trovarono la loro icona interamente aggrovigliata fra i rami del fico, cresciuti nottetempo, al punto che non fu loro possibile districarla senza fare danni. L'evento prodigioso fu interpretato come la chiara volontà della Madonna, di rimanere in quel luogo, ove il piccolo gruppo potesse trovare una nuova patria. Lo stesso Conte Gian Tommaso Moncada, signore del luogo, rimase profondamente colpito da quegli accadimenti, concedendo così il massimo dell'ospitalità al piccolo gruppo di albanesi.

http://www.reginamundi.info/icone/elemosina.asp


giovedì 3 gennaio 2013

La Vergine dalle tre mani

di Anna Maria Ragno
L’icona della Vergine dalle tre mani, detta Tricherusa o Troerucica, è legata a San Giovanni Damasceno (nato a Damasco, 676 ca. e morto a Laura di San Saba nel 749 ca.), che è stato monaco, sacerdote e teologo. Di famiglia araba e di fede cristiana, lottò strenuamente con i suoi scritti in difesa del culto delle sacre immagini e contro l'iconoclastia, decretata dall'imperatore di Costantinopoli Leone III nel 726. Divenuto monaco nel monastero di Mar Saba vicino a Gerusalemme, si dedicò alla composizione di inni sacri fino alla morte. E’ ricordato tradizionalmente il 4 dicembre (con memoria facoltativa), data alla quale è stato riportato nel Nuovo Calendario del Concilio Vaticano II, dopo essere stato a lungo ricordato il 27 marzo.
Icona della Vergine Tricherusa
                                                                                 La tradizione vuole che la lotta dottrinale tra Giovanni e l'imperatore Leone III di Bisanzio, abbia visto Giovanni Damasceno  vittima della violenza dell'imperatore, che lo accusò ingiustamente dinanzi al califfo, facendogli amputare la mano destra. Durante la notte, assorto in preghiera, Giovanni promise alla Madre di Dio, che se l'arto gli fosse stato restituito, avrebbe continuato a difendere con la sua opera dottrinale la venerazione (proskynesis) delle sacre icone. Le sue preghiere furono esaudite e l'arto fu recuperato miracolosamente. Come ex voto Giovanni fece porre una mano d'argento all'icona che aveva pregato con tanto fervore e questa da allora fu chiamata l'icona de La Madre di Dio delle tre mani, detta Tricherusa o Troerucica. 

Invece la leggenda devozionale  dice che Giovanni avrebbe offerto la mano tagliata ad un'immagine della Madonna, senza chieder nulla. Dall'icona sarebbe uscita una mano della Vergine, che avrebbe riattaccato l'arto offeso. Allora Giovanni fece applicare all'icona una mano votiva d'argento. Col successo delle tesi del Santo, crebbe anche la fama di questa Madonna con tre mani, detta, frequente nell'iconografia ortodossa, di cui si conserva una copia preso il Monastero di Hilandar, nella penisola del Monte Athos, repubblica monastica in territorio greco.

Un’altra leggenda dice che  l'imperatore Leone III Isaurico fece tagliare la mano destra al santo perché questi difendeva strenuamente le immagini sacre. La Madonna tuttavia gliela riattaccò lasciandogli un segno rosso sul polso. Giovanni Damasceno viene quindi per questo raffigurato a volte monco, o con una linea rossa attorno al polso destro. Il turbante indica la sua origine siriaca. San Giovanni è il Patrono di pittori, monchi e farmacisti.

Una grande immagine di san Giovanni Damasceno si trova nella chiesa di San Blandano di Bronte, ai piedi dell'Etna, dove è ritratto nella pala destra dell'altare con tre braccia, due protese a venerare la Vergine, una nell'atto di scrivere.

 

Il canto del lievito

di Anna Maria Ragno

Nei paesi arbëreshë della Calabria, quattro giorni prima del matrimonio, viene cantata questa rapsodia, che Giuseppe Ferrari, papas dell’Eparchia di Lungro e docente all’Università di Bari, inserisce nel Ciclo del matrimonio. Il pane, che è sempre stato simbolo di potere, di ricchezza e di vita stessa, qui evoca la fertilità, magicamente propiziata attraverso il lievito. Questo canto rientra quindi nell’ambito di quelle celebrazioni rituali intese a promuovere ogni forma di energia generativa e vitale nel mondo naturale e umano.


KËNGA E BRUMIT
Se ti vashëza hadhjare,
me mbë shpi t'ëm'ëm e t'ët atë,
sa hadhjare edhe dëlirë,
çë më ngjeshën ata brumë,
ngjeshe fort e ngure shumë.
Bën kuleçë e m'i dërgo
gjithë gjirivet mbë shpi,
gjithë gjitonëvet mbë derë,
të t'mburonjë buka ndër duar,
të të shtohen ditët e mira,
të t'zbardhet ajo jetë
pjot me dritë e me hare
si e bardhëz je ti vetë. 
* * *
E kur një bir të ketë ajo zonjë,
më ju rritët e ju bëftë trim,
me defugen ndër duar 
e me shpatëzën ndë brest.
Pra nd'amahjit m'e dërgoftë
sa t'i priret mbë shpi
me hie pjot e me argjënd,
e turkeshëzën m'i sjelltë
për hare të gjitonisë. 
* * *
Se një vashëz kur të ketë,
më ju rritët e m'i pastë hje,
m'e martoftë dymbëdhjetë vieç
e pastë miell e më bëftë kuleçë,
e pastë tri nore kriate
t'i kujdesjën nga menatë
bijt'e shpin' e asajë zonjë
e t'i bëjën hje për monë.

CANTO DEL LIEVITO
O giovinetta di grazie adorna,
con in casa e padre e madre
quanto di grazie ornata, igenua tanto;
tu che ora quel lievito m'impasti,
spianalo forte e induralo assai.
Fa' le ciambelle e mandale 
ad ogni casa dei parenti,
ad ogni porta dei vicini
che il pane in man ti si moltiplichi,
ché ti accresca il numero dei dì felici,
ché la tua vita sia radiosa
di luce piena e d'allegria
così come radiosa sei tu stessa. 
* * *
E quando un figlio quella signora n'abbia,
possa egli crescere e farsi un baldo giovane
che sappia maneggiare il suo fucile
e la spada al cinto porti.
Poi baldanzoso parta per la guerra,
e salvo a casa ritornato,
d'argento carco e d'onore grande,
con sé riporti ancor la giovanetta turca
per allietare del vicinato il coro. 
* * *
Una figliola poi quella signora n'abbia
e bella cresca e le sia d'onore,
e a dodici anni la possa maritare,
e m'abbia sempre farina e farsi torte
e ancora tre donzelle assai prudenti,
ch'ogni mattin si prendan cura 
dei figli e della casa della signora
e le siano sempre a decoro. 

(Rapsodie e scene di vita degli albanesi di Calabria, Papas Prof. Giuseppe Ferrari, Teologo dell'Eparchia, Docente all'Università di Bari. Lungro 1959. Tipografia SCAT- Cosenza)

La keza delle donne maritate.

di Anna Maria Ragno
di Santa Sofia d’Epiro. Di velluto o raso, veniva ricamata sul telaino con fili dorati ed argentati. Generalmente i ricami riproducevano in forma stilizzata uccelli, fiori o l’aquila bicipide, simbolo della stirpe albanese. Foto di Nicodemo Misiti.
Elemento indispensabile della dote di ogni ragazza arbërëshe, la Keza è il simbolo del nuovo status sociale che la donna acquisterà con il matrimonio.  Giuseppe Ferrari, papas dell’Eparchia di Lungro e docente all’Università di Bari, che ha raccolto i canti del Ciclo del matrimonio, ha trascritto anche questo bellissimo canto di fidanzamento dal titolo “Il cipresso e la vite”, in cui per l’appunto la Keza viene citata come elemento indispensabile dei beni dotali della sposa, in genere comprendenti il corredo (biancheria e utensili per la casa) e i beni immobili e fondiari (case e terreni).


QIPARISI E DHRIEJA
Bëri këshillë Zonja Lenë
po vetëm me trezë bujarë
nënë mollë e nënë dardhë,
nënë kumbullzën e bardhë,
të martojin dhrinë e bardhë,
të m'i jipin qiparisin:
«Qiparis i hjeshmi
çë të jep tina jot'ëmë?»
«Çë palë mua më taksi tata».
Malin më taksi me kafsha,
më taksi fushazit me ara,
perivol edhe me lule,
pjot me zoq e me kangjele,
katër kuej e t'armatosur,
katër shatra kaluar»
«Thuaj ti dhri e dhriza e bardhë,
çë stoli të taksi yt atë»
«Çë stoli më vjoi mëma?
Nëndë cohë e nëndë linjë,
nëndë brezëz të rëgjëndë,
nëndë keza të vëlushta
të tërjorme me ar,
nëndë sqepez të hollë
edhe sqepin me kurorë
më jep pesë nore kriate
edhe mua t'bukurën!»


IL CIPRESSO E LA VITE
Radunò a consiglio donna Elena
i tre nobili bugliari
sotto il melo,sotto il pero,
sotto l'ombra del bianco pruno:
maritar con il cipresso
si volea la vite bianca.
- O cipresso, ella le chiese,
o cipresso d'ombre estese,
che daratti mai tua madre?
- Ha la mamma a me promesso
pien d'armenti una montagna,
un giardino pien di fiori,
che d'augelli ha lieti cori,
due pariglie di giannetti
con complete bardature
e due coppie di valletti.
- O mia vite, bianca vite,
qual corredo, di' tu pure,
t'ha promesso il signor padre?
- A me il babbo m'ha promesso
nove zoghe tutte nuove,
nove keze vellutate
tutte in oro ricamate,
nove ancor sottili veli,
nove ancelle assai fedeli
ed ancor la mia beltate. 
(Rapsodie e scene di vita degli albanesi di Calabria, Papas Prof. Giuseppe Ferrari, Teologo dell'Eparchia, Docente all'Università di Bari. Lungro 1959. Tipografia SCAT- Cosenza)

La Keza ha una forte attinenza con il Flammeun, il velo color fiamma, ossia arancione, rosso o giallo, che faceva parte dell’abbigliamento tradizionale della sposa romana. La valenza di questo capo di abbigliamento per la sposa romana era tale che l'atto di 'sposarsi' per la donna era detto nubere, ossia in senso proprio "velarsi, prendere il velo". Come per la donna arbërëshe, una volta sposata, la donna romana era destinata a non uscire mai più di casa a testa nuda. 
Secondo alcuni il Flammeum aveva una valenza simbolica negativa, in quanto rappresentava la rinuncia alla libertà e la reclusione fra le pareti domestiche. La Keza ha invece una valenza più positiva e distintiva, perché rappresenta il nuovo status sociale della donna arbërëshe e il rispetto dei doveri mulibri e dei valori tradizionali della famiglia.








martedì 11 dicembre 2012

Apologia delle Carresi.

di Anna Maria Ragno


                                                   
Nel giorno in cui ricorre la Giornata internazionale dei diritti umani mi sembra doveroso suggerire una riflessione sulle Carresi. Il decreto Martini del 21/07/ 2011, riguardante la salvaguardia degli equidi (e sottolineo equidi, non bovini), minaccia lo svolgimento di queste manifestazioni religiose nonostante la Diocesi Termoli-Larino sia scesa in campo in loro difesa, ribadendo per l’appunto il carattere religioso e rituale di queste antiche manifestazione, che si svolgono in tre paesi del Basso Molise: San Martino in Pensilis, dove la Carrese ha avuto origine, Ururi e Portocannone. Questi ultimi due sono paesi arbereshe che sopravvivono a fatica all’omologazione imposta dalla cultura maggioritaria: per una serie di ragioni storiche, hanno perso il Rito bizantino; inoltre non si sono mai visti riconoscere il diritto al bilinguismo e all’insegnamento dell’antico idioma albanese nelle scuole. Oggi è in crisi anche la Carrese e con essa il riconoscimenti dei diritti di etnicità: il diritto a riconoscersi nel proprio gruppo di appartenenza e ad associarsi liberamente per affermare la propria identità culturale, mantenendo le proprie tradizioni e le proprie credenze religiose.
In questo senso a nulla possono valere neache le contestazioni degli animalisti e di chi sostiene che i bovini subiscono maltrattamenti. Le Carresi hanno origine che non sono solo storiche, ma sociali, psicologiche e antropologiche, laddove è l’uomo che si identifica con l’animale e non l’animale che viene dominato dall’uomo. In questa maniera l’uomo rappresenta se stesso, il suo essere nel mondo, i valori del gruppo di riferimento, il desiderio di socializzare la fatica e il rapporto con la Madre Terra. Il bue è il suo mite e paziente compagno di lavoro, non una forza motrice da maltrattare. Quello che si celebra con la Carrese è che i buoi hanno un’anima. La Carrese, insomma, soddisfa i più profondi bisogni umani, non il desiderio di sopraffazione dell'uomo sull'animale. Chi non capisce questo non è disposto a capire quanto profonda possa diventare la relazione uomo-bue.

Un ringraziamento particolare va a MICHELE MINIERI, giornalista, organizzatore e curatore di quest'opera, che ne ha voluto la presenza nel nostro blog.

Questo documentario ha un valore storico eccezionale.
Nella ricostruzione della corsa dei carri di S.Martino in Pensilis, scorrono immagini riprese nel 1961 nei paesi di origine albanese: Portocannone, Ururi e Chieuti.
La Carrese è il canto della corsa dei carri e dei buoi in dialetto sammartinese.

Ragia di ZENO GABBI.
Organizzazione del documentario di MICHELE MINIERI.
Consulenza etnografica: ALBERTO M. CIRESE.
Operatori: GABRIELE ZANARDELLI, GIANPAOLO SANTINI, ANTONIO FORTESE.
Montaggio: BRUNO MATTEI
Tecnico del suono:MARIO SISTI

mercoledì 21 novembre 2012

La musica come educazione al pluralismo linguistico e alla diversità umana.

di Anna Maria Ragno


Quante lingue si parlano al mondo? Attualmente circa 6.700. Le più parlate sono: cinese mandarino, inglese, hindi/urdu, spagnolo, russo, arabo, bengali, portoghese, indonesiano e giapponese. L'italiano è parlato da circa 70 milioni di persone e si attesta al 19° posto. La più grande concentrazione di lingue parlate si trova nelle zone del Pianeta dove c'è anche la maggiore biodiversità (varietà di animali, piante e ambienti). Nelle foreste pluviali tropicali, che occupano solo il 7% della superficie emersa della Terra, ci sono il 36% dei gruppi etnolinguistici del mondo. Valutando la situazione degli ultimi decenni, si calcola che, entro la fine del ventunesimo secolo, potrebbero estinguersi il 90 per cento delle lingue attualmente parlate.

Da qualche anno si sta affermando una visione ecologica delle Lingue, secondo la quale salvare la diversità linguistica significa salvare la stessa Diversità culturale dell'Uomo.
A questo proposito è stata fondamentale la riflessione di Edgar Morin ne "I sette saperi necessari all'educazione del futuro",  il libro pubblicato in Italia dall'editore Cortina nel maggio 2001, che il filosofo e sociologo francese ha scritto nel 1999  su commissione dell'UNESCO, nell'ambito del “Programma internazionale dell’educazione”. I sette saperi necessari all’educazione del futuro sono: educare alla conoscenza; educare ad un sapere pertinente; insegnare la condizione umana; educare alla condizione terrestre; educare ad affrontare l'imprevisto; educare alla comprensione; l'etica del genere umano. L'assunto principale del testo d E. Morin è che l'educazione dovrà fare in modo che l’idea di unità della specie umana non cancelli l’idea della sua diversità e viceversa.  Comprendere l’umano significa comprendere la sua unità nella diversità.

Salvaguardare la diversità linguistica significa, quindi,  salvaguardare la creatività umana e il pluralismo culturale, di cui anche la Musica arbereshe è espressione. Noi abbiamo Candidato la lingua arbereshe all'UNESCO perchè abbiamo compreso la lezione di Edgar Morin e i principi che hanno insprato la Lista Rappresentativa dei Beni immateriali dell'Umanità.















giovedì 11 ottobre 2012

Canto e poesia di Civita. Silvana Licursi: La Colomba - Pëllumbi (o Pllumb'thi)

di Silvana Licursi




Questo è certamente uno dei più bei canti della tradizione
musicale Arbëreshe, così come Civita è uno dei paesi più belli, senza voler
fare torto a nessuno. Il proprio paese si ama "senza se e senza ma",  non
c'è nulla da spiegare. Il tema del "messaggero d'amore", l'identificazione
dell'amata con una colomba, gli innamorati descritti come colombi (persino
Paolo e Francesca nel V canto dell'Inferno dantesco): sono elementi presenti
già nella poesia antica, poi in quella dei trovatori, nei poeti romantici,
fino alla "Palummella, zompa e vola" della canzone napoletana. Il canto di
Civita è per delicatezza e splendore delle immagini e per la struggente
malinconia del sentimento espresso una realizzazione del tema di altissima
qualità poetica, paragonabile -a mio giudizio- a certi frammenti dei lirici
greci o della poesia alessandrina. Mi piace ricordare, con l'occasione, che
quando con i miei ottimi musicisti ho eseguito questo canto a Colonia, nel
grande teatro del Westdeutscher Rundfunk, il pubblico (numerosissimo) alla
fine si è alzato in piedi per applaudire. L'ho sentito non come un omaggio
alla mia persona, ma come un successo della grazia e della bellezza della
musica, che era arrivata in volo -come una colomba- nel cuore di tutti.




Due note sulle note de "La Colomba"  (Pëllumbi)
di Anna Maria Ragno
Due note sulle note della Colomba, tanto l’emozione non ha voce, la bellezza non si può raccontare, la speranza e il dolore hanno il pudore dell’intimità.
Mi sottopongo volontariamente all’esperimento di scrivere quello che penso in cinque minuti, il tempo di ascoltarla, e di aspettare che questa colomba ritorni col suo ramoscello d’ulivo nel becco ad annunciare che è arrivata una nuova pasqua del cuore, la resurrezione dal dolore e dalla perdita, il riscatto della memoria. Che canzone è? Non ha quasi struttura melodica e sviluppo armonico, è pathos allo stato puro che cresce con il ritmo incessante del Bolero di Ravel; è empatia che ti fa scendere negli inferi del ricordo, della nostalgia, della tenerezza.
La musica arbëreshe è andata oltre il Fado di Amalia Rodrigues, la Llorona di Chavela Vargas, i canti religiosi di Maria Carta e di Giuni Russo. La Licursi ha superato la Licursi.



giovedì 5 luglio 2012

I comignoli apotropaici di Rota Greca (CS).

di Marcello Lucieri
 Comignolo apotropaico nel rione Babilonia realizzato dal maestro Sergio D’Elia di Rota Greca

I comignoli apotropaici sono lunghe appendici in muratura che hanno la funzione di guidare fuori i fumi di scarico del focolare interno o del forno.
Nelle comunità di origine arbëreshe tali costruzioni hanno connotazioni originali che rappresentano una tipica espressione della forte personalità di queste popolazioni. Solitamente il comignolo è, in proporzione, molto piccolo rispetto alle dimensioni della casa; nelle abitazioni di queste comunità si caratterizza per la sua sovradimensione, sia in altezza che in larghezza. Tale sovradimensione è legata non solo alla possibilità di permettere una corretta emissione del fumo ma soprattutto al significato e alla simbologia antropologica ed apotropaica che veniva data alle Çimineret che sono da sempre segno di familiarità.
Il focolare rappresenta il centro della vita e della famiglia, dell’unità e della continuità familiare, nonché luogo deputato al culto dei Lari (figure della mitologia romana che rappresentano gli spiriti protettori degli antenati). L’uso, da parte degli arbëreshë, di scolpire sui lati e alle basi dei comignoli, bassorilievi (soprattutto figure antropomorfe), deriva sicuramente da culti pagani; a volte l’intero comignolo veniva realizzato con fattezze di volto umano.
Ai lati del comignolo fuoriescono degli spuntoni con la funzione di protezione della casa e di allontanare spiriti maligni e malevole intenzioni riguardo l’abitazione che servivano. A completare tali segni apotropaici veniva inserita una cannata, brocca usata solitamente per il vino con un solo manico che, ricolma del nettare di Bacco, veniva cementata all’apice del comignolo e richiamava l’auspicio che quel focolare fosse sempre accompagnato dalla gioia della festa e del vino che si beve in quell’occasione e quindi aveva funzione apotropaica appunto sui dolori e dispiaceri.
A completare tali segni apotropaici veniva inserita una cannata che richiama il valore dell’ospitalità prescritta dal Kanun (Il Kanun di Lek Dukagjini è un codice di leggi consuetudinarie che si sono trasmesse oralmente per secoli. Viene creato intorno alla metà del 1400, per dare una legislazione e tradizione propria al popolo albanese).

venerdì 15 giugno 2012

Chi ha riportato Doruntina? Il mito, la Besa, il Kanun.

di Anna Maria Ragno
(da Albania news)
Il Kanun è una legge che è stata raccolta come i chicchi di grano in questa grande povertà. (Ndrek Pjetri)
Doruntina e Kostandin



Chi ha riportato Doruntina?
Il mito, la Besa, il Kanun.
Il mito di Doruntina e Costantino racconta una storia, che ogni Albanese e ogni Arbereshe conosce: l’unica figlia di una vedova, viene sposata lontanissimo dal fratello, il quale promette all’anziana donna,  oramai costernata dalla guerra e dalla povertà, di riportarle l’amata figlia ogniqualvolta ne avesse bisogno. Ma l’inverno per la povera donna è stato molto duro e freddo, le ha fatto perdere nove figli sul campo di battaglia, tra cui Costantino. Piangente sulla tomba del figlio, la donna lo rimprovera d’essersene andato senza aver tenuto fede alla promessa (Bessa) di riportarle Doruntina. Allora Costantino esce dalla tomba e, dopo un lungo viaggio, riporta la sorella della madre.


Kush e solli Doruntinën
(Chi ha riportato Doruntina)
Il grande scrittore Ismail Kadarè, nel suo libro “Chi ha riportato Doruntina?”, attingendo al grande patrimonio leggendario del suo Paese, ripropone  il mito di Costantino come un thriller fuori dal tempo. Il capitano Stres, incaricato di far luce sull’evento, così riferisce sull’accaduto:

“Voi tutti avete già sentito parlare (….) delle strane nozze di Doruntina Vranaj, nozze che stanno all’origine di questa storia. Saprete certamente, ritengo, che questa unione lontana, la prima conclusa in un Paese tanto distante, non sarebbe avvenuta se Costantino, uno dei fratelli della sposa, non avesse dato la propria parola alla madre di riportarle Doruntina ogniqualvolta lei avesse desiderato la sua presenza, in occasione di gioie e di dolori. Sapete anche che i Vrenaj, come tutti gli albanesi, non hanno tardato a essere colpiti da un lutto atroce. E tuttavia, nessuno riportò Doruntina, perché colui che aveva promesso di farlo era morto. 

Siete anche al corrente della maledizione che la signora-madre pronunciò contro il proprio figlio per violazione della bessa, e sapete che, tre settimane dopo che fu proferita quella maledizione, Doruntina riapparve infine in casa dei suoi. Ecco perché affermo e ribadisco che Doruntina non è stata riportata da altri che dal fratello Costantino, in virtù della parola data, della sua bessa. Quel viaggio non si spiega né potrebbe spiegarsi altrimenti. Poco importa che Costantino sia uscito o no dal sepolcro per compiere la propria missione, poco importa di sapere ch fu il cavaliere che partì in quella notte oscura e quale cavallo sellò, quali mani tennero le redini, quali piedi poggiarono sulle staffe, di chi erano i capelli ricoperti della polvere del cammino. Ciascuno di noi ha la sua parte in questo viaggio, perché la bessa di Costantino, colui che ha riportato Doruntina, è germogliata qui fra noi. E dunque, per essere più precisi, si può dire che, attraverso Costantino, siamo stati noi tutti, voi, io, i nostri morti che riposano nel cimitero accanto alla chiesa, a riportare Doruntina.”

“ Nobili signori (…) vorrei dirvi (….) che cosa è questa forze sublime in grado di infrangere le leggi della morte. (….) Cercherò di spiegarvi perché questa nuova legge morale è nata e si diffonde fra di noi.”


“Ogni popolo, di fronte al pericolo, affina i suoi strumenti di difesa e –questo è l’essenziale- ne crea di nuovi. Bisogna avere la vista corta per non comprendere che l’Albania si trova di fronte a grandi drammi. Presto o tardi, giungeranno fino ai suoi confini, se già non vi sono arrivati. Allora, si pone la domanda: in simili nuove condizioni di aggravamento dello stato generale del mondo, in quest’epoca di sfide, di crimini e di odiose perfidie, quale sarà il volto dell’Albania? Sposerà il male o vi si opporrà? In breve, cambierà volto per adattarsi le maschere dell’epoca, onde assicurare la propria sopravvivenza, o manterrà un volto immutato, col rischio di attirare su di sé la collera dei tempi? L’Albania vede avvicinarsi l’era delle prove, della scelta fra quei due volti. E, se il popolo albanese ha cominciato a elaborare nel più profondo di sé delle istituzioni tanto sublimi quanto la bessa, ciò sta ad indicare che l’Albania è sul punto di fare la sua scelta. E’ per portare questo messaggio all’Albania e al resto del mondo che Costantino è uscito dalla tomba.”

La Besa, o Bessa, come dice Kadarè è all’origine stessa della società albanese. Dalla Besa prendono vita “strutture eterne più stabili delle leggi e delle istituzioni esteriori, strutture eterne ed universali insite nell’uomo stesso, inviolabili ed invisibili e perciò indistruttibili” (Ismail Kadarè, Chi ha riportato Doruntina?, Longanesi, pag 129). La Besa è la parola data da Costantino alla madre. Il termine, intraducibile in qualsiasi altra lingua, indica il rispetto dei patti, delle regole e dell’ordine. Significa mantenere la parola, garantire la tregua, assicurare la protezione dell’ospite. E’ quindi collegata all’onore, al rispetto della parola data, all’ospitalità, a quanto vi è di più sacro, ma è anche vendetta e sangue.

E’ il Kanun che istituisce la Besa, sintesi delle istanze che reggono l’intera organizzazione sociale albanese. Il Kanun di Lek Dukagjini - riportato alle stampe dall’antropologa Patriza Resta, per i tipi della Besa Editrice (1996) - è un codice di leggi consuetudinarie, che si sono tramandate oralmente per secoli. Pur modificati, alcuni dei valori in esso contenuti, costituiscono il nocciolo duro dell’identità albanese.

La traduzione di Kanun è Canone, cioè regola, ma la radice etimologica è riga o righello. La riga serve a mantenere l’ordine: da bambini scrivevamo sui quaderni a righe, così le parole erano allineate. Il Kanun mantiene l’ordine, l’integrità e la sua etimologia lo garantisce. Secondo Ndrek Pjetri, capo della rinata Associazione per la fratellanza e la pace, “ il Kanun è stata la legge, il modo di vivere del popolo albanese, la nostra tradizione giuridica e rappresenta in parte anche la nostra libertà nazionale” ( Resta P. (a cura di), Il Kanun di Lek Dukagjini, Besa Editrice, pag. 15). In quanto tale  esso prescrive atteggiamenti positivi ed eleva al rango di fede il rispetto nei confronti della parola data. Questo è il principio trasposto, col suo alto lirismo, dal grande scrittore Kadarè in Chi ha riportato Doruntina?

(dedicato al prof. Sante Grillo)