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mercoledì 29 febbraio 2012

Candidatura la musica arbëreshe all’Unesco: parte raccolta materiale

da Primonumero
La candidatura della musica della minoranza linguistica Arbereshe a diventare patrimonio dell’umanità Unesco è stata al centro dell’incontro di ieri, 28 febbraio, nella sala consiliare del Comune di Montecilfone. Al tavolo dei relatori il sindaco Franco Pallotta, la professoressa Fernanda Pugliese, la sociologa Anna Maria Ragno, Rossella De Rosa e Rosella Schiavone, gruppo di lavoro del progetto.
La professoressa Pugliese ha spiegato i motivi che hanno spinto il gruppo di lavoro a dare vita al progetto sottolineando come per gli Arbereshe la musica sia al tempo stesso, storia, letteratura e contemporaneità. Fernanda Pugliese, fondatrice della rivista ‘Kamastra’ ha inoltre sottolineato il sostegno e la partecipazione dell’associazione e rivista Kamastra al progetto.
La sociologa Anna Maria Ragno ha spiegato che l’iniziativa è nata ‘quasi per gioco’ con l’artista Silvana Licursi ed ora è diventata un vero e proprio progetto di tutela della musica, la lingua, la cultura e più in generale l’oralità del popolo Arbereshe fuggito 500 anni fa dalla penisola balcanica e rifugiatosi in Italia e anche in Molise. «Abbiamo voluto condividere ogni passo del progetto con il più ampio numero di persone interessante – ha spiegato Anna Maria Ragno – utilizzando molto il web e i social network perché crediamo fermamente che la cultura arbereshe debba uscire dai musei e tornare ad essere viva, ad essere identificativa di un popolo, di una cultura e quindi essere parlata e ascoltata». Prossimo step del progetto, che prevede un iter di due anni, è la raccolta del materiale e la produzione di un formulario che terrà conto dei capisaldi dettati dall’Unesco, ovvero diversità culturale e creatività umana. «Ciò che l’Unesco ci chiede - ha detto la sociologa Ragno - è di dimostrare che il fenomeno per cui si richiede la candidatura esiste e che molta gente in questo ‘bene’ riconosce la propria identità. Non è un percorso semplice, la musica portoghese del Fado, ad esempio ha impiegato sei anni per essere riconosciuta come bene dell’Umanità».
Tra gli obiettivi del progetto ci sono la creazione di un ricco archivio musicale da condividere online, l’incisione di tutti i canti tipici della tradizione monodica arbereshe ovvero senza accompagnamento musicale, il recupero degli antichi testi delle canzoni e delle poesie arbereshe, la promozione di festival della musica arbereshe. 
Il progetto, che è in assoluto il primo che chiede all’Unesco di candidare un bene appartenente a una Minoranza al punto che altre Comunità lo hanno già preso ad esempio, al momento vede la partecipazione di 50 soggetti tra enti come l’Università di Campobasso, l’Università Orientale di Napoli, la Provincia di Campobasso, il Comune di Montecilfone,il Comune di Portocannone, il Comune di Ururi, il Comune di Campomarino, gli Sportelli Linguistici del Molise, la rivista Kamastra, il sito www.albanianews.it e diversi artisti uniti dalla cultura arbereshe.

giovedì 23 febbraio 2012

Kamastra

di Anna Maria Ragno
La mia domenica è sempre dedicata al trekking con un gruppo di amici, alle escursioni nei boschi del Gargano e all’immancabile pranzo in qualche agriturismo. Non è solo una maniera per fare attività fisica all’aria aperta, ma per conoscere il territorio e raggiungere masserie lontane dalle strade statali, chiesette e scuole rurali, trulli di pietra e sorgenti naturali.

Gli agriturismi, che spesso sono masserie che hanno trovato nel turismo una maniera per integrare il proprio reddito, sono gli ultimi avamposti della nostra civiltà contadina e di un mondo che sta  cambiando troppo velocemente, o addirittura scomparendo, ma solo sul piano materiale. La cultura contadina, infatti, rimane, e continua a imperniare il nostro modo di fare e di essere.

La Sgarrazza è una di queste vecchie masserie che adesso fanno agriturismo. Qui, da lontano, ad indicarci la presenza di un ristorante, abbiamo intravisto un curioso albero spoglio, con una serie di paioli appesi. Ad accoglierci un vecchio caminetto tutto in pietra, con l’immancabile kamastra al centro: la catena che finisce con il gancio a cui si appende il paiolo. Kamastra è una parola che ancora esiste nel dialetto arcaico del mio paese, non molto distante dal Feudo di San Giovanni e Monte Sant’Angelo, che Ferrante d’Aragona donò a Giorgio Castriota Skanderbeg per l’aiuto ricevuto dall’eroe albanese, nella sua lotta contro Carlo d’Angiò.
L’albero dei paioli ha riportato alla mia mente quello che diceva l’antropologo Mircea Eliade a proposito di “questo issamento di pali o di campanili, che sempre rappresentano il centro intorno a cui viene costruito il villaggio e intorno a cui ruota tutto il resto”. La kamastra rappresenta proprio tutto questo: i valori del proprio focolare domestico, del gruppo sociale di riferimento, e di quella civiltà contadina che con il suo “raccontarsi” ancora continua a fare da centro di riferimento all’ “essere” e al “fare” Arbëreshë  e meridionale.

Kamastra è tutto quello che regge il paiolo e il gioco della propria rappresentazione sociale. E’ il cuore del focolare domestico, dove si prende riparo e ci si scalda, dove si prepara e si condivide il cibo, dove si accolgono gli amici di famiglia e dove gli anziani raccontano fatti comuni ed avvenimenti personali. E’ quell’insieme di anelli che rappresentano il sangue sparso degli Arbëreshë : sparso fra l’Albania e l’Arberia, la nazione della diaspora e la nazione invisibile, che li ha accolti, uniti e poi dispersi di nuovo nel Meridione d’Italia. E’ la catena che lega ogni Arbëreshë alle proprie origini albanesi e contadine, agganciandolo ai valori condivisi dal gruppo familiare e sociale, sostenendolo nella dura fatica che deve compiere per riscattare il proprio passato di emigrato ante litteram. 
Anche questo va detto: gli Arbëreshë  sono sempre stati il sud del Sud, il margine di una società meridionale, già di per sé marginale rispetto al resto dell’Italia. Sono sempre stati a sud di qualcosa, e anche per questo hanno sempre pagato con una grande povertà il mantenimento della propria identità. Questa grande povertà di mezzi materiali, non ha comportato la mancanza di mezzi culturali ed espressivi. Ha favorito, anzi, la sopravvivenza di una ricca tradizione orale fatta di miti 






sabato 18 febbraio 2012

Leonard Guaci, I grandi occhi del mare, romanzo, Besa editrice, Nardò ( Le), 2005

 LEONARD GAUCI
E' nato a Valona (Albania)nel 1967. 
Ha iniziato la sua attività letteraria con numerosi scritti sui giornali albanesi.
Nel 1990 si trasferisce a Roma dove vive e lavora.
Da allora ha collaborato con i periodici "Lo Stato" e  "Il Borghese" e con il Tg1.
Con Panciera Rossa nel 1999 ha vinto il Premio Internazionale di Letteratura "Antonio Sebastiani".
Il suo ultimo romanzo edito nel 2006 si chiama I grandi occhi del mare.


Leonard Guaci, I grandi occhi del mare, romanzo, Besa  editrice
Nardò ( Le) 2005
Finalista del premio: Casinò di San Remo, libro del mare.
“ Giocavamo a pallone sulla spiaggia, qualcuno disse: andiamo pure noi, vanno tutti via. Fu così che partimmoi”. E’ il racconto di un ragazzo albanese che un giorno a scuola, mi raccontò della sua venuta in Italia. Era il 1992. Più meno, come  Arian, tanti ragazzi hanno lasciato il paese delle aquile  nel periodo del grande ultimo esodo, tra il 1990 e il 1992. Lasciavano il Paese scavalcando il mare, conferma Leonard Guaci, scrittore, già ragazzo albanese, che nel nostro Paese è diventato scrittore. Il suo romanzo, “ I Grandi Occhi del mare, pubblicato dalle Editrice Besa, Nardò, nel 2005,  racconta  un idillio singolare, tra una fanciulla e il mare. Aulona, è il nome della ragazza che  dal suo nascondiglio segreto , tutti i giorni, contemplava il mare con ammirazione. Era quello il suo orizzonte,  da lì nasceva e moriva la vita. Il sole che scompariva all’imbrunire  per poi riaffacciarsi il  mattino seguente da quel mare dagli occhi grandi , che nel suo grembo conservava i sogni, i segreti, i desideri. Solo con lui Aulona riusciva a comunicare  perché era sicura che i piccoli segreti non venivano mai svelati. Il mare  era la linea di un confine fragile che all’improvviso si sarebbe aperto per abbracciare e accogliere,  divenendo un ponte tra due rive.  E i sogni di questa bambina, animano le pagine del romanzo,  la cui trama si snoda  in un percorso di cinque secoli di storia. La prosa di Guaci è agevole, equilibrata e in molti punti  veramente elevata. L’uso realistico ed elegante della lingua italiana  fanno del romanzo un bel libro da leggere d’un fiato.  La presentazione del libro si è svolta a Termoli, su iniziativa del musicista Luca Ciarla , nell’ambito delle iniziative “ due Sponde un mare”, per favorire la reciproca conoscenza con gli artisti dell’altra sponda adriatica. Una recensione  è stata  pubblicata nella rivista Kamastra,  che ha aderito al Progetto del festival culturale promossa dall’Associazione Note Fatte a Mano. 
                                                                                                      FERNANDA PUGLIESE 

Il nostro mare - Deti jon

di Fernanda Pugliese




                                               Gemello  del cielo,  è  bello veramente
Il  suo  aspetto è antico , affascinante.
Sospira  il  vento  che  smuove le onde.
A volte  soffia a raffica, tal altra lievemente
le  culla ,  le percuote,  le infrange
e poi, filo di voce , sussurra  dolcemente.
E  il mare  si fa  piano,  si lascia trastullare.
D’un tratto,  all’improvviso diventa travolgente
si  gonfia,  alto, impetuoso,
il  vento  Maestrale  lo fa  pericoloso.
Lasso e  percosso  si posa nuovamente.
Lo  odia, lo ama , lo solca il navigante
e il mare  dal suo legno si lascia  attraversare.
Colpi  di remi, vele al vento,
d’azzurro, e poi  di  nero,
d’argento  si colora,
specchio   del  firmamento,
giardino  dell’aurora.
Ciascun dalle  sue sponde
le terre abbandonate,
guarda con nostalgia
nelle acque sue specchiate.
Scivola una lacrima dagli occhi.
                                                                                                                                                                                    


Binjok  qellit , i bukuri,  isht fërtet
Shëmbëlltyra   a   lashta  dhe a hjeshëma.
Fryin  vareja dhe tundën  valët
ndo një  her  fryn  a  fort,
njetër  dal e dal
a  tundën , pas   a rreh,  a  skutullon,   a  flet   ëmbël , ëmbël.
E deti bëhet  shesh,  lè ke ta bredhje.
Pas, shpeit, vuhet  e suvalonj
i thash, i lart, i lig,
voreja  a bën  suvalle.
I lodhti shum kujatohet,bëhet  papa  shesh.
Nëng  bë ta shoje , por a dishi mir
I vete ngrah  detari.
E deti lè ke druri  bë të a përshkoj
Bote remi,pëlhure mbaçu vares,
i  kaltër, i zeze  e pas i rëgjënd,
pasqyre  qillesh,
isht Kopshti  Afërdites.
Njarui ka busa detit
rrun dharasu dheret
të lënure  ma  zëmër njom
çë pasqyren ka ujt.
Kana syvet I shket nj lot.



















domenica 5 febbraio 2012

Si gjah bora - Come la neve

Droqe ma lëkëng  - Fusilli con la salsiccia 


di Fernanda Pugliese


Nevica. E' molto bello, è uno spettacolo della natura, ma poi? Quello che succede poi, ve lo lascio immaginare! Ora, non ci voglio pensare. 
Da buona massaia ho già messo a cucinare il ragù di salsiccia, braciola e cacio e uovo. Braciola e polpette di cacio e uovo sono una variante introdotta da mia madre. Era un modo per accontentare chi non voleva la salsiccia per secondo, ma poi si è rivelato una specialità. Questo ragù ovviamente, si sposa con le "droqe", così nella nostra amata lingua albanese chiamiamo i fusilli. Stamattina mi sono alzata, come sempre prima del'alba ,con un pensiero: i fusilli. Non li facevo da molto tempo e avevo il timore di essermi dimenticata. Non ricordavo se avevo ancora il ferro da ombrello. Il dubbio si è subito dileguato. In una casa di persone che amano la tradizione, il ferro per i fusilli non può mancare. Se pure se ne perde uno, da qualche parte nei tiretti, almeno un doppione, o più di uno, ci deve pur stare! E infatti.
Fernanda Pugliese dalla trasmissione di Rai 3 "Italia Agricoltura"
Dunque, ho preparato i fusilli per quattro, cinque o sei persone. Oggi aspetto i figli! Ma nevica? Li aspetto comunque e poi, chissà, qualche ospite all'improvviso, potrebbe pure arrivare. Semola di grano duro ( tre pugni a mani piene), 1 uovo ( per la consistenza dell'impasto), acqua q.b. e un pizzico di sale. 
Dopo aver amalgamato gli ingredienti nella farina a fontana, l' ho fatta assorbire lentamente fino a farla diventare una consistente massa, dopo di che, l'ho lavorata a lungo, con le mani, comprimendo, fino a farla diventare lucida e setosa. Poi, ho fatto un cono, l'ho schiacciato e con un coltello ho tagliato le strisce di pasta. Le ho lavorate ad una ad una, le ho assottigliate, ricavando tanti bastoncini di circa 3 millimetri di diametro e poi, via, col ferro. Li ho incavati ad uno ad uno con una leggera pressione delle mani. . Non vi dico il suono del ferro sulla tavola di legno, attutito dalla sfoglia arrotolata sullo stesso: una vibrazione, una nota di buon gusto, un anticipo di sapori, una inondazione di profumi provenienti dal tegame del ragù sul fornello. 
Cerimonia del 17 marzo 2011
 in Piazza Marconi, Montecilfone
Dalle finestre vedo la neve, è chiaro oramai il cielo. Si è fatto giorno. Il caffè è pronto, lo verso nella mia solita , amica tazzina, è sempre la stessa, anche lei aveva il suo doppio! Bevo il caffè guardando fuori dalla finestra. Mi fa compagnia l'Italia turrita, posta al centro della piazza, dove sormonta una fontana. La sua corona è imbiancata, la neve scivola sul suo mantello e si posa ai suoi piedi. Non passa nessuno. Anche il bar oggi è chiuso. Io e la vecchia Signora di pietra, spesso ci facciamo compagnia. Lei non parla ma sa che di lei so tutto. L'anno scorso in una situazione analoga, durante la lunga clausura, mi sono bene informata sul suo conto, l'ho anche fotografata e ho raccontato ai miei concittadini, in modo particolare ai bambini, la sua romantica e gloriosa storia. E' stata felice quando il 17 marzo, con gli studenti e uno stuolo di autorità, l'ho fatta cingere con la corona di alloro. Doveroso e sentito omaggio a una gran bella Signora, l'ITALIA . Qualcuno, molto volgarmente,vedendola sempre in piazza e in forma prorompente, l'aveva un tantino offesa, non sapendo chi fosse. Spesso, ci si sbaglia, un po' per cattiveria, un po' per ignoranza. Lei, ovviamente, non si è scomposta era e rimane lì, ferma, in posa statuaria. Io ritorno in cucina, allineo i fusilli a filari, rigiro il sugo, controllo che bolla a fuoco lento.  Dimenticavo il formaggio. Il pecorino? Lo grattugerò fresco e lo cospargerò direttamente a tavola, sul piatto fumante. Lo farò cadere copioso e lentamente, come la neve. 
Droqe ma lëkëng



















venerdì 3 febbraio 2012

L’arbërisht. Patrimonio della nostra Umanità

di Anna Maria Ragno

Cosa rappresenta per gli Italo-albanesi parlare l’arbërisht? Che cosa rappresenta per i non Arbëreshë salvaguardare questa lingua minoritaria? Quali sono i “pericoli” della lingua? Questo breve scritto cerca di dare una risposta a queste domande e al contempo suggerisce una riflessione sulla lingua e su come intenderla correttamente, in funzione del rispetto della diversità culturale e  dell’Umanità di ciascuno di noi.                                                                                                                                                   
Ogni lingua ha una dimensione storica e geografica, sociale e culturale, socio-etnologica ed addirittura onirica. Ognuna di queste dimensioni contribuisce a realizzare la diversità culturale di ogni gruppo sociale e la singolarità di ogni individuo. Riconoscere questa diversità ha valore per ciascuno di noi, Arbëreshë e non, Italiano o Albanese: significa, infatti, riconoscere ciò che è Patrimonio dell’Umanità, della “nostra” Umanità. L’arbërisht è la lingua che gli Arbëreshë hanno “inventato” fondendo ghego e tosco ai vari dialetti dell’Italia meridionale e a diversi prestiti linguistici. Ha sicuramente una origine storica, che risale al XV sec. e all’arrivo dei primi esuli albanesi in Italia, e fa riferimento ad una specifica area geografica, il Meridione d’Italia. Ha una funzione identitaria: per gli Arbëreshë, come sappiamo, la lingua costituisce lo strumento privilegiato attraverso cui è stata costruita e mantenuta la propria identità, celebrati i riti religiosi, trasmessi i valori, i miti e le leggende, i canti e le tradizioni. L’oralità, infatti, attraverso questa lingua segreta veicola miti come quello di Skanderbeg, leggende come Rozafat, canti come E ìkura e certe ninna nanne del cuore…
L’arbëresht, inoltre, ha una dimensione socio-etnologica che si rifà all’etnolinguistica e alla sociolinguistica. L´etnolinguistica studia le relazioni tra lingua e cultura, e il modo in cui diversi gruppi etnici concepiscono il mondo. Secondo l’interessante ma contestata teoria di Whorf-Sapir la concezione del mondo è limitata da ciò che è possibile descrivere nelle propria lingua. Chi scrive, come insegnante di storia e filosofia in contesti linguistici “diversi” come l’Etiopia, si è dovuta interrogare spesso sulla relazione lingua-pensiero e risolvere problematiche di questo tipo: Come si fa parlare di immanenza e trascendenza se nell’amarico, la lingua madre di questi studenti, neanche esistono questi termini? Ciò che non esiste nella lingua non esiste neanche nel pensiero e viceversa?
La sociolinguistica, invece, è la disciplina che studia i fenomeni linguistici dal punto di vista della dimensione sociale, interessandosi non alla lingua come sistema astratto, ma a come essa si realizza concretamente nell’uso che ne fanno gli individui e i gruppi sociali, e alle variazioni cui essa è soggetta in relazione ai suoi contesti d’uso. Ogni Arbëreh, come sappiamo, è bilingue, ma certe cose le dice e le pensa meglio in arbërisht: ad esempio se parla della dote della sposa o di come coltivare la terra.
Le ragioni per cui salvaguardare l’arbërisht risiedono, dunque, nel fatto che una lingua non è solo un mezzo di comunicazione, ma il tessuto stesso delle nostre espressioni culturali, il vettore della nostra identità, dei nostri valori e delle nostre concezioni del mondo. Nostra/e/i nel senso di Tutti, giacchè è interesse di ognuno di noi preservare la diversità linguistica come condizione necessaria della diversità culturale, e promuovere il multilinguismo, il dialogo interculturale e i diritti alla cittadinanza di tutti. Salvaguardare l’arbërisht significa mettere l’accento “sull’unità nella diversità”, cioè sull’Umanità che emerge dalle nostre differenze. La diversità linguistica e culturale costituisce il garante di un esercizio effettivo di questi diritti, poiché essa rafforza la coesione sociale e offre una fonte d’ispirazione per il rinnovamento delle forze di governance democratica.
Se la diversità è un valore da accogliere e valorizzare, mai dovrebbe  essere intesa come “ differenza” e usata come un’arma d’offesa, come alcune esternazioni fanno pensare.  “Non è Arbëresh” non offende chi non è, né non può dirsi Arbëresh, ma l’intelligenza di chi non capisce che gli Arbërshë  sono Italiani due volte:
1) perché, arrivati in Italia come ospiti e come esuli, qui hanno trovato nuove possibilità di vita e di lavoro, mantenendo e costruendo una doppia identità (italiana e albanese), e ragionando, come dice lo scrittore Carmine Abate, per “addizione” (non per sottrazione);
2) perchè, come dimostra la partecipazione al Risorgimento e ai Conflitti Mondiali, gli Arbëreshë hanno conservato la propria antica origine Albanese, diventando più Italiani degli Italiani. Se così non fosse dalla caduta del Comunismo e dagli anni 90 in poi, avremmo visto tornare nel Paese delle Aquile orde di Arbëreshë.
Come tale l’italo-albanese non può essere inteso come una maniera per chiudersi in una sorta di feudo personale nel quale può entrare solo chi parla l’arbërisht come lingua materna. Sarebbe come dire che può studiare e leggere Dante solo chi è nato a Firenze e usare l’invenzione di Meucci (il telefono) solo chi è Italiano.
Chi si lascia andare a queste esternazioni, non solo denuncia un acceso egocentrismo, ma un disumano etnocentrismo: il campanile del proprio paese o la statua di Skanderbeg collocata al centro della sua piazza principale è il centro del mondo stesso, e tutto deve essere misurato e valutato rispetto ad esso. Sia l'etnocentrismo (che si esprime sul piano culturale in rapporto ad un io collettivo), che l'egocentrismo (che invece trova interpretazione nella sfera psicologica in rapporto all'io individuale) significano la tendenza dell'io (collettivo o individuale che sia) a non decentrarsi, ad avere una confusione incosciente del proprio punto di vista con quello degli altri, e ad imporlo senza mezzi termini. Nelle peggiori delle conseguenze, l’etnocentrismo può assumere comportamenti patologici. Ciò si verifica quando vi è un eccessivo rifiuto verso gli altri, fino a sfociare in una vera e propria intolleranza o in forme mentali complesse dirette o indirette in genere dannose per chi non faccia parte del noi. Quando l'etnocentrismo si traduce nella sua forma mentale, sociale e culturale più esasperata diviene razzismo, tendenzialmente orientato non solo al rifiuto ma alla distruzione dell'altro.
Chi pensa che queste considerazioni siano esagerate, sottovaluta i pericoli che possono derivare dall’esaltazione della lingua e della razza,  dimenticando qualche pagina di storia della filosofia.
Infatti, le origini del "Mein Kampf" ("La mia battaglia”) di Hitler, la Bibbia del Terzo Reich, sono rintracciabili nei pensieri di filosofi come Hegel e Nietszche, Ma il primo filosofo nelle cui parole si possono riscontrare elementi della futura dottrina nazionalsocialista è Fichte, che per l’appunto nei suoi "Discorsi alla nazione tedesca" esaltò la superiorità naturale degli abitanti della Germania, basata sulla purezza della lingua tedesca!
Dunque, in Germania si trovava il popolo originario del ceppo europeo, il popolo per antonomasia, che aveva conservato la sua lingua originale e che, anche per questo, possedeva la vita spirituale più profonda e più autentica. Fichte andò addirittura oltre l'idea della purezza etnica, individuando in quello tedesco «un popolo primordiale» (Ur-Volk) con una lingua primordiale (Ur-Sprache), destinato metafisicamente a divenire la guida del mondo. Il filosofo auspicava l'avvento di una nuova generazione di tedeschi e proclamava che solo la Germania era la nazione spiritualmente "eletta" a realizzare l'«umanità tra gli uomini». Il suo pensiero fu certo frainteso, ma proprio per questo ci deve essere d’insegnamento che l’esaltazione della lingua e della razza, il far risalire, come molti fanno, l’origine degli Albanesi al Paleolitico e il collocare l’Albania nell’ombelico del mondo, insieme al totalitarismo dell’ignoranza, può produrre frutti velenosi.
Di diverso tenore è invece quello che diceva, sempre a proposito della lingua, il poeta di Bagheria (Sicilia), Ignazio Buttitta:
Un populu | mittitulu a catina | spugghiatulu | attuppatici a vucca | è ancora libiru. || Livatici u travagghiu | u passaportu | a tavola unni mancia | u lettu unni dormi | è ancora riccu. || Un populu, diventa poviru e servu | quannu ci arrubbano a lingua | addutata di patri: è persu pi sempri.
Un popolo rimane libero anche se lo mettono in catene, se lo spogliano di tutto, se gli chiudono la bocca; un popolo rimane ricco anche se gli tolgono il lavoro, il passaporto, la tavola su cui mangia, il letto in cui dorme. Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua ereditata dai padri: allora sì, è perso per sempre!
Sì, la lingua dei padri… e dei sogni.
Fernanda, durante una intervista ha dichiarato: “Vuoi sapere in che lingua sogno? Io sogno in arbërisht! Per venti generazioni noi Arbëreshë abbiamo mantenuto la lingua dei nostri padri, la lingua dei sogni ...”.