ARBËRIA NEWS Blog

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giovedì 11 ottobre 2012

Canto e poesia di Civita. Silvana Licursi: La Colomba - Pëllumbi (o Pllumb'thi)

di Silvana Licursi




Questo è certamente uno dei più bei canti della tradizione
musicale Arbëreshe, così come Civita è uno dei paesi più belli, senza voler
fare torto a nessuno. Il proprio paese si ama "senza se e senza ma",  non
c'è nulla da spiegare. Il tema del "messaggero d'amore", l'identificazione
dell'amata con una colomba, gli innamorati descritti come colombi (persino
Paolo e Francesca nel V canto dell'Inferno dantesco): sono elementi presenti
già nella poesia antica, poi in quella dei trovatori, nei poeti romantici,
fino alla "Palummella, zompa e vola" della canzone napoletana. Il canto di
Civita è per delicatezza e splendore delle immagini e per la struggente
malinconia del sentimento espresso una realizzazione del tema di altissima
qualità poetica, paragonabile -a mio giudizio- a certi frammenti dei lirici
greci o della poesia alessandrina. Mi piace ricordare, con l'occasione, che
quando con i miei ottimi musicisti ho eseguito questo canto a Colonia, nel
grande teatro del Westdeutscher Rundfunk, il pubblico (numerosissimo) alla
fine si è alzato in piedi per applaudire. L'ho sentito non come un omaggio
alla mia persona, ma come un successo della grazia e della bellezza della
musica, che era arrivata in volo -come una colomba- nel cuore di tutti.




Due note sulle note de "La Colomba"  (Pëllumbi)
di Anna Maria Ragno
Due note sulle note della Colomba, tanto l’emozione non ha voce, la bellezza non si può raccontare, la speranza e il dolore hanno il pudore dell’intimità.
Mi sottopongo volontariamente all’esperimento di scrivere quello che penso in cinque minuti, il tempo di ascoltarla, e di aspettare che questa colomba ritorni col suo ramoscello d’ulivo nel becco ad annunciare che è arrivata una nuova pasqua del cuore, la resurrezione dal dolore e dalla perdita, il riscatto della memoria. Che canzone è? Non ha quasi struttura melodica e sviluppo armonico, è pathos allo stato puro che cresce con il ritmo incessante del Bolero di Ravel; è empatia che ti fa scendere negli inferi del ricordo, della nostalgia, della tenerezza.
La musica arbëreshe è andata oltre il Fado di Amalia Rodrigues, la Llorona di Chavela Vargas, i canti religiosi di Maria Carta e di Giuni Russo. La Licursi ha superato la Licursi.



giovedì 5 luglio 2012

I comignoli apotropaici di Rota Greca (CS).

di Marcello Lucieri
 Comignolo apotropaico nel rione Babilonia realizzato dal maestro Sergio D’Elia di Rota Greca

I comignoli apotropaici sono lunghe appendici in muratura che hanno la funzione di guidare fuori i fumi di scarico del focolare interno o del forno.
Nelle comunità di origine arbëreshe tali costruzioni hanno connotazioni originali che rappresentano una tipica espressione della forte personalità di queste popolazioni. Solitamente il comignolo è, in proporzione, molto piccolo rispetto alle dimensioni della casa; nelle abitazioni di queste comunità si caratterizza per la sua sovradimensione, sia in altezza che in larghezza. Tale sovradimensione è legata non solo alla possibilità di permettere una corretta emissione del fumo ma soprattutto al significato e alla simbologia antropologica ed apotropaica che veniva data alle Çimineret che sono da sempre segno di familiarità.
Il focolare rappresenta il centro della vita e della famiglia, dell’unità e della continuità familiare, nonché luogo deputato al culto dei Lari (figure della mitologia romana che rappresentano gli spiriti protettori degli antenati). L’uso, da parte degli arbëreshë, di scolpire sui lati e alle basi dei comignoli, bassorilievi (soprattutto figure antropomorfe), deriva sicuramente da culti pagani; a volte l’intero comignolo veniva realizzato con fattezze di volto umano.
Ai lati del comignolo fuoriescono degli spuntoni con la funzione di protezione della casa e di allontanare spiriti maligni e malevole intenzioni riguardo l’abitazione che servivano. A completare tali segni apotropaici veniva inserita una cannata, brocca usata solitamente per il vino con un solo manico che, ricolma del nettare di Bacco, veniva cementata all’apice del comignolo e richiamava l’auspicio che quel focolare fosse sempre accompagnato dalla gioia della festa e del vino che si beve in quell’occasione e quindi aveva funzione apotropaica appunto sui dolori e dispiaceri.
A completare tali segni apotropaici veniva inserita una cannata che richiama il valore dell’ospitalità prescritta dal Kanun (Il Kanun di Lek Dukagjini è un codice di leggi consuetudinarie che si sono trasmesse oralmente per secoli. Viene creato intorno alla metà del 1400, per dare una legislazione e tradizione propria al popolo albanese).

venerdì 15 giugno 2012

Chi ha riportato Doruntina? Il mito, la Besa, il Kanun.

di Anna Maria Ragno
(da Albania news)
Il Kanun è una legge che è stata raccolta come i chicchi di grano in questa grande povertà. (Ndrek Pjetri)
Doruntina e Kostandin



Chi ha riportato Doruntina?
Il mito, la Besa, il Kanun.
Il mito di Doruntina e Costantino racconta una storia, che ogni Albanese e ogni Arbereshe conosce: l’unica figlia di una vedova, viene sposata lontanissimo dal fratello, il quale promette all’anziana donna,  oramai costernata dalla guerra e dalla povertà, di riportarle l’amata figlia ogniqualvolta ne avesse bisogno. Ma l’inverno per la povera donna è stato molto duro e freddo, le ha fatto perdere nove figli sul campo di battaglia, tra cui Costantino. Piangente sulla tomba del figlio, la donna lo rimprovera d’essersene andato senza aver tenuto fede alla promessa (Bessa) di riportarle Doruntina. Allora Costantino esce dalla tomba e, dopo un lungo viaggio, riporta la sorella della madre.


Kush e solli Doruntinën
(Chi ha riportato Doruntina)
Il grande scrittore Ismail Kadarè, nel suo libro “Chi ha riportato Doruntina?”, attingendo al grande patrimonio leggendario del suo Paese, ripropone  il mito di Costantino come un thriller fuori dal tempo. Il capitano Stres, incaricato di far luce sull’evento, così riferisce sull’accaduto:

“Voi tutti avete già sentito parlare (….) delle strane nozze di Doruntina Vranaj, nozze che stanno all’origine di questa storia. Saprete certamente, ritengo, che questa unione lontana, la prima conclusa in un Paese tanto distante, non sarebbe avvenuta se Costantino, uno dei fratelli della sposa, non avesse dato la propria parola alla madre di riportarle Doruntina ogniqualvolta lei avesse desiderato la sua presenza, in occasione di gioie e di dolori. Sapete anche che i Vrenaj, come tutti gli albanesi, non hanno tardato a essere colpiti da un lutto atroce. E tuttavia, nessuno riportò Doruntina, perché colui che aveva promesso di farlo era morto. 

Siete anche al corrente della maledizione che la signora-madre pronunciò contro il proprio figlio per violazione della bessa, e sapete che, tre settimane dopo che fu proferita quella maledizione, Doruntina riapparve infine in casa dei suoi. Ecco perché affermo e ribadisco che Doruntina non è stata riportata da altri che dal fratello Costantino, in virtù della parola data, della sua bessa. Quel viaggio non si spiega né potrebbe spiegarsi altrimenti. Poco importa che Costantino sia uscito o no dal sepolcro per compiere la propria missione, poco importa di sapere ch fu il cavaliere che partì in quella notte oscura e quale cavallo sellò, quali mani tennero le redini, quali piedi poggiarono sulle staffe, di chi erano i capelli ricoperti della polvere del cammino. Ciascuno di noi ha la sua parte in questo viaggio, perché la bessa di Costantino, colui che ha riportato Doruntina, è germogliata qui fra noi. E dunque, per essere più precisi, si può dire che, attraverso Costantino, siamo stati noi tutti, voi, io, i nostri morti che riposano nel cimitero accanto alla chiesa, a riportare Doruntina.”

“ Nobili signori (…) vorrei dirvi (….) che cosa è questa forze sublime in grado di infrangere le leggi della morte. (….) Cercherò di spiegarvi perché questa nuova legge morale è nata e si diffonde fra di noi.”


“Ogni popolo, di fronte al pericolo, affina i suoi strumenti di difesa e –questo è l’essenziale- ne crea di nuovi. Bisogna avere la vista corta per non comprendere che l’Albania si trova di fronte a grandi drammi. Presto o tardi, giungeranno fino ai suoi confini, se già non vi sono arrivati. Allora, si pone la domanda: in simili nuove condizioni di aggravamento dello stato generale del mondo, in quest’epoca di sfide, di crimini e di odiose perfidie, quale sarà il volto dell’Albania? Sposerà il male o vi si opporrà? In breve, cambierà volto per adattarsi le maschere dell’epoca, onde assicurare la propria sopravvivenza, o manterrà un volto immutato, col rischio di attirare su di sé la collera dei tempi? L’Albania vede avvicinarsi l’era delle prove, della scelta fra quei due volti. E, se il popolo albanese ha cominciato a elaborare nel più profondo di sé delle istituzioni tanto sublimi quanto la bessa, ciò sta ad indicare che l’Albania è sul punto di fare la sua scelta. E’ per portare questo messaggio all’Albania e al resto del mondo che Costantino è uscito dalla tomba.”

La Besa, o Bessa, come dice Kadarè è all’origine stessa della società albanese. Dalla Besa prendono vita “strutture eterne più stabili delle leggi e delle istituzioni esteriori, strutture eterne ed universali insite nell’uomo stesso, inviolabili ed invisibili e perciò indistruttibili” (Ismail Kadarè, Chi ha riportato Doruntina?, Longanesi, pag 129). La Besa è la parola data da Costantino alla madre. Il termine, intraducibile in qualsiasi altra lingua, indica il rispetto dei patti, delle regole e dell’ordine. Significa mantenere la parola, garantire la tregua, assicurare la protezione dell’ospite. E’ quindi collegata all’onore, al rispetto della parola data, all’ospitalità, a quanto vi è di più sacro, ma è anche vendetta e sangue.

E’ il Kanun che istituisce la Besa, sintesi delle istanze che reggono l’intera organizzazione sociale albanese. Il Kanun di Lek Dukagjini - riportato alle stampe dall’antropologa Patriza Resta, per i tipi della Besa Editrice (1996) - è un codice di leggi consuetudinarie, che si sono tramandate oralmente per secoli. Pur modificati, alcuni dei valori in esso contenuti, costituiscono il nocciolo duro dell’identità albanese.

La traduzione di Kanun è Canone, cioè regola, ma la radice etimologica è riga o righello. La riga serve a mantenere l’ordine: da bambini scrivevamo sui quaderni a righe, così le parole erano allineate. Il Kanun mantiene l’ordine, l’integrità e la sua etimologia lo garantisce. Secondo Ndrek Pjetri, capo della rinata Associazione per la fratellanza e la pace, “ il Kanun è stata la legge, il modo di vivere del popolo albanese, la nostra tradizione giuridica e rappresenta in parte anche la nostra libertà nazionale” ( Resta P. (a cura di), Il Kanun di Lek Dukagjini, Besa Editrice, pag. 15). In quanto tale  esso prescrive atteggiamenti positivi ed eleva al rango di fede il rispetto nei confronti della parola data. Questo è il principio trasposto, col suo alto lirismo, dal grande scrittore Kadarè in Chi ha riportato Doruntina?

(dedicato al prof. Sante Grillo)

lunedì 11 giugno 2012

Le icone bizantine. La teologia della tenerezza

di Anna Maria Ragno 
(da Albania news)


Se non comprendiamo che ogni atto di cultura è verità, non saremo in grado di riconoscergli dignità interiore e vera umanità. Pavel Aleksandrovic Florenskij
Iconostasi coro Abbazia di Grottaferrata


Le Chiese di rito Bizantino dell’Eparchia di Lungro e di Piana degli Albanesi si distinguono dalle Chiese di rito Latino per le loro splendide Iconostasi, i canti liturgici, l’altare quadrato, le croci greche, l’assenza di statue e di strumenti musicali come l’organo.


La pianta delle Chiese bizantine rappresenta il corpo della Madre. L’ombelico (Onfos) corrisponde al cerchio situato dopo il primo gradino, fra l’altare  ed il popolo. Il seno materno, invece,   corrisponde al gradino a semicerchio  (Solea), di fronte alla porta centrale  dell’Iconostasi, dove il papàs distribuisce l’Eucarestia con il pane e il vino.

L’Iconostasi (o Transetto), quindi,  è quella parete divisoria in legno, che separa il Sancta Santorum dal resto della Chiesa, i fedeli dal santuario, dove si celebra il sacrificio. Qui le icone sono collocate secondo un ordine stabilito. In genere nell’iconostasi ci sono tre porte. Sopra la porta centrale, chiamata porta santa o Speciosa, attraverso la quale può passare solo il Celebrante, è raffigurata l’icona dell’ultima Cena, in mezzo ai dodici Apostoli. All’entrata della porta settentrionale (detta anche tempio di Dio o Paradiso), che si trova in basso a sinistra, ai lati della porta laterale, sono raffigurati  la Vergine Maria e il protettore della Chiesa. All’entrata della porta meridionale o diaconale, perché vi passa solo il Diacono, ai lati della porta laterale destra, sono raffigurati il Redentore e S. Giovanni Battista.

Le icone, come dicevamo, sono collocate prevalentemente nell’iconostasi. Ma cosa è materialmente una icona? Il termine deriva dal greco bizantino "εἰκόνα" (éikóna), cioè  ”immagine”. Essa è una pittura su tavola o su altro materiale, raffigurante l’immagine del Signore Gesù Cristo, della Madre di Dio o dei Santi.


La leggenda vuole che la prima icona della storia, rappresenti il Volto santo di Gesù, impresso su un velo detto Mandylion. Esso viene qualificato come acheropita, cioè non fatto da mano d’uomo ma impresso miracolosamente. Questa effigie era conservata ad Edessa, in Siria (oggi Urfa, in Turchia). Per difenderla da una incursione di infedeli, era stata murata e coperta da un grande mattone. Quando la si tolse dal nascondiglio, si trovò che i segni del volto di Gesù si erano riprodotti anche sul mattone. L’icona, insieme con il mattone,  fu trasportata a Costantinopoli. Il fazzoletto, sul quale Gesù aveva impresso l’immagine del suo volto, fu mandato dal Nazzareno al re di Edessa, Abgar, gravemente malato di lebbra, che venne guarito dalla reliquia. 

Anche della Madonna fu tramandata l'immagine originale che, secondo la tradizione, venne dipinta da San Luca Evangelista, il quale la rappresentò in tre aspetti diversi: Madonna Orante (senza Bambino); Madonna Hodighitria (con Bambino, Colei che indica la retta via); Madonna Eleusa (con Bambino)". Quest’ultima, detta anche Madonna della Tenerezza si caratterizza per via del suo sguardo compassionevole, già consapevole del futuro di Passione del Salvatore. Sono legate a quest’icona le varianti della Madonna del Bacio (detta Glykophilousa), nella quale si enfatizza l’intimità della figurazione, dando forza allo scambio d’affetto tra Madre e Figlio e la Madonna del Gioco (detta Pelagotinissa), dove è l’umanità del Bambino a rivelarsi in un vivace slancio di vitalità verso la Madre.



Madonna della Tenerezza
 (Vladimirskaja)
dell'iconografa
Veronica Cavallo
Ma perché abbiamo parlato di “teologia”, anzi di teologia della tenerezza, e non semplicemente di arte sacra? Può aiutarci a trovare una risposta questa icona, l’icona della Madonna della Tenerezza, protettrice della Russia (per questo detta anche di Vladimir), ma presente anche a Roma nelle chiese bizantine di S. Attanasio dei Greci e di San Francesco a Ripa (non accessibile), a patto che abbandoniamo le nostre categorie estetiche e ci lasciamo andare al nostro sentire di credenti, perché di fronte ad una icona, non siamo semplicemente in presenza di un oggetto devozionale o di una rappresentazione pittorica, con intenti figurativi ed artistici, ma di fronte al mistero. Non di sola arte sacra si può parlare, ma di teologia (indagine su Dio), perché l’icona è essenzialmente una teofania, ossia una rivelazione di Dio e del suo mistero apofatico o catafatico, ossia inspiegabile o rivelato; una Preghiera che santifica l'anima del credente con il mezzo materiale della vista, così come la melurgia bizantina santifica attraverso l'udito. 


(Simeron kremate epì xilu o en idhasi tin ghin kremàsas. Inno al Crocifisso della tradizione bizantina. Qui è proposto secondo la tradizione musicale di Piana degli Albanesi. Si usa cantarlo la sera del Grande Giovedì alla fine del Mattutino della Passione, a luci spente. Canta Papas Jani Pecoraro.)



I teologi definiscono l’icona una finestra sul mistero e sull’invisibile, capace di far entrare il credente, grazie alla contemplazione, dentro la dimensione dello spirito e di condurlo alla martyreia e alla mymesis, cioè alla testimonianza della fede e all’imitazione del modello originario. Pertanto è inesatto dire “dipingere una icona”: l’icona viene “scritta” perché è la parola di Dio scritta con l’immagine, mediante un linguaggio codificato da secoli. L’iconografo, infatti, si prepara alla sua opera mediante il digiuno e recitando questa preghiera: «Tu, divino Signore di tutto ciò che esiste, illumina e dirigi l'anima mia, il cuore e lo spirito del tuo servo, guida le sue mani, affinché possa rappresentare degnamente e perfettamente la tua immagine, quella della tua santa Madre e di tutti i santi, per la gloria e il decoro della tua santa Chiesa. Amen».


“Leggendo” la Madonna della Tenerezza, vediamo che Maria tiene il Bambino sul braccio destro e lo stringe contro di sé. La Madre inclinando la testa tocca con la sua guancia quella del Figlio, che risponde appoggiando la sua mano su di lei. Lo sguardo del Bambino è tutto incentrato su quello della Madre ed esprime la compassione per coloro che soffrono. L’ombra sulla guancia, in cui si uniscono i due volti, traduce in immagine la promessa dell’Angelo: teneramente il Figlio accoglie sotto la sua ombra la Madre, proteggendola con amore infinito. Il Bambino Gesù si dispone dolcemente a custodire l’umanità della Vergine. L’ombra evoca l’ineludibile limite della conoscenza che l’uomo può avere di Dio.  Lo splendore nasconde un’ombra: il timore di Dio, il dubbio, il tentativo umano di sfuggire alla sofferenza, il desiderio di sottrarsi alla chiamata di Dio, le domande al Dio nascosto.

Ma chi è che veramente compie l’abbraccio? Un credente sa che chi veramente abbraccia è Dio.  E’ Lui che sta compiendo l’azione, che avvolge ed abbraccia Maria, l'umanità, la terra, attraverso il Figlio, che con quella manina sinistra sproporzionata, volutamente troppo lunga, avvolge tutta sua Madre, stringendola a se. La Madre si lascia abbracciare e, reclinando il capo sul Bambino, si abbandona a questo suo Amore, lo accoglie con delicatezza, come qualcosa di preziosissimo, che però non gli appartiene. La laconicità e l'espressività del volto della Madre, fanno di questa icona una preghiera-pianto, una preghiera di consolazione e di cura a cui la Madonna risponde con tenerezza.

Da questa “lettura” della Madonna della Tenerezza si evincono le caratteristiche fondamentali di tutte le icone:

•    L’assenza della luce naturale: la tecnica della luce nell’icona è la cosiddetta “luce propria“. La luce emana dal fondo d’oro. I colori, specie quelli delle vesti, sono ravvivati con riflessi di luce. Però i riflessi non sono posti come se venissero da una sorgente luminosa, ma nei punti più vicini allo spettatore. 
L’icona non vuole dare l’illusione della realtà generata dall’opposizione luce-ombra. Non vi è una sorgente di luce, l’immagine e la luce non sono separate e la luce irradia direttamente verso lo spettatore. Sulle icone non c’è mai una sorgente di luce, perché la luce è il loro soggetto: non si illumina il sole. Il fondo e tutte le linee, le sottolineature d’oro vogliono proprio significare una luce sovrannaturale.

Nell’iconografia trova espressione l’insegnamento ortodosso dell’esicasmo: Dio è solo trascendenza e non si può conoscere nella sua essenza. Però Egli si manifesta con la sua grazia attraverso un’energia divina, che effonde nel mondo sotto forma di luce.

•    La prospettiva è rovesciata: le linee si dirigono in senso inverso rispetto a chi guarda, cioè non verso un punto di fuga dietro il quadro, ma verso un punto esterno.  L’impressione è che i personaggi vadano incontro allo spettatore e che l’icona si muova verso di lui. La tridimensionalità non esiste, pertanto non vi è profondità all’interno della rappresentazione; lo spazio è ridottissimo e si estende verso lo spettatore. 

•    La prospettiva d’importanza: le proporzioni delle figure, la posizione degli oggetti, la loro grandezza non sono naturali, ma relativi al valore delle persone o delle cose. Pesi e volumi non esistono, come non esiste il chiaroscuro naturalistico o il realismo ottico. Quello che conta è il simbolismo delle rappresentazioni, le combinazioni geometriche e il significato dei colori e dell’oro. Il corpo, sempre slanciato, sottile, con testa e piedi minuscoli, è disegnato a tratti leggeri. Tutto comunque è dominato dal volto, perché è da qui che il pittore prende le mosse. Per indicare ascesi, purezza, interiorità, gli occhi sono molto grandi, fissi, a volte malinconici, sotto una fronte larga e alta; il naso è allungato; le labbra sono sottili; il mento è sfuggente; il collo è gonfio.. Altro aspetto frequente che si trova nelle icone è la simmetria, che indica un centro ideale al quale tutto converge.

Insieme alla melurgia, cioè ai bellissimi canti liturgici bizantini, l’iconografia rappresenta la matrice culturale, artistica, emotiva e spirituale degli Arbëreshë, arrivati in Italia cinque secoli fa, in seguito alla prima diaspora dall’Albania. Le bellissime chiese delle Eparchie di Lungro e Piana degli Albanesi, custodiscono questo preziosissimo scrigno di saperi materiali ed immateriali, resistendo ai tentativi di omologazione forzata attuati dalla Chiesa Latina, come tante volte è avvenuto in passato, ad esempio con l’imposizione delle statue (vedi  arbitalia ).

Bibliografia essenziale:
Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza, l'arte dell'icona, San Paolo, Torino, 1990 
AA. VV., Le Icone, Milano, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 2000. 
Gaetano Passarelli, Perché venerare le icone, Libreriauniversitaria.it, 2011






mercoledì 9 maggio 2012

La Carrese di Ururi. Polisemia e rappresentazione identitaria

di Anna Maria Ragno

                                         

LA CARRESE di URURI. 3 Maggio 2012

I carri si sono recati davanti al Municipio dove, nel silenzio più assoluto, il prete ha  impartito la benedizione prima in italiano e poi in arbërisht a buoi, carrieri e cavalieri. In seguito i carri, seguiti dai sostenitori, si sono avviati alla partenza, dove si sono disposti ad una distanza di 20-25 metri l'uno dall'altro, secondo l'arrivo dell'anno passato. La corsa è iniziata alla masseria Pantoni, a 4 km dal paese, ed è termina nella piazza principale. 
Oggi è il 3 maggio, il giorno della Carrese di Ururi, l’epilogo finale di un anno di preparativi, speranze, paure, attese, che mette in campo credenze magiche ancestrali e religiosità, autentica devozione e folklore. E’il giorno che tutti hanno atteso con una emozione mista a commozione e spirito epico difficile da raccontare, difficile da capire per chi non è un Arbëresh, anzi un Arbëresh del Molise, perché la Carrese è un fenomeno che interessa i comuni arbëreshë di Portocannone (provincia di Cb), Ururi (provincia di Cb) e Chieuti (oggi in provincia di Foggia, ma in passato facente parte del contado del Molise). A corsa finita qualcuno piange per la felicità, qualcun altro ride per il nervosismo. I carri si sono sfidati e c’è  chi ha perso, ma è come se non ci fossero né vinti né vincitori: alla fine vince sempre e solo la Carrese. Tutti stanno già pensando a quella dell’anno prossimo.
Ururi: il  SS. Legno della Croce
Il carro giunto per primo in paese ha seguito obbligatoriamente il percorso di via del Piano e via Tanassi, di 19 metri più lungo rispetto al percorso che, invece, ha seguito il carro dei Fedayn. Ha vinto il carro dei Giovani, seguito dai Giovanotti, arrivati da via Commerciale, il vicolo che conduce alla piazza. Domani il carro vincitore avrà l'onore di trasportare il SS. Legno della Croce  per le vie del paese. Ci accompagnano Luisa Iannacci, assessore alla Cultura del Cumune, ed Emanuela Frate, l’amica giornalista. Quella a cui abbiamo assistito io e Rossella De Rosa è stata una una battaglia che poi è esplosa in gioia, condivisione, commozione,  catarsi collettiva di un popolo ridiventato contadino, che celebra il ricordo  delle nobili origini di tutti gli Arbëreshë, valorosi guerrieri arrivati in Italia al seguito dell’eroe Giorgio Castriota Skanderbeg.  Alla fine ,caduta la tensione, i conflitti all’interno dei gruppi si sono pacificati. Si applaude anche ai Giovanotti, arrivati secondi e ai Fedayn, arrivati terzi, felici del fatto che il cronometro si è fermato a poco più di cinque minuti. Fra qualche giorno ci sarà un banchetto in onore dei vincitori; il giorno seguente verranno festeggiati i Giovanotti, arrivati secondi; poi i Fedayn. 
Ururi, la Carrese.
Più che una festa è una gara che contrappone il sacro al profano, l’anno vecchio all’anno nuovo, il tempo della festa al tempo dedicato al lavoro, i Giovani ai Giovanotti, i soldati ai contadini, una gjitonia all’altra. Anticamente tutti i paesi arbëreshë erano formati da gjitonie, le corti di vicinato. La signora Lina dice che la gjitonia era più del sangue: quando una donna andava in sposa il testimone era un elemento maschio della propria gjitonia. La scelta preferenziale del coniuge avveniva sempre all’interno del proprio villaggio (endogamia di villaggio) e di un’altra gjitonia. Quando questo non era possibile, la scelta preferenziale cadeva sul coniuge del paese arbëresh più vicino (endogamia etnica). La scelta preferenziale di terzo livello prevedeva che fosse almeno meridionale. La regola della scelta preferenziale è valsa anche per la signora Lina,  che è di Portocannone ma ha sposato un ururese, andando a vivere nel paese del marito: all’endogamia è sempre connessa anche la norma della residenza virilocale.
Quella fra gjitonie è solo una delle contrapposizioni che entrano in gioco. La vera contrapposizione è quella che mette a confronto la cultura maggioritaria dei Latinì (Italiani) e la cultura minoritaria Arbëreshe; l’Arbëria (formata da tutti gli Arbëreshë d’Italia) e gli Arbëreshë del Molise; gli Arbëreshë molisani e i cosiddetti “Zampettari” (come vengono scherzosamente definiti i Molisani); la Pagliara maje maje dei Croati e la Carrese; la Carrese dei tre paesi arbëreshë e la Carrese di San Martino in Pensilis e Larino, i paesi non arbëreshë a pochi chilometri da Ururi. 
La Carrese di Montecilfone. Foto Archivio Kamastra
http://www.youtube.com/watch?v=KjEa1vduBwI




Un discorso a parte merita la contrapposizione fra la Carrese dei paesi arbëreshë e la Sfilata dei buoi di Montecilfone, il quarto paese arbëresh del Molise. Fernanda Pugliese, in un articolo della  prestigiosa rivista bilingue che dirige (Kamastra, anno 2, numero 3, maggio-giugno 1998) parla dell’altro volto della Carrese. In realtà è proprio la sopravvivenza di questa manifestazione che colloca l’origine della Carrese nel ciclo dei riti primaverili a carattere magico-sacrificale e propiziatorio, che si celebrano in varie località dell’Europa ( il Palo di maggio tedesco, o il Jack in the green inglese) e nel nostro Meridione. La Sfilata dei buoi di Montecilfone mantiene il carattere originale di quei riti di  incremento diffusi nella regione molisana, poi assurti a strumenti di affermazione identitaria nella minoranza croata ed italo-albanese.  
http://sagre.zero.eu/2012/05/la-pagliara-maje-maje-2/calia
La Pagliara di Fossalto è un esempio di questo rimodellamento delle tradizioni molisane, rivissute da parte della minoranza croata secondo i propri miti e le proprie tradizioni, in quanto è stata per così dire cambiata di “segno” e trasformata nella Pagliara maje maje, il pupazzo antropomorfo di Acquaviva Collecroce, paese della minoranza croato-molisana. Così come la Carrese era già in uso nella chiesa di Larino prima dell’arrivo dei coloni albanesi, la Pagliara era già in uso a Fossalto prima dell’arrivo dei coloni slavi, con la variante della croce che la sormontava. Questi riti di incremento che servivano a propiziarsi l’inizio del nuovo ciclo produttivo, la fecondazione arborea  e la benevolenza della dea Maja, la madre terra, sono poi assurti a strumenti di affermazione ed identificazione identitaria, diventando il  simbolo totemico attorno a cui ricostruire la propria storia comune e inventare la propria diversità rispetto agli altri. 
Larino. San Pardo. Foto di Guerino Trivisonno
La Carrese, in questo senso, rappresenta la rielaborazione adattiva dei valori culturali degli Arbëreshë,  rispetto all’assimilazione dei valori culturali esterni e dei modelli dominanti. Attraverso la Carrese, quindi, gli Ururesi non solo affermano la propria identità in maniera contrastativa rispetto all’esterno, ma enfatizzano e creano i propri elementi distintivi perché essi possano distinguersi come gruppo etnico italo-albanese rispetto ai Latinì, ai Molisani, ai Croati e agli stessi Arbëreshë di Basilicata o Calabria.
Anche la Carrese che si tiene a Larino, dedicata a San Pardo, è da ricollegarsi a quei riti di incremento, atti a propiziare la fecondazione arborea e il risveglio della natura. Anche qui ritorna l’offerta di beni alimentari e il simbolismo arboreo, rappresentato a Monteclfone dai grossi rami di  lauro con cui vengono adornati i carri. A Larino, invece, i carri vengono adornati da un grosso ramo di ulivo, a cui si appendono prodotti caseari.  Festa San Pardo
Anche qui ritorna il simbolismo del bue, che rappresenta il duro lavoro nei campi e la capacità dell’uomo di “aggiogare” e addomesticare le forze della natura. Anche qui ritorna il simbolismo del carro, che rappresenta la divisione fra i vari gruppi sociali e familiari. Il carro è stato sempre il simbolo di quelle culture che hanno patito la diaspora e l’immigrazione: anche la  bandiera dei Rom, ad esempio, rappresenta la ruota di un carro.
La Pagliara, insomma,  non è slava, così la Carrese non è albanese, ma questi riti propiziatori, legati ai riti pagani della Madre Terra e ancora in uso nella diocesi di Larino, sono diventati via via riti religiosi e nel contempo strumenti di affermazione e rivendicazione identitaria per le due minoranze molisane. Questo spiega quanto abbiano attinto dai modelli molisani i due gruppi minoritari e perché la Carrese  è un fenomeno “solo” molisano, che non interessa le altre comunità arbëreshë (ad esempio della Sicilia).
Foto di Guerino Trivisonno
Pur conservando molti tratti comuni, le Carresi si distinguono l’una dall’altra per il numero dei carri partecipanti, che possono essere due o tre; fino a diversi anni fa, i buoi aggiogati a ciascun carro erano quattro, poi sono diventati due. Ai vincitori  della Carrese di Chieuti viene  consegnata una treccia di caciocavallo di circa 80 chili con le gesta di S. Giorgio, che verrà portata in processione insieme alla statua del Santo. Ogni anno una famiglia, a turno, prepara questo grande Tarallo che dopo la processione verrà distribuito fra tutte le famiglie del paese. A San Martino in Pensilis, dove la corsa si svolge su un percorso di 9 km, a metà c’è uno spettacolare pit stop per il cambio dei buoi. 
Gli elementi che rimangono comuni, invece, sono rappresentati dal fatto che il carro vincitore avrà l’onore di portare la statua del Santo in processione: per Portocannone è la Madonna di Costantinopoli; per Chieuti San Giorgio Martire;  e per San Martino in Pensilis il busto di San Leo, per Ururi le reliquie della Santa Croce. Inoltre tutte le Carresi si svolgono fra fine aprile e gli inizi di maggio, tranne quella di Portocannone che è mobile in quanto legata al giorno della Pentecoste, a conferma del fatto che la loro rappresentazione è fedele a uno schema che si ritrova nei riti di incremento, cioè in quelle cerimonie religiose atte ad assicurare o a promuovere la riproduzione delle specie animali o la crescita dei raccolti.
In termini più generali, la Carrese è uno degli strumenti messi in atto per affermare la propria alterità etnica, attraverso la condivisione di quei valori e di quei simboli che creano un comune sentire e al contempo la mediazione fra le diversità, secondo il doppio codice di relazione ed opposizione noi/loro. La Carrese, attraverso la tradizione, inventa le differenze ed alimenta il gioco della doppia identità (albanese ed italiana, arbëreshe e molisana); alimenta il culto della provenienza e delle origini comuni; ricostruisce la propria storia e con essa un rapporto mitologicamente appagante con il passato; ma soprattutto riattualizza il proprio passato di soldati divenuti contadini.
Ururi, 3 Maggio 2012
Per i Giovani la Carrese è un vero e proprio rito di iniziazione, un passaggio obbligato, in cui i giovani devono dare prova di fierezza, coraggio e destrezza, al fine di mostrare la loro accettabilità nel gruppo. Per i Giovanotti un rito di inversione, in cui per i “vecchietti” è possibile “tornare giovanotti”, confermando la superiorità dell’esperienza sull’inesperienza, della tenacia sull’ incostanza, del duro lavoro sull’improvvisazione.
Insieme alla Pagliara dei Croati del Molise, la Carrese rientra nei riti pagani celebrati in primavera (come la festa dei Serpari di San Domenico a Cocullo, il Matrimonio degli alberi ad Accettura, ecc.) per assicurare ed incrementare il raccolto o la riproduzione delle specie animali, in un momento stagionale critico, in cui le forze vitali si risvegliano, un po' fra l’essere e il non essere, per cui è necessario incoraggiarle magicamente con canti, suoni e laudate, come quella di San Martino in Pensilis ed Ururi. Come diceva Alfonso Di Nola (Gli aspetti magico-rituali di una cultura subalterna italiana, Bollati Boringhieri): “La festa è solidale delle specifiche fasi del ciclo produttivo, dei momenti, cioè, di disimpegno della rotazione coltivatoria, o anche, in una coincidenza ricca di conflittualità, dei momenti di maggior tensione e attesa (periodi dell’inizio delle semine, della prima germogliatura, dell’imminenza delle messi, ecc.).
Ururi, l'arrivo dei tre carri.
La festa della Carrese, quindi,  rappresenta un momento essenziale nell’esistenza, in quanto innesta un dinamismo culturale che rivitalizza i significati sottesi a certi gesti religiosi; consolida le radici storiche e religiose che alimentano l’identità; favorisce l’aggregazione sociale e la soluzione dei conflitti all’interno del gruppo; risolve la precarietà esistenziale mediante la valorizzazione del ludico, del gratuito e  dell’edonistico; scandisce  il trascorrere del “tempo sociale”, entro cui si collocano le fasi  della vita individuale, le attività economiche, il trascorrere delle stagioni. Come tale, il termine “festa” è riduttivo: le Carresi devono essere intese come “fatti demologici”, che tengono conto del carattere storico di usi e costumi che valorizzano il carattere spirituale della cultura trasmessa oralmente, espressione della diversità culturale di un popolo e della creatività umana. In questo senso le proteste degli animalisti dovrebbero tenere in maggior conto la nozione di bene culturale immateriale.
La Carrese di Ururi rappresenta un esempio di polisemia identitaria; gli Arbëreshë mantengono sempre la capacità di fare propri gli elementi attinti dall’incontro/scontro con le altre culture, maggioritarie o minoritarie che siano, e di cambiare segno o attribuire più significati allo stesso segno o fattore  identitario. L’identità degli Arbëreshë, infatti, è stata creata attraverso sei elementi, una sorta di cubo di Rubik dell’identità, di cui ogni volta si deve comporre il lato spostando le tessere e gli elementi che lo costruiscono: l’Arbërisht, l’Endogamia (etnica e di villaggio), il Rito greco bizantino (presente solo nelle due Eparchie  di Lungro e Piana degli Albanesi), il Costume (anzi i Costumi, visto che elementi come il Brezi esistono solo nel Costume di Piana degli Albanesi), la Carrese (anzi le Carresi), e la Musica (anzi le Musiche).





mercoledì 25 aprile 2012

Rozafat, tra storia e leggenda



a cura di Fernanda Pugliese
coordinamento: Rosella Schiavone
illustrazioni: Antonella Pelilli





Ishi një herë, 
një herë ka dheu i Arbërit një vajzë shumë e bukur çë a thrisjën Rozafat. Loj ka trou me shokëtë e me nusetë copje e vej ka skolla; gjthë a dishjën mirë pse ishi zëmërë njomë. 
Si shkoj moti rritshi e bukurohshi.


 




                        












Ka hora  rrojën tre vullazëre punëmbarë, i sprazmi, Kostandini, ishi një trim forti e shu, i miri.





Një ditë vej e shurbej kur fërndojti Rozafaten 
çë mbushi uj[t ka pusi.
Syt e tirve u kumbërdun e zëmëra i bëri tup.










Ajo kapile çë pash sod, me atë faqe e bardhë e kuqë si shëmri, u do të e vur kurorë!" - tha Kostandini kur vajti ka shtëpija. Ashtu klijeti.

                   
                                                               Shkovi ca mot. Iu lehë një bukur djal. 




Kostandini me të vullazëret shurbej ka trojet të Valdanuzit prës Shkodrës pë të ngrijën muret ka rrethi kështilljes. 
Shurbejën e shurbejën ma ato mure çë ngrijën ditën bijën natën gur gur. 
Ato të mirtë ngë dijën si kisht bëjën.








  Një ditë shkovi ka to udhre një plak: "Mirë pune!" -  i tha. 
"Haristismi zotrën jote" - u përgjegjën a to  - "Por kimi zëmërn tiqe tiqe pse atë çë bëmi ditën natën bëhet plëh!" 
"U'e di. A gjëgjëni kët varè a fëthota çë frin kana malvet. Isht Zana a vrërtura. Do një ka gra ka të jujët". 
"Cilën?  -  pjësën ato.
 "A para çë nesër ju bije bukë - u përgjegjë plaku - por mbani besë: mos ja thoni mosnjarive!"


Ditën pas, kur aruri miesdita, Rozafatia, ma harè, j kjiejiti bukë.



Kostandini, kur a pa, i ranë krahët e zëmra i kumboi fort fort.
"Çë ke Kostandin çë tu sbardh faqja?  Pse më run ma syt plot ma lot?" e pijti ajo.
"Gruja ime, Zana do një gjellë brënda murvet e kështilljes e kyo gjellë isht ajo jotja - i tha Kostandini ma një fillë vuxë". "Kostandi, ndë Zana dishi ashtu, ashtu ka të jetë" - tha Rozafatia.




Vetëm një fat disha, kur më mbuini brënda murit ka të më lëni një gavërë; një gavëre ka këmba dreqët, një gavëre ka dora dreqët, një gavërë ka sisa dreqët, një gavërë ka syu e buya, pse ka të tund, ka runjë, ka ti jap t'pi sisë dialit im, pse ka të ritet e bëhet bur." Ashtu u bëh.












Djali u rrit, u bëh trim, burrë me besë gjah jati. Kështillja u ngre... muret janë edhe sot. Ku u muros, del një kroi me ujë. Janë lotët e Rozafatës.


















 ROZAFAT
C'era una volta, nella terra d'Albania una bambina molto graziosa chiamata Rozafat. 
Giocava all'aperto con le compagne e con le bambole di pezza ma studiava anche e andava volentieri a scuola: in paese tutti le volevano bene perché aveva un cuore generoso.
Con il passare del tempo ella, crescendo, diventava sempre più brava e più bella.
Nel paese vivevano tre fratelli laboriosi, l'ultimo dei quali, Costantino, era un giovane vigoroso e molto buono.
Un giorno, mentre andava a lavorare, incontrò Rozafat che attingeva l'acqua da un pozzo. I loro sguardi si incrociarono ed i loro cuori cominciarono a battere forte.
"Quella ragazza che ho visto oggi, con quel viso bianco e roseo e bella come una Madonna, voglio che sia mia sposa" - disse Costantino quando ritornò a casa.
E così fu.
Passò del tempo e venne alla luce un bel bambino.
Costantino con i fratelli lavorava nella pianura di Valdanuzit, vicino Shkodres, per innalzare le mura del castello.
Lavoravano e lavoravano, ma quelle mura che innalzavano di giorno, si sgretolavano durante la notte.
I poveri fratelli non sapevano come fare, il loro impegno e la loro fatica erano inutili.
Un giorno passò di lì un vecchio... "Buon lavoro!" disse loro. 
"Ti ringraziamo, signore - risposero quelli - però abbiamo il cuore a pezzi perché ciò che costruiamo di giorno, la notte inspiegabilmente diventa polvere!" 
"Io so perché questo accade - disse il vecchio viandante.- Lo sentite questo vento forte e freddo che soffia dalle montagne? E' il fiato di Zana, la dea dei monti. Essa è molto inquieta e cattiva, vuole in sacrificio una delle vostre donne, solo così smetterà di soffiare, l'incantesimo sarà spezzato e potranno essere costruite le mura del castello".
"Ma perché vuole questo sacrificio, cosa le abbiamo fatto di male?" - chiesero sconvolti i tre fratelli.
"L'avete offesa tagliando gli alberi sui monti per riscaldarvi in inverno".
"E quale donna dovremo sacrificare?" - chiesero.
"La prima che domani vi porterà da mangiare ma, mi raccomando, non fatene parola con nessuno!"
Il giorno dopo, a mezzogiorno, per prima Rozafat portò da mangiare all'amato sposo.
Costantino, quando la vide comparire, fu trafitto dal dolore, il cuore cominciò a battergli forte nel petto e iniziò a piangere.
"Cos'hai Costantino, perché il tuo volto è così pallido? Perché mi guardi con gli occhi pieni di lacrime?" - ella gli domandò.
Rozafat
!Amata mia, Zana, la dea dei monti, vuole un sacrificio umano dentro le mura del castello, e quella vita deve essere la tua" - disse Costantino con un filo di voce.
"Uomo mio, se la dea vuole così, così sia - disse Rozafat piangendo, ma il nostro piccino ha pochi mesi e deve essere allattato.
Ti prego, quando mi chiuderete dentro le mura, lasciate delle piccole aperture nella parete: una per la mano destra, una per il mio petto, una per l'occhio e le labbra, perché devo poter cullare, baciare, guardare e continuare ad allattare il mio bambino".
Così fu fatto.
Il castello fu innalzato... 
Le sue mura imponenti resistono ancora oggi.
Shkodres, Castello di Rozafa
Il bambino crebbe, diventò giovane e bravo, uomo d'onore come suo padre, generoso come sua madre.
Nel luogo dove la giovane fu murata, sgorga oggi una sorgente d'acqua pura... Sono le lacrime di Rozafat.














a cura di Fernanda Pugliese
coordinamento: Rosella Schiavone
Illustrazioni: Antonella Pelilli
Traduzione, Trascrizione e Adattamento:
Campofredano Pinuccia, Ciccarelli Ada, Cingolani Ornella, Crippa Anna, 
De Gregorio Francesca, Di Lena Elvira, Fiore Liliana, Frate Serena, Glave Lia, 
Ionata Orlando, Massaro Antonella, Pelilli Antonella, Rapuano Ottavio, 
Senese Maria Teresa, Staniscia Silvana.

domenica 15 aprile 2012

Il costume tradizionale arbëresh: l'abito dell'identità

di Anna Maria Ragno  
                                                                                                                 
Per la policromia e la preziosità dei tessuti, testimoniata dall'utilizzo dei ricchi ricami in oro e argento, il costume tradizionale è uno dei segni più evidenti della diversità e della creatività culturale arbëreshe. Le funzioni a cui assolve sono molteplici: pratica, estetica, magica, rituale, ecc. Inoltre esso serve ad indicare il ceto, il sesso, l'età, la classe, il lavoro, il lutto, l'appartenenza ad una confessione religiosa o se una persona è nubile o sposata. In uso fino agli inizi degli anni ’70, accompagnava la donna italo-albanese nei momenti più significativi della propria vita. Il vestito della festa, infatti, oltre ad essere indossato per le nozze, per le feste religiose come le “Vallje”, la Domenica di Pasqua o il giorno di Natale, e per i  lutti familiari (per i primi tre giorni dal triste evento), spesso veniva utilizzato anche per dare sepoltura alla donna.
Foto di Giuseppe Iazzolino
Se l’abito tradizionale femminile si è ben conservato, non si può dire altrettanto per l’abito maschile, caduto subito in disuso, o forse mai esistito in forma stereotipata. Le ragioni della perdita della sua specificità o della sua assimilazione ai costumi regionali o albanesi veri e propri, risiedono nel fatto che la trasmissione dei valori come la Besa, dei saperi come la lingua, e delle tradizioni arbëreshe come i costumi, è sempre stata affidata alle figure femminili. L’arberisht, infatti, è la lingua materna degli Abëreshë : sono le donne che trasmettono la lingua, insieme alla religione. Come in molte società tradizionali, anche in quella arbëreshe è compito della donna trasmettere la lingua e la religione (per gli Ebrei è ebreo chi nasce da madre ebrea), i costumi morali e religiosi, le tradizioni e il costume.

Foto di Mario Bellizzi
Quali sono, dunque, i significati simbolici del costume tradizionale? Il costume muliebre rappresenta il modo in cui la cultura arbëreshe socializza la sua memoria storica e il suo passato, l’origine albanese e la fedeltà ai valori tradizionali. E’ l’antidoto alla disgregazione e alla dispersione geografica degli
Arbëreshë  e una maniera per riaffermare la condivisione di una storia e di una origine comune. E’ il tratto distintivo d’appartenenza ad un doppio universo culturale: quello albanese delle origini  e quello italiano.


L’abito  della identità.
Il costume tradizionale è una forma di comunicazione non verbale operata grazie ad una serie di segni e di regole di combinazione; un linguaggio caratterizzato da una sua peculiare sintassi che possiamo scomporre ed analizzare per identificare la struttura di una data società.
Keza. Foto di Mario Bellizzi
Ad esempio la Keza  (nella foto di Mario Bellizzi è possibile ammirare quella di Civita), che raccoglie i capelli della sposa, è simbolo del nuovo status sociale che la donna, sposandosi, viene ad assumere e della responsabilità che ne deriva. In genere è in seta, a forma di conchiglia, intarsiata da elaborati ricami con fili in oro o in argento.
Gli splendidi colori dello Xhipuni, invece, sono legati a quelli essenziali e fondamentali, utilizzati dalla iconografia bizantina: sono il blu o l’azzurro, il rosso o il viola e giallo oro.


Xhipuni. Foto di Mario Bellizzi






E' il corpetto corto e aderente in llambadhor di seta, il tessuto caratterizzato dall'inserimento nella trama di fitti e sottili fili d'oro. Nella foto di Mario Bellizzi è di colore azzurro con le maniche ricamate in oro e gallonate ai polsi; tre strisce di gallone più stretto decorano il corpetto sulla schiena. Le maniche hanno finissimi ricami dorati che richiamano motivi floreali o astrali.


Brezi di Palazzo Adriano raffigurante San Nicola. Foto di Paolo Di Giorgio
Il Brezi è la cintura d’argento che adorna il costume delle      donne di Piana degli Albanesi. Nello scambio rituale di doni durante il fidanzamento, alcuni giorni prima delle nozze, in occasione dell’esposizione della dote o di solenni festività, esso viene donato alla futura sposa per augurarne la fecondità. Nella lingua arbëreshe, infatti, la parola brez significa "generazione", "stirpe", "discendenza", "progenie" a conferma del fatto che la cintura viene assunta a simbolo della maternità. Secondo la tradizione il Brezi raffigura i santi protettori di Piana (S. Giorgio, S. Demetrio, la Vergine Odigitria e San Nicola) a cui la coppia si affida, affinché sia loro assicurata la fertilità e quindi la continuità delle generazioni.

In tutte le comunità arbëreshe il costume tradizionale rappresenta la volontà di affermare e rendere visibili l’identità collettiva e il senso di intima appartenenza dell’individuo alla sua collettività. Il costume, in questo senso, può essere definito come un indicatore dell’identità, che diventa abito e come tale “indossato” e sfoggiato per riaffermare la storia e l’origine comune, i valori e i saperi condivisi, l’appartenenza allo stesso universo culturale. Indossare il costume tradizionale è una maniera per riattualizzare il proprio passato mitico: il tempo di Skanderbeg, il tempo in cui gli esuli albanesi si sono cuciti addosso l’identità Arbëreshe.
Vallje di Civita. Foto di Giuseppe Iazzolino

sabato 14 aprile 2012

La Repubblica albanese compie 100 anni

di EMANUELA FRATE
(da Babelmed)

Ismail Qemali
L’Albania compie un secolo. Era il 28 novembre del 1912 quando Ismail Qemali proclamò l’indipendenza del Paese delle due Aquile dopo cinque secoli di dominio ottomano. Da un punto di vista storico cento anni non sono tanti ma per l’Albania questi cento anni sono trascorsi in fretta, in un susseguirsi di dominazioni, da un regime all’altro. Dopo essersi affrancato dall’impero ottomano, il piccolo paese sud balcanico vide l’annessione al regime fascista e poi a quello nazionalsocialista. Al termine della seconda guerra mondiale, l’Albania passò al regime comunista di Enver Hoxha, il più duro di tutti i regimi comunisti dell’Europa dell’est. Dal 1992, la storia è ben nota, le scene dei barconi carichi di disperati e l’esodo di massa a più riprese nelle coste pugliesi.
Oggi gli albanesi festeggiano il loro primo centenario- “Dita e Pavarësise” (giorno dell’Indipendenza)- con quella consapevolezza che il proprio suolo è stato violato per secoli diventando il teatro di molteplici sconvolgimenti politici che hanno portato il Paese in uno stato di arretratezza e chiusura di cui si sta faticosamente affrancando da un ventennio a questa parte. Le istituzioni nazionali, Sali Berisha in testa, offrono un’immagine di un’Albania desiderosa di lasciarsi il passato alle spalle e festeggiare, per tutto il 2012, questo anniversario dell’indipendenza guardando al futuro, all’Europa, al primo partner commerciale che è l’Italia dirimpettaia e agli arbereshe che sono il più naturale riferimento storico-culturale.
Nei discorsi degli ambasciatori intervenuti nel corso dei meeting e dei convegni organizzati anche in Italia dalle varie associazioni per celebrare il centenario sono stati spesso evidenziati i mirabili passi in avanti realizzati dalle istituzioni albanesi in vista della prossima adesione all’Unione Europea, viene sottolineato il progressivo miglioramento delle condizioni di vita degli albanesi, il forte impulso degli investimenti soprattutto stranieri, la convivenza pacifica fra le diverse confessioni religiose. Gli ultimi vent’anni di repubblica, dal crollo del regime comunista, hanno portato l’Albania a far parte della NATO, anche se l’ambizione più grande è quella di entrare a far parte dell’Unione Europea, ma per la gente normale, per i comuni cittadini, per gli albanesi residenti in Italia e all’estero, a parte la retorica istituzionale delle celebrazioni per il centenario realizzate in pompa magna, quel che regna è un clima di incertezza e, in alcuni casi, perfino di sfiducia.
I giovani albanesi che hanno conosciuto le nefandezze del comunismo solo nei racconti dei genitori, non vedono più di buon occhio neanche il modello capitalista e finanziario che tanti disastri sta provocando nel mondo occidentale. E gli occhi colmi di speranza di quegli albanesi che, nei primi anni novanta, affrontavano la traversata per mare pur di atterrare in Italia vista un po’ come un magico Eldorado (anche grazie alle trasmissioni televisive) sono oggi più spenti, consapevoli che anche il tanto agognato ingresso nell’Unione Europea non porterebbe probabilmente i benefici auspicati. Molti albanesi, infatti, stanno ritornando in patria dalla Grecia martoriata dalle ferree misure d’austerità imposte dall’Europa ed anche in Italia, molti albanesi stanno facendo i conti con lunghi periodi di disoccupazione. L’incertezza, il profondo senso di precarietà, lo scoramento che regna in molti giovani europei domina in misura perfino maggiore anche gli animi degli albanesi tant’è che, lo scorso inverno, sull’onda delle rivolte magrebine che hanno portato alla Primavera araba, anche in Albania si sono verificate delle rivolte, presto soffocate nel sangue, di giovani che reclamavano più diritti e delle riforme vere.

E’ un’Albania in bilico tra passato e presente che accetta suo malgrado la parata del “GayPride” che avrà luogo a Tirana il prossimo 17 maggio in occasione della giornata mondiale contro l’omofobia, pur di dare una parvenza di tolleranza alle istituzioni europee e al mondo intero che quel giorno avrà gli occhi puntati sul piccolo paese balcanico ma che in fondo accarezza ancora quel sogno della “Grande Albania” che comprenda tutti i territori albanesi di Kosovo, Macedonia, Grecia, Turchia, Bulgaria. Un’Albania che - in un groviglio di orgoglio nazionale, irredentismo, nuovo vitalismo religioso, inseguimento della libertà e della modernità - intende riscattarsi, intende mostrare all’Europa e al mondo intero il suo volto migliore. In questo centenario l’Albania ha affrontato e superato diverse dominazioni ma quella più difficile resta la sfida al futuro, un futuro che sembra sempre più incerto.