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venerdì 5 luglio 2013

Futuro: con o senza l’Arbëreshe?

di Anxhela Naka
Articolo pubblicato su "Albania NEWS"  il 4 Luglio 2013

Ci avete mai pensato a cosa fanno i bambini a quattro anni? Beh, a quattro anni si pettinano le bambole, si gioca con le macchinine, si va al parco giochi.Ed è cosi che un bel giorno, a quattro anni, ti dicono che presto partirai, andrai lontano, andrai in Italia.

Tu resti immobile, ferma, pensando a cosa significhi quella parola cosi strana, ‘ITALIA’, e poi inizi a immaginare, a fantasticare luoghi, paesaggi, e pensi che magari siano come li vedi nei cartoni, come il mondo delle fiabe, come le principesse, senza streghe cattive o brutti orchi. Alla fine hai capito che l’Italia sarà un altro mondo, ma chi l’avrebbe mai immaginato che in Italia si parlasse l’Albanese, o meglio l’Arbëreshe ?

Per “Arbëresh” s’intende il dialetto parlato oggi in alcune zone dell’Italia come Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, ecc. derivato dall’Albanese parlato cinquecento anni fa dai nostri antenati albanesi che, in fuga dalla dominazione ottomana, raggiunsero l’Italia e vi si stanziarono, mantenendo lingua e tradizioni del loro paese d’origine, l‘Albania.

URURI (Rùri in Arbëreshe) - provincia di Campobasso (Molise)
Anche qui a Ururi, il mio paese adottivo, si parla l’Arbëreshe. Ricordo che quando arrivai i primi giorni in Italia, non sapevo parlare l’italiano, e trovai molta difficoltà a interagire con i bambini dell’asilo che volevano fare amicizia. Le vicine di casa invece, che erano un po’ più anziane, mi parlavano in una ‘lingua’ che assomigliava alla mia! Potete immaginare la sorpresa di una bambina di 4 anni, in un Paese straniero nel sentir parlare una lingua simile alla propria.                                                                                                                                                                                                             Dovrei sentirmi onorata,  lusingata di sentir parlare ancora di questa lingua, non pensate? Ed è cosi, infatti.
Di solito nei musei si conservano antiche statue, gioielli, mummie, papiri, oggetti di valore, pietre preziose e molto altro. I musei servono a conservare. ‘CONSERVARE’ questo termine ha un significato particolare. Conservare vuol dire proteggere, proteggere da qualsiasi cosa, da qualsiasi fattore, e non per forza meteorologico. Anzi forse un legame con il tempo ce l’ha, sì, ma non con le previsioni. Il tempo. Il tempo passa per tutti, anzi per tutto. Cosi com’è passato per le mummie esposte al museo. Chi di voi non ha mai avuto la curiosità di sapere quanti anni avesse quella mummia? E chi di voi non è rimasto a bocca aperta nel sentire quel numero pronunciato dalla guida?
Bene, se quel tempo così lungo vi ha provocato uno stupore del genere perché non dovrebbe farlo anche il tempo di una lingua? Cinquecento anni. Una lingua parlata in un altro Paese. Sopravvissuta in un altro Paese. Come minimo deve essere stata conservata da cinque generazioni. Cinque generazioni che in questo caso hanno fatto da museo. L’hanno conservata e coltivata ogni giorno, nonostante esistesse una lingua ufficiale, ed è per questo che oggi ne sentiamo ancora parlare. Ma come tutte le cose belle prima o poi finiscono, è successo anche nel nostro caso. L’Arbëreshe sta scomparendo. Ebbene sì. I giovani non la parlano più e la catena sta per spezzarsi. Avete di sicuro sentito la famosa frase ‘I giovani sono il futuro’ oppure ‘I giovani sono la nostra speranza’, frasi molto ricorrenti, forse sembreranno anche frasi fatte, ma hanno il loro fondo di verità. E’ tutto nelle mani dei giovani, nelle nostre mani. Dobbiamo essere noi a decidere se essere un piccolo museo oppure seppellire con le nostre mani questa lingua. Seppellire la lingua che i nostri antenati hanno mantenuto integra per secoli. Dobbiamo essere noi a decidere se identificarci o no in quegli antenati, dobbiamo decidere chi essere. Possiamo scegliere di lasciarci il nostro passato alle spalle, o di imparare dal passato per migliorare il nostro presente. Ma come si fa a chiudere con il proprio passato? La Storia stessa ci insegna a ricordare, o meglio, ci da la possibilità di ricordare, di capire, di imparare dai nostri errori. Perché è solo conoscendoci che possiamo essere liberi.
Anch’io faccio parte di quei giovani, ognuno fa parte di quei giovani e nessuno deve pensare di essere piccolo e insignificante, perché se è vero che l’unione fa la forza, noi  siamo la forza.
Trovandomi tra due terre, tra due culture, essendo un albanese che vive in Italia, magari sarò anche un po’ di parte per la sopravvivenza dell’Arbëreshe; è importante per me e lo spero con tutto il cuore.
Non possiamo prevedere il futuro, ma possiamo avviare un processo per migliorarlo. E chissà se un giorno i nostri nipoti o pronipoti troveranno un vecchio libricino che parlerà di una lingua antica parlata anni fa, o magari, un giorno, i nostri nipoti parleranno quella lingua, la lingua dei loro antenati, NOI.

RURI, HORË ARBËRESHË

Horë e bukur mbë kolin
ktu ku u’ kam shtepin,
ku sërriten burrat e dheut
“jemi niprat e Skanderbeut”.

Arbëresh po i sërritën
që kur lurën Arbërinë,
përmes tumpestës shkovën
dhe ktu vurën shtëpin.

Si guarrier, si contadin
ngritën horën gur mbë gur,
e ruovën si gjë e shtreint
dhe e pagzovën Rur.

Mbi çdo gur nje pikez lot
mbi çdo lot nje lule çeli,
dhe kur zgjohëshën menat
varejen ka ha lei dielli.

Po p’atej nga vijën burrat
bëji sembu mot i lig,
bi te shkovën pesqind vjet
pë të dukëshi pakëz dritë.

Të mos harrojën kaha vijën
gjithë ndër to sërriteshin gjiri,
thojën bukë, thojën ujë
thojën prag, thojën shtëpi.

Mëma birit i mësoj
gjuhën kurr të mos harroj,
i tha: “Bir, ku do të vesh
mos harro se je Arbëreshë!”

Dhe kur larg horës shkoven
të kërkojen ca lavur,
qevën mbiçet, qeven kurmin
ma zëmrën e lurën Rur.

URURI, PAESE ARBËRESH

Bel paese su una collina,
qui dove io abito,
dove dicono gli uomini della terra
“ siamo figli di Skanderbeg”.

Arbëreshë li hanno sempre chiamati
da quando lasciarono l’Arbërinë,
la tempesta attraversarono
e qui costruirono la casa.

Come guerrieri, come contadini
costruirono il paese pietra dopo pietra,
lo difesero come cosa preziosa
e lo chiamarono Ururi.

Sopra ogni pietra una lacrima
sopra una lacrima un fiore sbocciò,
e quando si svegliavano al mattino
guardavano dove sorgeva il sole.

Ma da dove venivano gli uomini
faceva sempre brutto tempo,
dovettero passare cinquecento anni
per vedere un po’ di luce.

Per non dimenticare da dove provenivano
Tutti tra di loro si chiamavano parenti,
dicevano pane, dicevano acqua,
dicevano uscio, dicevano casa.

La madre al figlio insegnò
di non scordare mai la lingua,
gli disse: “ Figlio, dovunque tu vada
non dimenticare mai che sei Arbëresh!”

Anche quando andavano lontano dal paese
per cercare un po’ di lavoro,
hanno portato i panni, hanno portato il corpo
ma il cuore l’hanno lasciato a Ururi

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