Durante
le celebrazioni per la Pasqua,
a
Frascineto è
consuetudine eseguire le
vallje,
le
tipiche
danze, o ridde, albanesi. Le
vallje sono formate
da giovani vestiti con
il ricco
costume tradizionale arbëresh, che tenendosi a catena per mezzo di
fazzoletti e guidati all'estremità da due figure particolari,
chiamati "flamurtarë" (portabandiera), si snodano per le
vie del paese eseguendo canti epici, rapsodie tradizionali, canti
augurali o di sdegno per lo più improvvisati.
Nelle
danze è consuetudine
coinvolgere
i “lëinjt” (i non albanesi, ossia i latini), che un apposito
gruppo di “untori”
ha già provveduto ad individuare annerendogli
il volto. Contemporaneamente,
altri giovani sono soliti ripetere il rito
del Teschio (kùtula).
La
tradizione dei Tintori.
Il
martedì di Pasqua, girano per il paese i Tintori, i quali provvedono
a segnare con la fuliggine il volto di chi non sa parlare
l’arbërisht, chiedendo all’ospite di pronunciare la frase “tumac
me qiqrra / tagliatelle e ceci”.
La
tradizione del Teschio (kùtula).Giovani
incappucciati, vestiti di bianco, impersonano gli “spiriti” che
invitano gli anziani (non arbëreshë) a baciare
un teschio d’asino o di bue,
dicendo: “Mbaj
mend se ke të vdesësh (ricorda
che devi morire)”.
La
frase trae origine da una particolare usanza tipica dell'antica Roma:
quando un generale rientrava nella città dopo un trionfo bellico e
sfilando nelle strade raccoglieva gli onori che gli venivano
tributati dalla folla, correva il rischio di essere sopraffatto dalla
superbiae
dalle manie di grandezza. Per evitare che ciò accadesse, un servo
dei più umili veniva incaricato di ricordare all’autore
dell’impresa la sua natura umana e lo faceva pronunciando questa
frase: “Memento mori! (Ricordati che devi morire!)”.
Il
seguito
memento
mori divenne
il motto dei monaci
trappisti.
La tradizione delle “tavolate” di San Marzano di San Giuseppe, trae origine dell’usanza di bandire banchetti da offrire ai poveri ed ai forestieri nel giorno della festa di S. Giuseppe, in memoria dell’ ospitalità ricevuta dalla Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto.
Nell’antica comunità arbereshe,che alcuni amano definire “Albania Tarantina”, la realizzazione delle tavolate era affidata alle donne di uno stesso quartiere, che si riunivano in casa per preparare le tredici pietanze, in ricordo dell’ Ultima Cena.
Il 10 marzo di quest’anno, in occasione del 152° anniversario del patrocinio del Santo Patrono, il Comitato feste Patronali ha realizzato una “Mattra” della lunghezza di 152 metri.L’intento degli organizzatore non è stato quello di raggiungere un Guinness dei Primati, ma semplicemente di rafforzare ladevozione verso il Santo Patrono.
Le
tavolate o “mattre”, come vengono chiamate in arberisht,venivano
allestite su tavolieri di legno e disposte lungo
la via principale che parte dalla Chiesa Madre.
Sovente prendevano l’aspetto
di veri e propri altarini
a
sette
piani (simbolo
dei sette sacramenti).
Si
utilizzano ancor oggi gli alimenti tipici della civiltà contadina:
olio, farina, pepe, pesce, legumi ed ortaggi. Non compaiono né
formaggio né carne perché costosi e perché la festa coincide con
il periodo di quaresima.
Il
piatto principale è il pane servito con finocchio ed un’ arancia;
segue l’ insalata, i “ lampascioni “ lessati con olio e pepe;
fave con olio, pepe ed un’ acciuga; ceci e fagioli conditi nello
stesso modo; cavolfiore lessato intero ed insaporito con olio e pepe;
riso con sugo ed un pezzetto di baccalà fritto; stoccafisso al sugo;
massa di San Giuseppe con olio, “spunzale” ed un pezzo di
baccalà; maccheroni lunghi fatti a mano e conditi con miele e
mollica di pane fritto; “carteddate” con pepe.
I
13 piatti potevano essere serviti per 3,5 o 15 “Santi” scelti tra
le famiglie più povere del paese, che rappresentavano la Sacra
Famiglia (da
sola o accompagnata da San Gioacchino e Sant’ Anna
o dai
dodici apostoli)
La
sera del 18
marzo,
dopo
la messa eprima
dell’accensione di
un falò di proporzioni eccezionali di
cui parleremo in seguito, il
parroco benedice le tavolate e, dopo che i padroni di casa hanno
lavato le mani ai Santi ( gesto rituale che ricorda l’ Ultima
Cena), questi possono assaggiare le pietanze. Terminata la
rappresentazione il cibo viene offerto ai poveri e/o ai forestieri.
Negli anni addietro il rituale prevedeva che i santi facessero il
giro delle case dove erano state allestite le tavolate.
La benedizione del pane.
Il rito della benedizione del pane si ricollega all’ origine del culto del santo, protettore dei bisognosi. Il pane, nella forma circolare recante le iniziali di S. Giuseppe o il simbolo della croce, è senza dubbio uno dei protagonisti della festa.
Le donne devote preparano, nei due giorni precedenti i festeggiamenti, l’ impasto che lasciano lievitare per una notte intera. All’alba del 18 marzo viene portato nei forni a cuocere e tutto il paese è invaso dalla fragranza del pane caldo.
La mattina della vigilia si celebra la “ benedizione del pane di San Giuseppe”: la Chiesa Madre è ricolma di grandi ceste piene di pane che, al termine della benedizione, verrà distribuito ai poveri ed ai forestieri. Il pane deve essere spezzato con le mani e consumato dopo aver recitato una preghiera al Santo. Anticamente veniva conservato un pezzo della pagnotta e le briciole venivano sparse nelle campagne per allontanare il cattivo tempo.
Il falò e la processione delle fascine.
Il pomeriggio della vigilia è contrassegnato da un’altra importante cerimonia: la processione della legna, che si conclude con “zjarri e mate”, un falò dalle proporzioni straordinarie, alto anche 10 metri.
L’ origine di questo rito è da rintracciare in un evento accaduto agli inizi dell’ 800, che è rimasto nella memoria collettiva sanmarzanese. A causa delle temperature molto rigide e dell’ eccessiva miseria, gli abitanti del paese decisero di rinunciare ai piccoli falò che abitualmente venivano offerti a S. Giuseppe nei vicoli. Ma durante la notte della vigilia si scatenò sul paese un violento nubifragio, che divelse molti alberi nella campagne. Il fatto venne interpretato come un atto punitivo del Santo. I saggi del paese decisero allora di offrire a S. Giuseppe un unico grande falò da accendere sul largo Monte ( “ laerte Mali” ), in modo da essere visto anche dai paesi limitrofi.
Da allora, per quasi due secoli, la processione dei carri e delle fascine rimane il momento più suggestivo dell’anima popolare e religiosa dei sanmarzanesi.
E’ una processione interminabile che si snoda per le vie del paese e vede la partecipazione di tutti.
Protagonisti della processione sono anche i cavalli, addobbati per l’ occasione con eleganti finimenti. Essi sono ammaestrati a trainare gli enormi carri carichi di fascine, sormontati dall’immagine del Patrono, e a “genuflettersi” davanti alla statua del santo, appena giunti davanti alla chiesa.
Al termine della Messa serale il parroco, dopo la benedizione della legna ( fatta ai quattro lati della catasta, secondo i punti cardinali), accende il fuoco che per tutta la notte illuminerà il paese invocando la protezione del Santo Protettore.
(articolo di Anna Maria Ragno) A
Barile, ("Barilli" in arbëreshë), comune di circa 3.000
abitanti della provincia di Potenza, per il Venerdì Santo è
tradizione che si ripetano i Misteri della Passione.
Non
vi sono fonti storiche che documentino con precisione l'epoca in cui
ebbe luogo la prima sacra
rappresentazione della Via Crucis,
ma molti studiosi ritengono che possa essere stata istituita dal
Clero Romano nel 1600,
per accelerare il difficile processo di "latinizzazione"
del rito greco che, nonostante ripetuti interventi dei vescovi
Melfitani, ancora
sopravviveva.
Il
corteo. Il Venerdì Santo il
corteo, composto da circa 120 figuranti, si snoda lungo le
vie strette del centro storico. I giovani si travestono da
«Centurioni a cavallo» e iniziano a girare per le strade in cui si
snoderà la processione. Uno dei «Centurioni» è munito di tromba e
la suona stazionando sotto le abitazioni di chi impersonerà il
«Cristo con la croce» e la «Madonna». Il suono della tromba, i
falò, i canti popolari e le preghiere indicano chiaramente che la
comunità barilese sta preparando la “sua” Via Crucis.
La
processione è quindi
preceduta
dai
tre centurioni
a cavallo; seguono poi tre bambine vestite di bianco che
simboleggiano le
tre Marie, una ragazza vestita di nero e 33 ragazze vestite
anch'esse di nero, che rappresentano gli anni di Cristo.
La
Via Crucis
mostra un’evidente commistione di elementi sacri e profani.
Infatti,
accanto
ai
personaggi classici del "dramma Evangelico", la
sacra rappresentazione vede
la presenza di personaggi
tipici della cultura e della simbologia popolare. Fra questi, sono
particolarmente significative le
figure della "Zingara", del "Moro" e del "Malco",
personaggi che vogliono simbolicamente rappresentare i peccati
dell’idolatria,
dell’ira
e della
lussuria.
Il
Moro. È un personaggio pagano. Non ha origini precise.
Forse simboleggia i Turchi, che nel 1400 minacciarono l’Albania,
causando dal «Paese delle aquile» la fuga di molti cittadini.
Il
Malco. Calza scarponi rovesciati come cilicio. Non ha
nella processione una collocazione fissa. Rappresenta l’ebreo
errante e colui che schiaffeggiò Gesù. È incappucciato ed
irrequieto, perché condannato a non trovare più pace per l’offesa
arrecata a Cristo.
La
Zingara. Secondo la tradizione è colei che fornì i
chiodi forgiati rudemente per la crocifissione di Cristo. La Zingara,
incurante delle sofferenze dei personaggi cristiani, sfila
pavoneggiandosi, accompagnata dalla «Zingarella», sorridendo e
distribuendo ceci alla
gente.Petto e mani sono completamente ricoperti d’oro.
E’ lei, la Zingara, che simboleggia la ricchezza
mista a pericolo e malvagità; è
lei il simbolo della lussuria.
I
ceci.
Ma perché la Zingara offre i ceci? In
questa offerta la garanzia della Resurrezione: i ceci sono il pasto
dei defunti fin dall'antichità.
L’oro
della Zingara. Da Natale in poi
la ragazza che interpreterà la zingara, di solito una bella bruna
prosperosa, riunisce gli ori delle famiglie del paese. Con i venti
chili di splendidi ori antichi che così raccoglie, la zingara
"costruisce" un corpetto ricchissimo.
Anche le
dita, le braccia, i capelli e il collo sono
ricoperti d’oro.
Davanti
al Cristo
insanguinato, ella ancheggia
vistosamente e ride sfacciatamente, regalando
alla gente i ceci,
che estrae
dal cestino
in cui si intravedono dei
chiodi: i chiodi della
crocifissione. Malvagità e
bellezza, empietà e ostentazione,sensualità
e arroganza si identificano nella
rappresentazione femminile del male.
Nella
sacra rappresentazione della Passione del Cristo di Barile, come
nell’arte bizantina delle icone e nei ricchi ed opulenti costumi
arbëreshë,
l’oro
compare sempre. Copre
i simboli e riveste i personaggi della sacra rappresentazione: copre
le croci e gli abiti delle “tre Marie”; impreziosisce le dita dei
sacerdoti del Sinedrio; intesse il vestito dell’Addolorata. Ma,
soprattutto, "veste" la zingara.
Legno
policromo e dorato del XVII secolo. Autore sconosciuto. La
statua, caratterizzata da rigida impostazione frontale, rappresenta
il Santo, intronizzato e benedicente; indossa i paramenti pontificali
bizantini, quali il felonion con omoforion, la stola, il camice e
l’epitrachilion e mostra il libro aperto con su scritto “Beati
siete voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio”. Il
trono, riccamente intagliato con figure animali, reca in alto le figure del
Cristo e della Theotokos, che porgono al Santo il Vangelo e
l’omoforion.
San
Nicolò è il patrono di Mezzojuso sin dal 23 aprile 1643. Nella chiesa di San Nicola, infatti, vi è una cappella dedicata al Santo e la
sua bellissima statua, realizzata in legno (XVII sec.). Ogni anno,
il 6 Dicembre, durante la solenne Liturgia di rito
greco-bizantino, vengono sostituiti i tre panini che San Nicolò
regge con la mano sinistra, con quelli nuovi eseguiti di proposito
dai devoti per la sua festa, scegliendo i più belli tra i tanti
preparati.
"Panuzza" di San Nicolò (Mezzojuso).
San
Nicolò rappresenta per Mezzojuso il gran padre della provvidenza e
il tutore delle ragazze orfane. Questo grande santo, arcivescovo di
Mira nella Licia, morì nel 342. Nel 1087 le sue spoglie furono
trasportate a Bari.
La
preparazione dei «panuzza».
Questi
«Panuzza» di S. Nicolò sono di forma rotonda, dal diametro di
circa cm. 5. Sono eseguiti in modo che risultino più duri di quelli
normali. Le donne chiedono in prestito i «bbulla», che sono antichi
punzoni di legno con i quali vengono incisi questi panini che,
spennellati d’uovo, alla cottura del fuoco acquistano il colore
dell’oro antico.
Bbulla per i panuzza di San Nicolò.
Nel
panino è rappresentata l’immagine di S. Nicolò benedicente, in
altri una scritta con caratteri greci. Secondo una leggenda, il Santo
sfamò con tre soli panini la città di Mira afflitta da carestia.
Le massaie, che sanno quanto sia importante la cottura del pane,
quando lo mettono al forno, poiché «lu furnu conza e guasta»,
pronunziano la seguente invocazione: «Santu Nicolò beddu di dintra
e beddu di fora», affinchè il pane possa riuscire a giusta
cottura e fragrante.
Questi
«panuzza» vengono distribuiti gratuitamente a tutte le famiglie che
li mangiano senza dimenticare di asportare da alcuni la crosta con
l’immagine di San Nicolò. La crosta si conserva perché, in caso di temporale, viene lanciata sui tetti per placare la tempesta.
Il
costume tradizionale femminile, la lingua e il rito greco bizantino,
sono i segni più evidenti della diversità culturale arbëreshë.
Questi tre elementi rappresentano la più sentita ed autentica
espressione di mantenimento dell'identità italo-albanese.
Ma
come ben
sappiamo, oltre
al costume, alla lingua e al rito, sopravvivono elementi
apparentemente “più deboli o di secondo livello” come le Vallje, le Carresi,la
musica, la gastronomia,
ecc. ecc.
Vi
è, inoltre, un elemento che non viene mai citato, ma
che costituisce forse l’elemento principale del mantenimento
dell’identità italo-albanese e dell’ arberisht: l’endogamia, cioè la scelta preferenziale del coniuge all'interno del proprio gruppo etnico (endogamia etnica) o del proprio villaggio (endogamia di villaggio).
Ogni
comunità, quindi,
si caratterizza attraverso una
serie elementi distintivi.
La comunità di Piana
degli Albanesi conserva come in uno scrigno ben tre elementi
distintivi: la lingua, il rito greco bizantino e il costume.
In
generale, riguardo ai costumi femminili non si hanno molte notizie
specifiche, se si escludono gli scritti del Pitrè, i tanti cenni su
testi letterali di scrittori locali e le poche documentazioni
iconografiche.
Vi
sono diverse testimonianze artistiche sugli abiti dei Greco-albanesi
di Piana degli Albanesi, tra cui le stampe di Vuillier (XVIII
secolo), le pitture e gli schizzi di Ettore De Maria Bergler e i
ritratti di Antonietta Raphaël, in parte conservate alla Galleria
d'Arte del complesso monumentale di Sant'Anna a Palermo. Esistono,
inoltre, diverse stampe private, acquarelli e cartoline di autori
sconosciuti, che ritraggono e testimoniano l'incomparabilità del
costume e degli ori di Piana degli Albanesi.
Quello che è sicuro è che in
oltre cinque secoli il costume tradizionale femminile arbereshe ha
mantenuto l'aspetto costitutivo orientale bizantino, che come
sappiamo si caratterizza per l'uso dei colori accesi, l'ampio
drappeggio, le maniche lunghe e larghe e le stoffe preziose ricamate
di seta, oro e argento. Probabilmente ha subito piccole
trasformazioni con influssi nei secoli che si sono succeduti,
rendendolo così un abito unico e inimitabile, di incomparabile bellezza.
Gli
abiti tradizionali, legati ai vari momenti della vita delle donne,
dalla quotidianità al matrimonio, scandivano i ritmi della
tradizione sociale del passato. Tramandati di madre in figlia e
conservati gelosamente, non sono più abiti di uso comune, ma costumi, e quindi strumenti di identificazione che assolvono quasi esclusivamente
a funzioni simboliche circoscritte ad alcune occasioni legate al rito
greco bizantino, alla festa e al ciclo della vita (battesimi,
matrimoni e funerali).
La
perdita progressiva di questo legame ebbe inizio dagli anni quaranta,
quando nel dopo guerra si introdussero in Europa nuovi vestiti
pratici e leggeri. Negli anni cinquanta e anni sessanta cadde quasi
in disuso l'abito di mezza festa e l'abito giornaliero. Ma gli
sfarzosi ed eleganti abiti, hanno conservato intatta la propria
specificità e ancora oggi vengono indossati in occasioni
particolari, continuando ad essere preservati meticolosamente dalle
donne di Piana degli Albanesi. Le occasioni sono rappresentate dalle
grandi cerimonie religiose e festive legate alla Settimana Santa
(Java e Madhe) e alla Pasqua (Pashkët), all'Epifania (Ujët të
Pagëzuam), ai battesimi (pagëzime) e ai matrimoni (martesë).
Per
la preziosità dei suoi tessuti e dei suoi ricami, il costume più
bello delle donne di Piana degli Albanesi è senza paura di smentita
il costume nuziale.
Unici
nel loro genere, gli abiti da sposa sono composti da una gonna e da
un corpetto di seta rossa con ricami floreali in oro, separati da una
cintura di argento (brezi), in genere del peso di più di un
chilogrammo, costituita da varie maglie lavorate del prezioso
metallo, con al centro, scolpita in rilievo, una figura di un Santo
orientale venerato: comunemente San Giorgio, San Demetrio o Maria
Odigitria.
Sul capo le donne di Piana portano il velo (sqepi) e il copricapo (keza), simbolo
del nuovo status di donne maritate. Sotto la cintura e sul capo, infine, un fiocco
(shkoka) verde con ricami interamente in oro, a quattro e a tre
petali.
Il
costume da sposa è generalmente completato dai gioielli: orecchini
pendenti (pindajet) d’oro rosso e bianco con pietre preziose
incastonate (diamanti, smeraldi, rubini); un girocollo di velluto con
pendente (kriqja e kurçetës) sempre con le stesse pietre preziose
incastonate; un anello di diamanti grezzi di forma rotonda (domanti);
una collana a doppio filo di pietre di granata chiusa in più punti
da sfere di filigrana (rrusarji) con pendente di diversa forma
contenente, in origine, una reliquia.
Il video che segue illustra la preziosa produzione orafa dei quattro fratelli Lucito di Piana degli Albanesi.
La
qualità della produzione, quasi ininterrotta, dei costumi, si deve
alla grande abilità artigianale delle ricamatrici arbëreshe
specialiste nel ricamare l'oro e nel trasformare la seta (mola), il
velluto e l'oro (in fili, in lenticciole e in canatiglie) in
raffinati e preziosi abiti, usando il tombolo o il telaio o
semplicemente l'ago, come si fa per la ricciatura a nido d'api della
maniche della camicia e per i merletti a punto ad ago.
Anche
le attività lavorative correlate hanno un rilievo molto importante e
offrono un illuminante spaccato socio-economico. L'impiego di
manodopera quasi esclusivamente femminile rinvia, infatti, ad una
divisione del lavoro, nella società e nella famiglia, di tipo
tradizionale, e le donne, avviate a questa attività sin
dall'infanzia, gradualmente raggiungevano una perizia tecnica che
consentiva loro di provvedere direttamente alla preparazione del
corredo.
La
gran parte della produzione dei manufatti è dovuta storicamente a
questo artigianato domestico che, pur basato su canoni di pura
riproduzione dei motivi, ha raggiunto livelli artistico-estetici
spesso ragguardevoli con il concorso del gusto personale delle
operatrici, la cui formazione non si esauriva nell'ambito familiare
ma, specialmente dal secolo XVIII, ha potuto beneficiare di una vera
e propria scuola di ricamo quale era a quel tempo il Collegio di
Maria di Piana degli Albanesi, dove ancora oggi esiste
un'esposizione permanente di quei ricami.
Vere e proprie opere d'arte, i costumi e i gioielli della tradizione arbereshe sono un vero e proprio scrigno di saperi materiali ed immateriali, un patrimonio inestimabile da custodire e tramandare alle generazioni future.
Ieri,
stroncato da un infarto, è morto Alessandro Leogrande, lo scrittore
e giornalista che aveva denunciato lo speronamento del Kater i Rades
e raccontato lo sbarco della Vlora a Bari l'8 agosto 1991. Noi oggi vogliamo ricordarlo con il video montato da Rossella De Rosa, pubblicato nell'ottobre 2011 nel canale youtube della nota "cantantessa" arbereshe Silvana Licursi.
"Quando
ho visto le immagini della nave rigurgitante di esseri umani,
sconvolti e stremati, che sembravano arrivati da un altro pianeta, ho
provato un sentimento misto di violenta commozione e di dolorosa
incredulità. Ancora una volta un' imbarcazione carica di pena, di
paura e di deliranti speranze aveva attraversato quel braccio di mare
in una notte angosciosa, come tanti secoli prima. Non i turchi alle
spalle, non le case bruciate e le donne rapite, ma una miseria senza
nome e l'umiliazione di ogni umana dignità.
"Fratelli"....
non è facile pronunciare questa parola, gettare un ponte su cinque
secoli di lontananza, accettare una realtà tanto difforme
dall'epopea e dal mito. "Fratelli" - parola tremante nella
notte - foglia appena nata. Una storia che ricomincia."
(Silvana
Licursi, 20 ottobre 2011)
Servizio
di Alessandro Leogrande, Radio RAI3. I brani eseguiti, di SILVANA
LICURSI, sono "E ìkura" tratto dal Cd "Trasmigrazioni",
e "Vemi e marrëmi nusen" tratto dal cd "For from the
Land of Eagles" .