Onufri
è considerato l’iniziatore della pittura albanese del XVI secolo.
Le
sue
opere
sono
esposte
nel Museo
Nazionale delle Icone, che
si
trova nella
parte abitata del
Castello di Berat.
Questo museo contiene una ricca collezione iconografica e alcuni
oggetti utilizzati durante i servizi religiosi. E’ ospitato dal 27
febbraio 1986 nella
parte più interna della Chiesa dedicata alla Vergine Maria,
costruita nel 1797 sulle fondamenta di una chiesa più antica con lo
stesso nome.
Le
opere di Onufri, dagli
affreschi alle numerosissime icone mobili, coniugano l’impianto
stilistico della più classica scuola iconografica bizantina, con la
rigidità delle pose e delle espressioni dalla gestualità codificata
ed immutabile.
Ma
spesso la
sua pittura fuoriesce dai canoni dell’arte sacra bizantina, molto
legata a schemi e regole rigide, inserendo
paesaggi urbani e vedute bucoliche e
persino
personaggi reali, per
cui nel
suo San Giorgio e il drago, egli rappresenta Skanderbeg contro i
Turchi.
Forse
è proprio in virtù di questa identificazione che lo stesso Onufri
opera nelle sue opere, che in tutti i paesi arbereshe il Santo della
Cappadocia, regione dell’odierna Turchia, viene identificato con
l’eroe albanese (e viceversa). Per
altro, nel 1969 la
Chiesa cattolica declassò il santo nella liturgia a una memoria facoltativa, ma la devozione dei fedeliè
continuata.
Le
icone di Onufri, quindi, sono apprezzate per il grande realismo e
l’individualità introdotti nelle espressioni facciali e nelle
posizioni del corpo dei suoi soggetti, che rappresentarono una
rottura con le rigide convenzioni artistiche del tempo. Attraverso
questa tecnica egli
riesce ad
intrecciare sapientemente la simbologia religiosa con la tradizione
storica e ed epica albanesee
a
dare una rappresentazione
della vita interiore dei suoi personaggi, umanizzandoli, rendendoli
meno distanti dallo spettatore che osserva l’opera.
Ma
Onufri è famoso soprattutto per
la
tonalità di rosso da
lui ideata,
la cui formula non fu mai rivelata. Il
rosso spicca
anche
in questa bellissima icona, che mi fa pensare a San
Giorgio... “il rosso”.
San
Giorgio Megalomartire è
venerato come Patrono
di
Piana degli Albanesi dalla
fine del '400. Il Santo viene festeggiato il 23
aprile con
una solenne processione
della
reliquia del Santo, seguita dal meraviglioso gruppo statuario, opera
di
Nicolò Bagnasco. L'uscita della statua è caratterizzata dall’attesa
spasmodica dei
fedeli, che
esprimono
tutta la loro devozione con grida
e canti, che
si
fondono al frastuono dei mortaretti, al suono festoso delle campane e
all’allegra
musica della
banda musicale del
paese.
La
statua
equestre viene
portata a spalla, per le vie del paese, dai giovani del Comitato di
San Giorgio, che
per
tradizione non superano l'età di 26 anni. E’
qui che portatori, seguendo
il ritmo delle allegre marce militari, con passo cadenzato, danno
vita al ballo
di San Giorgio,
che come in una danza, incomincia
a fluttuare
col suo cavallo, in mezzo alla folla di fedeli.
Dopo
il lungo e tortuoso percorso tra le caratteristiche vie del paese, i
giovani portatori fanno danzare la statua davanti la Chiesa
dell’Odigitria, per fermarsi infine davanti alla Chiesa di San
Giorgio, dove la folla riceve la benedizione con la Sacra Reliquia,
che è custodita in una teca argentea settecentesca di fine e
pregevole fattura.
In Albania esistono diverse minoranze etniche che vivono nei territori confinanti con le
nazioni di appartenenza. Di conseguenza tali minoranze si trovano nelle
zone di confine con i paesi vicini: i Greci al sud, i Macedoni nella
zona del sud-est nel villaggio di Liqenas, i Serbo-montenegrini nel
villaggio di Vraka al nord del Paese. Inoltre esistono altre minoranze che non si trovano necessariamente
nelle vicinanze dei confini: i Bosniaci di Shijak, i Serbi di Fier, i Valacchi che si trovano sparsi in tutto il territorio albanese,e la piccolissima comunità ebraica di Tirana e Korca (circa 200 persone).
Gli Ebrei vivono in Albania dal XII secolo d.C. Esistevano insediamenti ebraici a Berat, Korce, Elbasan, Valona, Durazzo, Dibra e nella regione del Kosovo. Queste famiglie ebraiche erano prevalentemente di origine sefardita e discendenti degli ebrei spagnoli e portoghesi espulsi dall'Iberia in seguito all'editto di Alhambra (1492).
Nel 1520 a Valona si registravano 609 famiglie di ebrei e nella stessa città si trovava anche la prima sinagoga dell'Albania, distrutta successivamente durante il primo conflitto mondiale.
Tante famiglie hanno mantenuto il cognome di origine senza mai modificarla. Secondo il censimento albanese del 1930, vi erano solo 204 ebrei iscritti a quel tempo in Albania. Il riconoscimento ufficiale della comunità ebraica fu rilasciato il 2 aprile 1937, mentre a quel tempo questa comunità consisteva di circa 300 membri.
Con l'ascesa della Germania nazista un certo numero di ebrei tedeschi e austriaci si rifugiò in Albania. Sempre nel 1938 l'ambasciata albanese a Berlino continuò a rilasciare visti per gli ebrei, non essendo all'epoca possibile essere accolti in nessun altro paese europeo. Albert Einstein per trasferirsi negli Stati Uniti si servì di un passaporto albanese concessogli dopo un soggiorno nella città di Pogradec.
Durante la II Guerra Mondiale gli albanesi hanno nascosto gli ebrei nel
loro territorio, sia per iniziativa privata, sia per scelta delle
autorità che si sono rifiutate di consegnare agli italiani fascisti
arrivati in Albania nel 1939, e ai tedeschi nazisti arrivati poi nel
1943, le liste con i nomi degli ebrei presenti nel territorio. Il
pericolo di ritorsioni, specie durante l'occupazione nazista, era molto
alto, ovviamente, ma cittadini albanesi e le autorità albanesi difesero
gli ebrei totalmente, nascondendoli nelle case, procurando loro
documenti falsi, travestendoli da contadini albanesi, spostandoli da un
luogo all'altro per sfuggire alla morte. Se si pensa che al di fuori
dell'Albania, su circa 70.000 ebrei in pericolo solo il 10% hanno
potuto sopravvivere all'Olocausto, la straordinaria importanza
dell'Albania negli anni dell'Olocausto risulta ancora più evidente.
Anche gli albanesi del Kosovo, del Montenegro e della Macedonia hanno
contribuito alla salvezza di molti ebrei aiutandoli a rifugiarsi in
Albania che era, appunto, durante la II Guerra Mondiale, il luogo più
sicuro in Europa. Si stima che alla fine del conflitto mondiale nel paese esistessero
circa 2.000 ebrei, anche se cifre esatte non sono state mai trovate.
Attualmente
il numero degli Ebrei si attesta intorno ai 180-200 individui,
stanziati principalmente a Tirana e Korca. La sinagoga di Valona non è
molto frequentata.
Per una trattazione più completa dell'argomento rimando alla seguente bibliografia e sitografia:
Brazzo L., Sarfatti M., Gli Ebrei in Albania sotto il fascismo. Una storia da ricostruire, Giustina, 2011.
di Silvana Licursi.
Amo il mio idioma nativo, l’Arbëresh degli
Albanesi d’Italia, l’Arabesque, come dice un’amica francese che non
riesce a dire bene la parola. Amo i suoi suoni dolci, inzuppati di
miele, in punta di labbra, e quelli asperrimi, quasi impronunciabili per
chi non li abbia imparati da bambino. Amo i suoi grovigli di consonanti
in rotta di collisione, la sua musicalità sempre in minore nella
preghiera, nella ninna nanna, nel compianto funebre. Amo il senso
dell’esilio diventato un modo di essere dell’anima, separato ormai, dopo
secoli, da ogni riferimento reale, ma che, inconsciamente, custodisce,
anche in una vita piena e felice, una remota memoria di perdita e di
assenza che rende più struggente ogni addio, oltremodo lacerante ogni
perdita, nell’amore e nella morte.
Da bambina mi capitava di
ascoltare dalle vecchie cantatrici il desolato lamento funebre, capace
di spaccare il cuore eppure di accarezzarlo, perché il pianto
liberatore, così aizzato, sgorgasse a fiumi lavando gli occhi, il volto,
la mente, lo spirito. Da grande le ho ritrovate, le cantatrici, nei
tragici greci e nei poemi omerici.
Amo il ricordo di secoli di
fiabe, di miti, di racconti che popolavano le sere d’inverno accanto al
camino, con gli occhi al fuoco che mormorava, sibilava, scoppiettava o
ringhiava a seconda del vento che penetrava nella cappa; o semplicemente
taceva, mentre anche la voce del narratore s'affievoliva, e i più
piccoli cadevano nel sonno. Amo le vecchie canzoni d’amore che sembrano
dire a coloro che Arbëreshë non sono: “Ma voi che ne sapete dell’Amore”!
Questo è realmente accaduto, e penso che la povertà diventi miseria
nera e degradante solo quando i grandi non hanno più niente da
raccontare e i piccoli più niente da ascoltare. Quando il deserto
culturale dell’assoluta omologazione arriva a prosciugare le fonti,
anche il benessere conquistato e benvenuto, anche la giustizia sociale
–irrinunciabile- non possono colmare il baratro in cui fate, streghe,
mostri, déi ed eroi si sono precipitati, come un esercito in rotta,
portando con sé pregiudizi e superstizioni, ignoranza e ingiustizia,
violenza e dolore, ma anche la radice prima della Poesia. La memoria è
il solo scrigno prezioso dell’identità, portatrice di mito e di poesia,
di forza interiore e di consolazione, dalla culla alla tomba.
Ci sono dischi che, inspiegabilmente e inconsciamente, mi
ricongiungono col mondo, allontanandomi dalla solitudine che la
globalità virtuale del medesimo spesso comporta. Sun Na
di Max Fuschetto è sicuramente catalogabile tra questi. Sassofonista,
oboista e compositore, come si legge nelle sue note biografiche,
Fuschetto possiede cultura e padronanza di linguaggi musicali
sorprendenti che gli consentono per questo suo nuovo “sogno” in note di
regalarci una musica senza tempo, perduta (e ritrovata). Il titolo
dell’album proviene da un antico dialetto greco ancora in uso in alcune
regioni dell’Africa e tradotto corrisponde a “sognare”, ma si potrebbe
aggiungere “viaggiare nell’inconscio”. E il viaggio che compie,
accompagnato da una vastità di validi musicisti e voci tra cui, solo per
citarne alcuni, Antonella Pelilli, Andrea Chimenti, Pasquale
Capobianco, Giuseppe Branca, Giulio Costanzo, che alternano e accostano
sapientemente strumenti acustici all’elettronica moderna, il nostro da
forma e sostanza ad una tavolozza di suoni e colori dal mondo che ha
davvero del genio.
Dall’ambient quasi tout court del piano di Secret Shadows, che ricorda Nyman, a Qem Ma Tija con la chitarra ipnotica di Capobianco ad accompagnare la splendida voce della Pelilli che domina anche in Si Trendafile,
una nenia leggiadra come vento su un deserto lontano e pregno di
misteri. Ma non si può rinunciare nemmeno all’incedere maestoso e lieve
di una Return To A o alla bossanova contaminata da tutto ciò che si possa immaginare di Palsagem Do Rio, fiati, elettronica e percussioni sembrano non essersi mai confrontati in modo più onirico. Vibrazioni Liquide sfoggia abiti etnici di rara bellezza che lasciano spazio all’ethno world da camera e psichedelico di Samaher con tanto di violini d’avanguardia e alla grazia poetica di Les Roses D’Arben,
cantata in francese da Antonella Pelilli in duo con Andrea Chimenti.
Fuschetto è musicista classico abbastanza colto da sapersi misurare col
folklore di suoni e ritmi provenienti da tutte le latitudini, con un uso
sapiente e mai invasivo dell’elettronica, l’autore campano crea un
tramite tra arcaico e contemporaneo, con una cifra stilistica davvero
ammirabile ed unica. In tempi di guerre e diaspore Fuschetto, con le sue
armonie dal mondo immerse nel sogno, sembra volerci rassicurare,
infonderci fiducia, nella speranza di un futuro più equo tra nord e sud
di questo tormentato pianeta.
La mattina del 6 gennaio a Piana degli Albanesi, come ogni anno, si celebra l’Epifania (Ujët e pagëzuam), la festa che ricorda la visita dei re Magi a Gesù bambino.
Anche questa ricorrenza religiosa è caratterizzata dai profondi simbolismi del rito bizantino, e quindi dai canti che accompagnano tutta la funzione religiosa, dalla sfilata degli abiti tradizionali femminili riccamente ricamati in oro, dalla benedizione delle acque, dal volo di una colomba bianca e dalle distribuzione delle arance ai fedeli.
La festa, infatti, si svolge lungo quattro momenti salienti:
Il solenne Pontificale in Cattedrale. Il vescovo e i sacerdoti, celebrano in cattedrale la liturgia eucaristica, rievocando con il canto "Në Jordan" la discesa dello Spirito Santo nel Giordano, il giorno del battesimo di Cristo.
La sfilate delle donne in costume tradizionale. I rappresentanti dell’Eparchia, dopo aver celebrato il Ponteficale, si dirigono in processione accompagnati dai fedeli e dalle ragazze vestite con l’abito tradizionale, verso la fontana dei “Tre cannoli” nella piazza principale del paese.
Il rito della benedizione delle acque. Il Vescovo immerge nell'acqua della fontana per tre volte lacroce scolpita in legno, reggendo con l'altra mano il candelabro a tre ceri e un rametto di ruta, mentre dall’alto del tetto della Chiesa dell’Odigitria, viene fatta scendere una colomba bianca.
Il rito della benedizione delle acque. Il Vescovo immerge nell'acqua della fontana per tre volte la croce scolpita in legno, reggendo con l'altra mano il candelabro a tre ceri e un rametto di ruta, mentre dall’alto del tetto della Chiesa dell’Odigitria, viene fatta scendere una colomba bianca.
La distribuzione delle arance. Nella stessa fontana vengono immerse anche le arance, che poi vengono distribuite agli abitanti del paese e ai visitatori.
Se il significato della simbologia della colomba è facilmente intuibile, intorno alla simbologia delle arance di addensa una vera e propria nebulosa di significati. Le arance, infatti, fanno riferimento ad una simbologia complessa e molto ampia di significati, che si collega con:
la rinascita della natura dopo il gelido periodo invernale, implicita anche nel rito del battesimo;
la purezza delle fanciulle che sfilano con i cesti di arance: i fiori di arancio, infatti, sono considerati simbolo di castità e vengono utilizzati come addobbi floreali per i matrimoni, proprio per indicare la purezza della sposa;
la fecondità e l’amore: secondo la mitologia greca, infatti, la dote di Giunone, andata sposa a Giove, consistette in alcuni alberelli i cui frutti erano dei meravigliosi globi d’oro, cioè arance, simbolo della fecondità e dell’amore. Giove preoccupato che dei ladri potessero sottrargli quel dono prezioso, li custodì con uno straordinario giardino sorvegliato dalle ninfe Esperidi, mitiche fanciulle dal canto dolcissimo (di qui il nome greco di esperidi dato a tutti i frutti degli agrumi);
l’abbondanza, la fecondità e la vitalità: la forma sferica dell’arancia, infatti, si collega alla simbologia del cerchio, l’archetipo del “centro” da cui tutto può espandersi e crescere.
Quest’ultimo elemento è sicuramente il può importante e ricco di significati, perché richiama l’idea che Piana degli Albanesi è il centro dell’universo sociale, mitico e psichico degli ex esuli albanesi, da cui tutto può nascere, anzi rinascere, crescere ed espandersi.
di Anna Maria Ragno
Fra i "Tesori del Patrimonio Culturale Albanese" c'è un sudario del 1373, che conquista per la preziosità dell'esecuzione, e per la realtà che rappresenta: è l’Epitaffio di Gllavenica, detto anche Cristo di Gllavenica, preziosa testimonianza della devozione e dell’abilità artistica albanese.
Cristo di Gllavenico
Questa "sindone" è assolutamente diversa dalla Sacra Sindone conservata nel Duomo di Torino ma idealmente accostabile ad essa per similitudine di significato, dignità e bellezza. Si tratta di una raffigurazione del Cristo Morto deposto su un grande "lenzuolo" che ricorda il celebre "lino" (la Sindone appunto) di cui parlano i Vangeli, nel quale fu avvolto il corpo di Gesù dopo la deposizione dalla croce, e che fu trovato poi accuratamente ripiegato nel sepolcro dopo la resurrezione.
Il celebre e venerato "Epitaffio di Gllavenica" della Cattedrale di Ballsh è un drappo sul quale è raffigurato il corpo del Signore, che per la ricchezza e raffinatezza dei suoi ricami e dei suoi ornamenti contrasta l'assoluta semplicità della Sindone di Torino, che conserva soltanto l'impronta del corpo del Signore, e risulta con immediatezza essere un lenzuolo comperato sul momento, sempre secondo il racconto evangelico, per la sepoltura di Gesù, che è infatti senza ricami e senza ornamenti di alcun genere.
Il lenzuolo raffigurato tra i tesori albanesi, invece, è un grande drappo di lino, interamente ricamato con fili di seta, d'oro, di rame e argento sul quale è raffigurato con vigorosa naturalezza, elaborato nell'essenzialità del disegno medioevale, il corpo del Cristo morto.
Il Cristo di Gllavenica presenta una ricca serie di ornamenti.
Intorno all'immagine di Cristo, sono raffigurati, tra medaglioni ornamentali, diversi angeli e apostoli, ricamati secondo i canoni dell'arte bizantina, e in alto sono evidenziati due personaggi tipici tratti dal racconto evangelico della Passione: Maria, la madre di Gesù e Giovanni, il discepolo prediletto a cui Gesù morente raccomandò la madre. La singolarità consiste proprio nell'imponente raffigurazione del "lenzuolo", oggetto che è solitamente ignorato o trascurato dagli artisti.
Il drappo, di raffinatissima fattura, serviva alle celebrazioni del Venerdì Santo. E' un tessuto di lino di 250 x 117 cm. Foderato e ricamato con fili d'oro, argento, rame e di seta rosa, blu, verde, e gialla di diverse tonalità che creano effetti di chiaroscuro. Sul sudario è ricamato in greco, con lettere d'oro, il vero e proprio epitaffio che ne ricorda come committente il vescovo Kalisi di Gllavenica e Berart; la data del 22 marzo 6881 (1373) e l'autore, tale Gjergj Arianiti, con il ricamatore d'oro.
Anche se poco conosciuto ai non albanesi, l’epitaffio di Gllavenica, può essere annoverato alle “altre sindoni” - circa quaranta - che come la sindone di Besançon, i sudari di Cadouin e di Carcassonne, la “Santa Cuffia” di Cahors, nel corso dei secoli, hanno avuto la dignità di reliquie sepolcrali di Gesù. A differenza delle immagini acheropite (non fatte da mano umana) come la Veronica e il Mandilio di Adessa, il Cristo albanese della Cattedrale di Ballsh, rivendica la sua originalità e preziosità nel suo essere espressione di una devozione che si fa “abilità artistica” e ricamo in oro: lo stesso oro delle icone bizantine e dei costumi arbëresh.
Il 22 aprile si rinnova annualmente a Chieuti la carrese, la tradizionale corsa dei carri trainati da buoi.
La sfida, di cui si hanno i primi dati certi a partire dal 1911, quando ad aggiudicarsi il 'palio di San Giorgio' fu il carro 'Maurea', nasce dalle tradizioni chieutine legate al culto di san Giorgio.
Una delle leggende {1} parla di un certo Roberto di Loretello (forse Rotello, vicino centro molisano) che avrebbe organizzato una partita di caccia tra i signori di San Martino in Pensilis, Ururi e Serracapriola. Al termine della giornata i cacciatori trovarono i cavalli inginocchiati su uno spicchio di terreno dove, scavando, emerse un'urna con le ossa del Beato Leone. Da quel giorno il luogo sarebbe diventato méta di pellegrinaggi mentre lungo la strada che a esso menavano si sarebbero innescate corse fra carri.
L'altra ipotesi parla della tradizione di offrire rami di alloro che venivano portati alla chiesa del patrono San Giorgio nel giorno della sua festa e, proprio durante il trasporto, sarebbero iniziate le prime 'carresi'.
I festeggiamenti durano ben quattro giorni dal 21 al 24 aprile e sono caratterizzati da tradizioni davvero singolari come la benedizione dell’alloro, simbolo della vittoria, che viene distribuito a tutte le famiglie chieutine che lo espongono come prezioso ornamento all’esterno delle loro abitazioni; e l’offerta del Tarallo che consiste in una grossa ciambella fatta di formaggio filato, intrecciata tutt’intorno, adornata da uccellini e cestini, e sormontata dalla statua di San Giorgio a cavallo che uccide il drago e salva la principessa.
Dopo la tradizionale corsa, che ogni anno termina il 23 aprile, ai vincitori del Palio, viene consegnata una treccia di caciocavallo di circa 80 chili, raffigurante le gesta di S. Giorgio, che verrà portata in processione insieme alla statua del Santo. Ogni anno una famiglia, a turno, prepara questo grande Tarallo, che dopo la processione verrà distribuito fra tutte le famiglie del paese.
A Palermo c’è una chiesa, la Martorana, a cui è legata una leggenda e la preparazione delle pecorelle pasquali di pasta reale.
La chiesa della Martorana, che oggi è concattedrale dell’ Eparchia di Piana degli Albanesi, nel corso dei secoli ha subito diversi rimaneggiamenti e cambi di destinazione d'uso. Dal febbraio 2013, dopo due anni di restauro, è stata finalmente restituita al suo antico splendore. I riti liturgici, le cerimonie nuziali, il battesimo e le festività religiose della parrocchia della Martorana, seguono la liturgia di rito bizantino e la tradizione albanese delle comunità dell'Eparchia di Piana degli Albanesi. Le lingue liturgiche utilizzate sono il greco o l'albanese.
La Martorana è quindi testimonianza della cultura religiosa e artistica ortodossa presente ancora oggi in Italia, apportata ed accresciuta dagli esuli albanesi rifugiatisi in Sicilia, sotto l'incalzare delle persecuzioni turche nei Balcani. Quest'ultimo influsso ha lasciato notevoli tracce nella pittura delle icone, nel rito religioso, nella lingua, nei costumi tradizionali propri della colonia albanese stanziata nella provincia di Palermo.
Nata come chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio o di San Nicolò dei Greci, la Martorana venne fatta erigere nel 1143 per i fedeli di rito greco di Palermo da Giorgio Rosio di Antiochia, l’ammiraglio proveniente dalla Siria al servizio del re normanno Ruggero II.
Il mosaico dell'incoronazione di Ruggiero II di Sicilia (a sinistra)
e dell'arcangelo Michael (a destra).
Chiesa della Martorana, Palermo.
Circa nel 1193, Goffredo ed Eloisa Martorana, fecero costruire un monastero benedettino accanto alla chiesa. Nel 1435 Re Alfonso d'Aragona concesse poi la chiesa al vicino Monastero delle Benedettine, per cui la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio prese poi il nome de "La Martorana".
Dalla nobildonna Eloisa Martorana presero il nome anche i dolci in forma di frutti o le pecorelle pasquali di marzapane, che oggi conosciamo come Frutti o pecorelle di Martorana. Perché questa relazione? Una leggenda narra che nel giugno 1537 l'imperatore Carlo V visitò Palermo. Nel giardino della Martorana vi erano alberi di aranci, ma a luglio non erano ovviamente maturi. Allora le monache escogitarono un sistema per far vedere un giardino bello e ben curato al sovrano: addobbarono gli alberi del convento con dei dolci di pasta di mandorle artisticamente colorati. I dolcetti ebbero così tanto successo, che superarono le mura del convento fino ad arrivare alla corte del re e, da quel momento, essi presero il nome di "pasta Riali" (pasta reale) o "frutti di Martorana".
Quindi in onore della nobildonna Eloisa Martorana, sia il complesso edilizio che i dolci preparati dalle monache, assunsero il nome "della Martorana". Con il passare del tempo ogni ricorrenza religiosa si guadagnò uno speciale soggetto di marzapane: pecorelle per Natale, cavallucci per Sant'Antonio, agnelli e pecorelle per Pasqua. Il successo di questi dolcetti spinse la corporazione dei Confettari a tentare di ottenere il monopolio della loro produzione. Lo scopo venne raggiunto nel 1575 con l'intervento del sinodo diocesano di Mazara del Vallo, che proibì alle religiose la preparazione della Frutta di Martorana, perché arrecava troppa distrazione al raccoglimento liturgico.
Ancora oggi i frutti della Martorana sono famosi nel mondo, perché la loro preparazione e il loro confezionamento prevede, nella forma e nell'aspetto alla fine del processo di preparazione, la perfetta imitazione o riproduzione di frutti, ortaggi o pesci, e talvolta pecorelle e agnelli. Internamente sono simili al marzapane ma notevolmente più dolce e saporito
di Emanuela Frate
(pubblicato su babelMed l'8 Marzo 2014)
Si parla spesso della condizione delle donne nei Paesi arabi, in Africa, in India dove le associazioni e le organizzazioni internazionali denunciano, legittimamente, i matrimoni forzati, gli stupri collettivi, i soprusi e le violenze che queste donne, quotidianamente, devono subire da parte di mariti, padri, fratelli, amici. Quando si pensa alla condizione femminile nel mondo sono questi gli esempi più lampanti che vengono in mente. Ma esiste un paese, nel cuore dell’Europa, dove la parità di genere è ancora una chimera. Questo Paese è l’Albania dove tuttora le donne vivono in quasi totale subalternità nonostante le apparenze. Ha sicuramente influito molto il Kanun di Lek Dukagjini che, sebbene, sia stato abolito, ha lasciato delle tracce soprattutto nelle piccole realtà rurali. Indubbiamente, negli anni in cui fu in vigore il Kanun, la donna albanese ha vissuto il suo periodo più duro. All’articolo 29 del Kanun si legge infatti: “La donna è un otre fatto solo per sopportare”.
Si può riassumere il ruolo della donna sposata da quanto si evince dall’articolo 13 del Kanun: “la moglie ha il diritto ad avere un marito, sostentamento, vestititi e calzature”. Tutto il resto è lasciato al buon cuore dello sposo. In un Paese fortemente legato al concetto di sangue come simbolo di un clan, un’etnia, una nazione e altresì strettamente legato al valore virile delle armi non è casuale che, come si evince dall’articolo 129 del Kanun, il padre della futura sposa, nel consegnare la figlia allo sposo metta, nascosto tra le pieghe del corredo nuziale, anche un proiettile, sottolineando così il potere che si dà al marito perfino di uccidere la sua sposa qualora ella manchi di rispetto al marito o compia adulterio. Questo perché, come recita l’art.28 “il sangue della donna non è da paragonarsi a quello dell’uomo”. Inoltre, nel diritto consuetudinario del Kanun, la donna albanese, una volta sposata, non entra a far parte della nuova famiglia ma resta sempre parte integrante della sua famiglia originaria e quindi viene vista come una sorta di “corpo estraneo” per la nuova famiglia, a differenza del diritto romano in cui la donna sposata perdeva qualsiasi contatto con la famiglia di provenienza per unirsi al nuovo gruppo familiare. Semplicemente la donna passava dal potere del padre al potere del marito che comunque la considerava come qualcosa di avulso dal proprio nucleo familiare pur disponendone a suo piacimento (bastonandola o ripudiandola semplicemente tagliandone una ciocca di capelli o addirittura uccidendola). Così descritta la condizione femminile quando era in vigore il Kanun sembra addirittura peggiore alla condizione femminile di Paesi in cui vige la Sharia o altri codici.
Si fa spesso riferimento ad un mito, ad una figura leggendaria della cultura albanese che esemplifica la condizione della donna nell’immaginario collettivo: la leggenda di Rozafa. La storia di questa figura mitologica raccolta che fu murata viva da suo marito e dai suoi fratelli per scongiurare una maledizione che impediva loro di edificare il castello che sovrasta Scutari. Prima di morire murata Rozafa chiese di lasciar fuori almeno un braccio per accarezzare il figlio neonato, un seno per allattarlo ed un piede per dondolare la culla. Questa leggenda, tanto tragica quanto cruenta, simboleggia le caratteristiche della donna albanese, la sopportazione, l’abnegazione, l’accettazione del proprio destino perfino in condizioni estreme. Sempre nel Kanun si fa riferimento ad un’altra figura femminile emblematica: quella delle Burrnesh o Vergini giurate. Donne che per sopperire all’articolo 36 per cui “la legge riconosce per erede il figlio e non la figlia” decidevano di “farsi uomo” acquisendo tutti i diritti riservati agli uomini (possedere un’arma, fumare, intrattenersi con uomini, disporre delle proprietà) giurando però eterna castità. L’eventualità che una donna si trasformasse in “burrnesh” o “vergine giurata” avveniva soprattutto quando un padre di famiglia moriva senza lasciare eredi maschi. Oggi le “Burrnesh” non esistono quasi più, quelle rimaste (poche decine) vivono in isolati paesini di montagna e sono quasi tutte anziane ed il Kanun non è più in vigore ma il diritto, per le donne albanesi, di ereditare ancora non esiste. Le donne tutt’oggi, nella società albanese, non ereditano; sono spesso costrette ad accettare la volontà della famiglia nella scelta del futuro marito; perdono il proprio cognome quando si sposano e vanno a vivere presso la famiglia del marito sottostando alla norma della residenza virilocale. L’Albania è il paese dove è ancora diffuso il cosiddetto “aborto selettivo” (se il feto è di sesso femminile si potrebbe incorrere in un aborto) e dove è di gran voga la ricostruzione dell’imene per ridare la verginità alle sventurate donne che l’hanno perduta (come succede in molti Paesi arabi).
La donna albanese ha sicuramente goduto di una timida emancipazione durante gli anni del regime comunista: nonostante il duro lavoro nei campi o nelle fabbriche, sotto il regime di Enver Hoxha, le donne avevano alcuni spazi e delle libertà e una certa indipendenza economica. Il passaggio da un regime di sussistenza ad un’economia di mercato fu drastico e portò molte conseguenze. La transizione non fu indolore: gli uomini andavano all’estero e le donne erano costrette ad occuparsi da sole della campagna, delle faccende domestiche, dei figli e dei parenti. In altri casi le donne che partivano in cerca di fortuna diventavano vittime di personaggi senza scrupoli che gestivano il traffico della prostituzione.
Essere donna oggi in Albania è ancora molto duro. Persiste un retroterra culturale ancora fortemente maschilista. Le ragazzine si vedono come future mogli e future madri. Spesso le giovani sono costrette a non proseguire gli studi perché “non è decoroso” spostarsi da una città all’altra da sole. E anche quando hanno raggiunto elevati livelli di istruzione, laureandosi, faticano a trovare un lavoro e se lo trovano hanno dei salari nettamente inferiori. Ma l’aspetto più inquietante è un’altra forma di violenza, più subdola, che subiscono: i maltrattamenti domestici causati spesso da alcolismo e la disoccupazione dilagante. Percosse fisiche e psicologiche che tengono le donne soggiogate ai propri mariti. Dal 2006 esiste una legge contro le violenze domestiche (varata per venire incontro alle pressanti richieste degli organismi internazionali) ma, di fatto, non serve a nulla, non essendo stato finanziato con le risorse necessarie per assistere le donne. Così laddove lo Stato albanese non arriva ci sono le associazioni e le Ong a sostenere le donne vittime di violenze come il Centro Donna, nato nel 2001, nella città di Scutari oppure “Useful to Albanian Women Association”. Il tema della violenza domestica non è oggi più tabù, tra tante difficoltà se ne comincia a parlare e si inizia a denunciare gli aggressori, tuttavia la rigida cultura patriarcale ed il maschilismo imperante fanno dell’Albania un Paese dove è ancora problematico vivere per il gentil sesso.
di Emanuela Frate
(pubblicato il 5 Dic.2013 su BabelMed)
Panorama da una kulla (Foto Kosovo Bradt)
Fra le tante espressioni dell’identità di un popolo e delle esigenze umane, l’architettura è sicuramente una di queste. E la “Kulla” è, tra le forme architettoniche, uno straordinario esempio di sincretismo artistico e antropologico e tra le più singolari forme d’arte dall’elevato valore storico-culturale. Kulla è una parola albanese che deriva dal termine turco “kule” e significa letteralmente “torre”. In effetti le Kulle, costruzioni datate tra il 18° e 19° secolo, sono delle residenze fortificate dotate di cortile, che si ergono in altezza, dai muri molto spessi e assomigliano, appunto a delle torri. I muri sono costruiti sovente in pietra o, alcune volte, in mattoni e, al posto delle finestre ci sono delle fenditure (frenji) che avevano un duplice scopo: sia difensivo (serviva per appostare il fucile e sparare ai nemici senza timore di essere colpiti) che per preservare la riservatezza della famiglia, in particolar modo delle donne. La kulla si estendeva in altezza e anche se, al suo interno non era molto ampia, poteva comunque ospitare fino ad un centinaio di persone e, per questo motivo, era estremamente adatta alla famiglie patriarcali albanesi. Inoltre, lo spessore dei muri in pietra si adattava al clima montagnoso delle Alpi albanesi ed era perfetto per contrastare i rigidi inverni quanto le secche estati. Generalmente la kulla era divisa in tre piani: il piano terra era adibito a deposito di munizioni e attrezzature da lavoro oltre ad essere adoperato come stalla per gli animali, soprattutto per i cavalli; al primo piano stavano gli uomini, al piano superiore si trovava la “zona notte” con le stanze da letto mentre le donne e i bambini occupavano una dependance. Vi erano due ingressi distinti e due scale separate: un’entrata principale e una laterale riservata alle donne. Questa disposizione risentiva molto dell’influenza islamica dove gli ambienti fra uomini e donne erano divisi ma era altresì necessaria affinché gli uomini potessero proteggere le proprie famiglie dagli attacchi esterni.
Questa particolare tipologia abitativa, si diffuse in special modo nell’Albania settentrionale e nel Kosovo occidentale, lungo la Pianura di Dukagjini. Due aree confinanti accomunate dal fatto di esser spesso vittime di attacchi esterni, ora dai turchi, ora dalle vendette fratricide (gjakmarrja) da parte di chi subiva un oltraggio. Non è un caso che questi edifici, dai muri impenetrabili, fino ad un metro di spessore, dalle finestre quasi inesistenti e dall’altezza sorprendente, si diffusero proprio nella Pianura di Dukagjini che prende il nome dall’omonimo Principe e padre fondatore del più famoso Kanun, il codice d’onore albanese (oggi abrogato-almeno formalmente) che legittimava la vendetta, estendendola, dopo le 24 ore dall’omicidio, a tutti i membri maschi imparentati con quella famiglia, creando così una spirale di odio e di violenza che si protraeva, spesso, per generazioni con famiglie in faida tra di loro. Dal momento che la casa era l’unico luogo considerato inviolabile, la kulla, che è molto più che una casa ma quasi una fortezza, diventava il vero e unico rifugio impenetrabile.
Nel tempo la Kulla rappresentò il potere dell’aristocrazia albanese e delle classi sociali più elevate. Ma ci sono anche altri elementi che rendono unica questa abitazione da un punto di vista non soltanto architettonico ma anche grazie agli arredi interni : ad esempio il primo piano dove risiedevano gli uomini (Oda e Burrave) era considerato il luogo di discussione privilegiato dove il capofamiglia (Zoti i Shtëpisë) insieme agli altri uomini della famiglia assumeva le decisioni importanti, oppure si parlava di argomenti futili tanto per ingannare il tempo o si ricevevano gli ospiti che, nella cultura albanese, sono sacri. Questa stanza assunse perfino una connotazione romantica diventando un microcosmo sociale come si può anche leggere in molti passi di “Aprile Spezzato” , il romanzo del famoso scrittore albanese Ismail Kadaré. E’ probabile che lo stesso Kanun si sia tramandato oralmente, una generazione dopo l’altra, proprio all’interno dell’Oda dove si riunivano gli uomini di uno stesso clan familiare. Al centro delle “Oda” si trovava spesso un camino per riscaldarsi, numerosi tappeti, il lungo pugnale detto “hanxher” di cui ogni buon albanese montanaro non poteva fare a meno, molto spesso vi era anche una Qibla che indicava la direzione della Mecca per le preghiere quotidiane. Immancabili erano le credenze a muro intagliate in legno e la controsoffittatura dalle travi in legno. Alcune kulle erano dotate del cosiddetto cardak, la tipica veranda di ispirazione ottomana che occupava l’ultimo piano dell’edificio.
Queste particolari costruzioni erano molto diffuse presso le popolazioni albanesi dell’Albania settentrionale, del Kosovo, della Grecia (nel Peloponneso abitato dagli arvaniti) e in Montenegro. Buona parte di questo importante patrimonio storico e artistico è andato distrutto o ha subito ingenti danneggiamenti, nel 1999, a causa degli eventi bellici tra albanesi e serbo-bosniaci che prendevano di mira proprio le molteplici kulle perché simbolo della tradizione e dell’identità albanese. Laddove invece non ci fu la guerra, è stata l’incuria e la trascuratezza a determinarne il progressivo disfacimento. Oggi, diverse organizzazioni internazionali, prima fra tutte la “Cultural Heritage Withhout Borders” (CHwB) hanno iniziato ad occuparsi del recupero, restauro o della ricostruzione di ciò che resta delle Kulle per riportare all’antico splendore questi edifici di inusitata bellezza e restituire all’umanità una fetta importante di un patrimonio storico e artistico tipicamente albanese. Oggi, quasi più nessuno abita all’interno delle Kulle ma la stragrande maggioranza di quelle ricostruite o restaurate ospitano i turisti stranieri alla scoperta dei Balcani oppure sono la cornice perfetta con congressi, convegni e seminari internazionali.
di Emanuela Frate
(pubblicato il 18 Novembre 2013 su BabelMed)
Il Presidente Edi Rama
L’Albania dice NO! Edi Rama dice No e risponde picche agli Stati Uniti che avevano proposto al Paese delle due Aquile di smantellare l’arsenale di armi chimiche siriane sulla base del fatto che in passato l’Albania aveva già disinnescato le sue armi chimiche che possedeva fin dall’epoca comunista. A dire il vero il processo di disinnesco delle armi del regime comunista non è ancora completato e ci sarebbero almeno 100mila tonnellate tra armi e munizioni da disinnescare. A queste si aggiungerebbe tutto l’arsenale chimico di Assad (290 tonnellate di armi, munizioni, gas nervini e veleni vari). Da quando si è diffusa la notizia che l’Albania sarebbe stata indicata come il luogo ideale in cui distruggere questo grosso armamentario, si sono levate proteste in tutto mondo. Ovunque ci fosse una comunità di albanesi, si sono organizzati dei sit-in per dire al mondo intero con fermezza un no deciso a questo genere di ipotesi.
Sono state raccolte, in poco tempo, più di 30mila firme per una petizione on-line e, manifestazioni di protesta sono state fatte in varie città albanesi come Tirana, Valona, Scutari, Durazzo ma anche in Italia: a Milano, a Torino, a Roma, a Rimini; in Macedonia ed in Kosovo dove risiede una più nutrita popolazione di etnia albanese ed anche in Europa come nella capitale francese. Mentre queste manifestazioni avevano luogo erano in corso i colloqui all’AIA nel quartier generale dell’OPAC (organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) e, alle 17h il Presidente albanese, il socialista Edi Rama, annunciava, nel suo discorso, l’esito delle trattative. C’era molta apprensione tra le piazze albanesi stracolme di manifestanti anche perché non c’era nulla che lasciasse sperare in qualcosa di positivo (la contropartita era molto allettante per il piccolo Paese del sud balcanico, si parlava di aiuti economici come una copertura finanziaria pari a tre volte il bilancio dell’Albania; il riconoscimento dello status di Paese candidato a dicembre; aiuto alla piena adesione dell’Albania all’Unione Europea nel primo mandato di Edi Rama; la garanzia di uno status speciale per l’Albania nei confronti degli USA in cui si parlava anche dell’abolizione dei visti e, dulcis in fundo, la proposta di dare all’Albania il premio Nobel per la Pace). Musica per le orecchie del Presidente Edi Rama che era, per questo motivo, titubante fino all’ultimo. Tant’è che fino a poche ore prima dell’annuncio ufficiale del ritiro dell’Albania dai negoziati per la distruzione delle armi siriane, si pensava, al contrario, per un sì. Ma alla fine, Rama, si è dovuto piegare alla volontà del suo popolo che, in un collettivo risveglio di coscienza civica, ha manifestato pacificamente per esprimere il proprio diniego.
(LaPresse/AP)
L’annuncio del Presidente Rama (che nessuno si aspettava) è seguito a manifestazioni spontanee di gioia, quasi una gioia da stadio frammista ad applausi, abbracci e lacrime in un gremito Boulevard Dëshmorët e Kombit. I manifestanti issano le loro bandiere dall’aquila bicefala, intonando canzoni, scandendo slogan. L’Albania non si piega, l’Albania non accetta il “pacchetto regalo degli Usa” in cambio di scorie, nervini, gas sarin che, se maneggiati male, potrebbero creare un vero e proprio disastro ambientale e nuocere gravemente alla salute dei suoi abitanti e dei Paesi confinanti. Per l’Albania è un giorno di festa, un piccolo Paese che ha saputo imporre la propria voce anche nei confronti degli USA nel generale silenzio dei media internazionali, aver rifiutato di accogliere rifiuti tossici in un Paese dove le discariche a cielo aperto già abbondano, aver scongiurato una potenziale catastrofe che se fosse avvenuta avrebbe avuto dimensioni immani.
Adesso permane il problema che entro giugno del 2014 l’arsenale chimico di Bashar Al-Assad dovrà essere smantellato. Ma dove? In quale sito? Quale sito verrà indicato la prossima volta? E se il caso dell’Albania divenisse un importante precedente ed il futuro sito che verrà scelto dovesse rifiutarsi di smaltire il deposito di armi e munizioni siriane sulla falsariga di quanto ha già fatto, coraggiosamente, la piccola Albania?
di Emanuela Frate
(pubblicato in Babelmed.net il 9 Novembre 2013)
Lo scorso 15 ottobre, in un incontro bilaterale, il ministro degli esteri greco Evangelos Venizelos ed il suo omologo albanese Ditmir Bushati hanno nuovamente sottolineato l’importanza del trattato di Amicizia greco-albanese, stipulato nel 1996 che, nelle comuni intenzioni, dovrà essere rafforzato anche in vista di un prossimo ingresso dell’Albania in Europa. Belle parole, bei discorsi, iniziative lodevoli se non fosse che, in realtà, i rapporti diplomatici tra i due Paesi, oltre alle parole di circostanza e ai discorsi di facciata, non sono mai stati idilliaci. A margine dell’incontro istituzionale, il ministro albanese Bushati ha testualmente affermato che “il trattato di amicizia Grecia-Albania rappresenta una solida base per intensificare i rapporti tra i due Paesi” aggiungendo inoltre che “la Grecia dovrebbe abrogare la legge della guerra ancora vigente”. Questo, infatti, è un aspetto, insieme a quello della Ciamuria (in albanese) o Thesprotia (in greco) tuttora irrisolto che fa sì che, tra i due Paesi, vi sia tuttora un certo astio strisciante.
L’incontro fra i due Paesi balcanici confinanti e la ricorrenza, quest’anno, del centenario del Trattato di Londra del 1913 - che ha determinato gli attuali confini dell’Albania - con numerosi convegni e seminari sul tema, ha riportato in auge un’antica questione molto sentita dalla popolazione albanese ovvero l’abrogazione di una legge greca ormai obsoleta come la sopracitata legge della guerra strettamente connessa alla questione dei chami che, ogniqualvolta viene riproposta, suscita vaghe nostalgie associate ad una buona dose di irredentismo e retoriche nazionalistiche.
Tra i tanti popoli che, nel Mediterraneo, hanno subito ondate di persecuzioni e pulizie etniche, si sorvola spesso su quello chami, oppure il dramma vissuto da questo popolo viene vagamente accennato sui libri di storia e, non di certo, sui libri di storia greci. La Ciamuria, conosciuta in greco come Thesprotia ovvero l’Epiro centrale, è un’area situata nella zona costiera al confine tra Grecia e Albania ed è abitata da gente di etnia e lingua albanese e di religione prevalentemente musulmana. Questa popolazione fu, per decenni, oggetto di maltrattamenti e persecuzioni, fino a quando si consumò una vera e propria pulizia etnica nei confronti dei chami, molti dei quali furono forzatamente costretti ad emigrare in Albania per non subire ulteriori torture. Il pretesto per cancellare questa popolazione indesiderata fu l’accusa di collaborazionismo con il fascismo. L’episodio storico risale al 1943 quando i nazi-fascisti fucilarono quarantanove patrioti greci e, secondo la versione greca, questa carneficina si consumò grazie al concorso di cittadini greci di origine cham (quindi di etnia albanese e religione musulmana).
Generale Napoleon Zervas
In realtà, i chami furono sempre invisi ai veri greci essendo musulmani e quindi, nell’immaginario collettivo greco, assimilabili ai turchi cioè ai nemici storici. L’obiettivo della Grecia, infatti, era quello di cancellare tutti gli elementi non greci e l’identità non ortodossa. A subirne le conseguenze furono le minoranze macedoni e albanesi (sebbene in realtà diversi studi confermino che i greci di etnia macedone e albanese siano autoctoni). Da questo momento i chami furono allontanati in modo coatto dal territorio greco, buona parte di essi perirono durante l’esodo forzato ed altri furono massacrati (anche donne e bambini) per mano degli attacchi inferti dalle truppe elleniche guidate dal generale Napoleon Zervas che è tuttora considerato, in Grecia, un eroe nazionale per aver protetto il suolo greco (la zona di Giannina) dagli occupanti italiani (coadiuvati dai chami) durante la seconda guerra mondiale.
L’esodo forzoso dei chami contribuì non poco a fare di quella albanese, una tra le popolazioni più diasporizzate d’Europa. Come se tutto ciò non bastasse, ai chami furono confiscate terre, case, bestiame, arredi sulla base di una famigerata legge della guerra varata nel lontano 1940. Nel 1987 il governo greco propose l’abrogazione di suddetta legge anche se poi non fu mai ratificata dal Parlamento con il risultato che oggi, a distanza di 73 anni, col pretesto che la legge greca non viene applicata e che la sua abrogazione è implicita (senza bisogno di essere ratificata) persiste una legge ingiusta che impedisce de facto agli eredi e discendenti dei chami, di tornare in possesso dei propri beni, detenuti, illegittimamente, dalla Grecia. Ai Chami (buona parte dei Chami di religione ortodossa), rimasti in Grecia, viene tuttora impedito di parlare apertamente la lingua albanese e lo Stato greco opera un processo di assimilazione e di ellenizzazione dei chami nel tentativo di soffocare ogni sentimento di appartenenza alla minoranza etnico-linguistica albanese. Lo Stato greco nega tuttora i visti d’ingresso ai ciamurioti che volessero visitare la terra che hanno dovuto lasciare (la Grecia appunto).
Una soluzione a questo annoso problema sarebbe l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea (l’Albania ha ottenuto il riconoscimento di Paese candidato anche se il processo d’integrazione alla UE sarà ancora lungo e irto di ostacoli) cosicché anche gli albanesi possano avere uguali diritti ed i ciamurioti possano entrare liberamente in Grecia ed ottenere anche la cittadinanza greca. Ogni 27 giugno, dal 1994, il governo albanese celebra un giorno di commemorazione per ricordare il genocidio dei chami, ma, benché lodevole, si tratta di un evento isolato dal valore esclusivamente simbolico tant’è che, nella percezione comune, sono pochi ad avere la consapevolezza di quanto abbia dovuto subire e quanto ancora stia soffrendo l’identità del popolo Chami nel cuore della vecchia Europa.
di Anxhela Naka
(articolo tratto da Albania news del 9 Agosto 2013)
l paese era in festa. Davanti l’immenso portone del comune si era radunata una piccola folla. Tutti attendevano l’arrivo di qualcuno; chi sperava in una foto, chi di scambiare due chiacchiere, chi in una stretta di mano. E poi c’ero io, che avrei voluto sentire solo le sue parole.
Si vide sbucare dalla stradina, che portava nell’ immensa piazza, un’auto scortata, un’auto blu. Scese un uomo, giacca e cravatta, capelli bianchi, era lui.
Mi precipitai nella sala comunale prima che arrivassero tutti. Dopo qualche minuto l’ambasciatore entrò, salutando con un timoroso ‘Buonasera’ dall’accento albanese. L’ambasciatore, Neritan Ceka, era accompagnato dall’ambasciatore albanese in Gran Bretagna, Mal Berisha. Tutti presero posto, io mi misi in piedi in fondo alla sala.
Da sinistra, il Sindaco di Ururi Luigi Plescia, l'ambasciatore Neritan Ceka accompagnato dall’ambasciatore albanese in Gran Bretagna, Mal Berisha.
Il sindaco fece una breve presentazione del paese, dalla cultura, alle tradizioni, dalle origini alla lingua. Poi lasciò la parola all’ambasciatore, che si alzò in piedi e iniziò a parlare.Iniziò dicendo che, da archeologo qual era, aveva pensato che Urur significasse ‘beato’ dalla somiglianza che ha con il termine ‘i ururar’ in albanese. “Ed è cosi, – continuò – i nostri antenati sono venuti qui per trovare una nuova patria, ed e’ qui che hanno mantenuto le loro tradizioni, per non tradire mai le loro origini.
Voi siete riusciti a conservare un piccolo pezzo d’Albania nel vostro paese, Ururi, ed è per questo che il nostro centenario d’Indipendenza è iniziato qui, non in Albania.”.
Poi passò alla politica: “Si pensa a un futuro migliore. In Italia si sente un clima di pessimismo, ma io credo che l’ottimismo esista. Noi siamo europei convinti. L’Europa non è un sogno, una realtà difficile sì, ma non un sogno”.
E mentre loro parlavano di crisi e di realtà difficili, la mia mente spaziava altrove. Pensavo a noi, noi immigrati, noi che stiamo tra le due sponde del fiume, noi orfani di patria. Come se la nostra madre patria ci avesse abbandonato, o magari noi, senza scrupoli, l’avessimo abbandonata, egoisticamente ma anche miseramente, per un futuro migliore, e ora d’un tratto ci fosse venuta a trovare. Lui, un uomo apparentemente comune, rappresentava la mia Nazione, la mia patria, la mia terra. Ed io di questo ne sono andata fiera. Finalmente, dopo tanto, mi sentivo protetta, non ero più orfana, mi sentivo a casa.
E cosi un’ondata di ricordi da bambina mi travolse e dovetti mandarli giù come un boccone amaro.
Sentivo che la mia patria non mi aveva dimenticato, e cosi, come una madre, cercava i suoi figli sparsi nel mondo, partoriti dal suo ventre, quei figli ai quali aveva insegnato una lingua, una cultura, aveva tramandato storie, canzoni, tradizioni.
Fissai gli occhi sullo sfondo rosso della bandiera, Dio quanto mi mancava. Quanto avrei voluto vederla svolazzare li, quella bandiera, su quella terra, e guardarla col naso all’insù’ ammirando quel cielo, e respirando quell’aria. E tenere dentro quell’odore di libertà, spezzando le catene dell’ingiustizia, della differenza, e dell’indifferenza. Mi mancava la gente come me, la mia gente, e in quel momento sarei scappata via, e a piedi nudi mi sarei buttata su un prato verde, un prato albanese.
E cosi, distesa a terra, avrei visto nel cielo limpido svolazzare un’aquila, e sarei stata viva, sarei stata libera.
E quando meno te lo aspetti la vita ti fa questi scherzi, ti riporta il passato tra le mani, e ti ricorda che il futuro sarà sempre più diverso e sempre più lontano dalla tua casetta nel paese delle aquile.
L’Albania sta cambiando, in meglio, e questa è l’occasione per dimostrare agli altri che valiamo qualcosa, che possiamo anche noi, nel nostro piccolo, dare qualcosa al mondo.
E se per qualcuno l’incontro con un ambasciatore può essere una cosa insignificante, una formalità, per me è stato tutto questo, emozioni, ricordi, sentimenti, speranze.
E per questo, posso dire solo Grazie.
di Anna Maria Ragno
L’iso-polifonia albanese, che nel suo insieme è stata insignita del riconoscimento di Patrimonio immateriale dell’Umanità dall’Unesco, si compone di tre schemi strutturali di massima (tosk, lab e çam), in cui ciascuna comunità infonde i propri tratti distintivi, diventando in tal modo segni sonori di appartenenza: segni sonori distintivi, che segnano l’appartenenza ad un determinato contesto linguistico, culturale, sociale e politico.
Nel loro insieme, queste diverse espressioni musicali, sono le più affascinanti e originali forme di polifonia di tradizione orale dell’area euro-mediterranea. Le aree d'espressione polivocale per eccellenza sono la regione adriatica a sud del fiume Shkumbin, e quella ionica a sud del fiume Vjosa, corrispondenti ai due gruppi linguistici meridionali tosk e lab.
Un discorso a parte merita la polifonia della minoranza albanese çam, costituita da circa 200.00 persone di lingua albanese, provenienti dall’Epiro, la regione della Grecia settentrionale, che in albanese viene chiamata Çamëria. Emigrati in Albania durante la prima metà del ‘900, ora si trovano sparsi fra l’Albania meridionale (le comunità più importanti sono quelle che vivono nelle città di Fier e Valona) e la Grecia settentrionale, dove è stanziata l’altra parte della minoranza albanese Cham, costituita secondo alcune stime da circa 40.000 persone, anche se l’idioma albanese è parlato solo da 10.000 ciamurioti. Secondo l’efficace definizione di Ramadan Socoli, l’illustre musicologo albanse, i çam, che ancora oggi sono oggetto di aspre controversie tra Albania e Grecia, costituiscono un caso singolare di emigrati in casa propria. Sono ben integrati nella società albanese, ma hanno maturato una forte identità di appartenenza alla comunità çam: un'identità segnata dalla diaspora, dal legame con la terra di provenienza - che hanno dovuto lasciare per le politiche ostili e per le forme di espulsione applicate nei loro confronti dalle autorità greche - e dalla rivendicazione dei propri diritti nei territori greci da cui sono fuggiti.
All’interno di queste regioni troviamo quei tratti comuni che consentono di identificare distinti modelli espressivi, ma prima di addentrarci in queste distinzioni, è il caso di illustrare il significato della parola iso-polifonia.
Il termine iso si riferisce al ronzio di accompagnamento. In genere tra i Tosk è sempre continuo e cantato sulla sillaba 'e', usando la respirazione scaglionata; mentre per i Lab è cantato come un tono ritmico. Questo tipo di canto è eseguito principalmente da cantanti di sesso maschile, e accompagna tradizionalmente una vasta gamma di eventi sociali, come i matrimoni, i funerali, le feste del raccolto, celebrazioni religiose e folk festival come quello che si tiene ogni anno ad Argirocastro.
Per polifonia, invece, si intende quel tipo di scrittura musicale che prevede l’insieme simultaneo di più voci umane e/o strumentali (la parola deriva dal greco e significa per l’appunto “a molte voci”) su diverse altezze sonore, che procedono simultaneamente secondo determinate regole armoniche, ma che si possono considerare anche autonome, in quanto ogni voce agisce indipendentemente dall’altra. I primi modelli di tale struttura sono già rinvenibili nelle cerimonie musicali delle civiltà primitive dell’antica Grecia.
In senso lato la polifonia può indicare qualsiasi aggregazione verticale di suoni, come per esempio, nel linguaggio dell’armonia, un accordo. Al concetto di polifonia si oppone quello di monodia (canto a una voce), che distingue la musica romano-bizantina, termine con il quale si intende attualmente la musica religiosa ortodossa orientale.
L'iso-polifonia albanese è caratterizzata da brani composti principalmente da due parti solistiche, una parte compone la melodia e l'altra esegue un controcanto con un iso corale. La struttura di queste parti solistiche varia a seconda dei diversi modi di eseguire il canto, poiché ogni gruppo adatta la struttura alle proprie esigenze. Tuttavia, come abbiamo già visto, si possono distinguere tre macro modelli: tosk, lab e çam.
Il modellotosk ha un carattere orizzontale e presenta due parti soliste che si muovono sul bordone ininterrotto, detto isso o kaba intonato da tre o quattro cantori sulla "e" chiusa. Avanzando prevalentemente per imitazione, la voce guida, marresi, e la seconda voce, pritesi compiono ampi movimenti melodici e sono caratterizzate da un particolare procedimento di ornamentazione, una sorta di yodel, che consiste nel rapidissimo passaggio dal registro grave a quello acuto. Tra i principali centri vanno ricordate le regioni di Berat, Koriza e Santiquaranta.
La polivocalità lab risponde invece ad una concezione "verticale", nella quale le parti alternano dissonanze e consonanze. Il bordone che ha un andamento sillabico e colori cangianti. Su questo baricentro si muovono lente e compatte le tre parti: la prima presenta la frase melodica, alla quale la seconda fa da contrappunto, mentre la terza interviene solo a tratti, creando un amalgama armonico nel quale risaltano i differenti timbri. Le tre voci soliste, che agiscono prevalentemente nel registro acuto, sono chiamate marresi, kthyesi e hedhesi ad indicare il loro gioco sonoro di presa, risposta e rilancio. La tradizione lab predilige le melodie pentafoniche ed è caratterizzata dal frequente impiego di intervalli armonici di seconda. La forza espressiva del canto deriva non solo dalla potenza dell'emissione, ma anche dalla ricorrente presenza del vibrato. Nell'area lab i principali centri dell'espressione polivocale sono la regione di Valona, Tepelena ed Argirocastro.
Nella Ciamuria (in albanese Çamëria) l'espressione polivocale riprende l'andamento orizzontale che caratterizza l'area tosk e il cui bordone manifesta evidenti reminiscenze bizantine. La polifonia dei çam, che è prerogativa esclusiva delle voci maschili, vede come tratto principale la presenza del bordone (iso), eseguito da un piccolo coro, sul quale si addensano altre voci in movimenti polifonici talvolta assai complessi. Nella polifonia dei çam, sopra il bordone vi sono due solisti - marrësi e kthyesi, ovvero ‘colui che prende il canto’ e ‘colui che lo rigira’ - che si rincorrono in sofisticati giochi imitativi. Secondo il prof. Nicola Scaldaferri, essa presenta una raffinatezza sconosciuta alle altre forme di isopolifonia albanese, ovvero alle polifonie tosk e lab. Ai cantori çam, infatti, viene unanimemente riconosciuta una straordinaria abilità nel fiorire le linee melodiche. I gruppi vocali spesso vengono accompagnati da gruppi strumentali, per cui le ornamentazioni vocali gareggiano con il virtuosismo dei vari strumentisti. I testi verbali, accanto a quelli rituali e funzionali, presentano contenuti di carattere storico in cui si rievocano la diaspora dei çam. Di notevole interesse è anche il repertorio di elegji, canti di rimpianto e nostalgia per la casa e le terre abbandonate oltre il confine greco, eseguiti spesso dagli uomini a voce sola.
Nel canale youtube Diaspora Arbëreshe è possibile ritrovare vari esempi di isopolifonia tosk e lab, ma segnaliamo per tutti il Gruppo Ensemble Tirana e brani come Do marr çiften.
I componenti di questo gruppo sono profondi conoscitori delle diverse espressioni del canto polivocale tradizionale, in particolar modo quelle degli stili della Ciamuria e delle regione di Valona e Koriza. Si tratta di una formazione di cantori professionali scelti tra i migliori elementi dell’Ensemble nazionale di canti e danze popolari d'Albania. Per tale motivo la loro esecuzione risulta meno ruvida di quella amatoriale della gente comune e più precisa nell'intonazione e negli attacchi. Per la tradizione çam si segnala anche il Gruppo polifonico di Fier e Rrogozhina.
Fra gli innovatori del panorama musicale albanese segnaliamo la genialità e la sensibilità artistica del pianista Markelian Kapedani, che con gli Euphonia Ensemble ha reinterpretato Ti je zemra ime (Tu sei il mio cuore), una ninna nanna dedicata ai bambini kosovari, e il talentuoso Admir Shkurtaj, che con la sua fisarmonica ha arricchito le sonorità del gruppo grecanico Ghetonia.