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domenica 9 marzo 2014

Essere donna in Albania dal Kanun ad oggi

di Emanuela Frate
(pubblicato su babelMed l'8 Marzo 2014)

Si parla spesso della condizione delle donne nei Paesi arabi, in Africa, in India dove le associazioni e le organizzazioni internazionali denunciano, legittimamente, i matrimoni forzati, gli stupri collettivi, i soprusi e le violenze che queste donne, quotidianamente, devono subire da parte di mariti, padri, fratelli, amici. Quando si pensa alla condizione femminile nel mondo sono questi gli esempi più lampanti che vengono in mente. Ma esiste un paese, nel cuore dell’Europa, dove la parità di genere è ancora una chimera. Questo Paese è l’Albania dove tuttora le donne vivono in quasi totale subalternità nonostante le apparenze. Ha sicuramente influito molto il Kanun di Lek Dukagjini che, sebbene, sia stato abolito, ha lasciato delle tracce soprattutto nelle piccole realtà rurali. Indubbiamente, negli anni in cui fu in vigore il Kanun, la donna albanese ha vissuto il suo periodo più duro. All’articolo 29 del Kanun si legge infatti: “La donna è un otre fatto solo per sopportare”.

Si può riassumere il ruolo della donna sposata da quanto si evince dall’articolo 13 del Kanun: “la moglie ha il diritto ad avere un marito, sostentamento, vestititi e calzature”. Tutto il resto è lasciato al buon cuore dello sposo. In un Paese fortemente legato al concetto di sangue come simbolo di un clan, un’etnia, una nazione e altresì strettamente legato al valore virile delle armi non è casuale che, come si evince dall’articolo 129 del Kanun, il padre della futura sposa, nel consegnare la figlia allo sposo metta, nascosto tra le pieghe del corredo nuziale, anche un proiettile, sottolineando così il potere che si dà al marito perfino di uccidere la sua sposa qualora ella manchi di rispetto al marito o compia adulterio. Questo perché, come recita l’art.28 “il sangue della donna non è da paragonarsi a quello dell’uomo”. Inoltre, nel diritto consuetudinario del Kanun, la donna albanese, una volta sposata, non entra a far parte della nuova famiglia ma resta sempre parte integrante della sua famiglia originaria e quindi viene vista come una sorta di “corpo estraneo” per la nuova famiglia, a differenza del diritto romano in cui la donna sposata perdeva qualsiasi contatto con la famiglia di provenienza per unirsi al nuovo gruppo familiare. Semplicemente la donna passava dal potere del padre al potere del marito che comunque la considerava come qualcosa di avulso dal proprio nucleo familiare pur disponendone a suo piacimento (bastonandola o ripudiandola semplicemente tagliandone una ciocca di capelli o addirittura uccidendola). Così descritta la condizione femminile quando era in vigore il Kanun sembra addirittura peggiore alla condizione femminile di Paesi in cui vige la Sharia o altri codici.

Si fa spesso riferimento ad un mito, ad una figura leggendaria della cultura albanese che esemplifica la condizione della donna nell’immaginario collettivo: la leggenda di Rozafa. La storia di questa figura mitologica raccolta che fu murata viva da suo marito e dai suoi fratelli per scongiurare una maledizione che impediva loro di edificare il castello che sovrasta Scutari. Prima di morire murata Rozafa chiese di lasciar fuori almeno un braccio per accarezzare il figlio neonato, un seno per allattarlo ed un piede per dondolare la culla. Questa leggenda, tanto tragica quanto cruenta, simboleggia le caratteristiche della donna albanese, la sopportazione, l’abnegazione, l’accettazione del proprio destino perfino in condizioni estreme. Sempre nel Kanun si fa riferimento ad un’altra figura femminile emblematica: quella delle Burrnesh o Vergini giurate. Donne che per sopperire all’articolo 36 per cui “la legge riconosce per erede il figlio e non la figlia” decidevano di “farsi uomo” acquisendo tutti i diritti riservati agli uomini (possedere un’arma, fumare, intrattenersi con uomini, disporre delle proprietà) giurando però eterna castità. L’eventualità che una donna si trasformasse in “burrnesh” o “vergine giurata” avveniva soprattutto quando un padre di famiglia moriva senza lasciare eredi maschi. Oggi le “Burrnesh” non esistono quasi più, quelle rimaste (poche decine) vivono in isolati paesini di montagna e sono quasi tutte anziane ed il Kanun non è più in vigore ma il diritto, per le donne albanesi, di ereditare ancora non esiste. Le donne tutt’oggi, nella società albanese, non ereditano; sono spesso costrette ad accettare la volontà della famiglia nella scelta del futuro marito; perdono il proprio cognome quando si sposano e vanno a vivere presso la famiglia del marito sottostando alla norma della residenza virilocale. L’Albania è il paese dove è ancora diffuso il cosiddetto “aborto selettivo” (se il feto è di sesso femminile si potrebbe incorrere in un aborto) e dove è di gran voga la ricostruzione dell’imene per ridare la verginità alle sventurate donne che l’hanno perduta (come succede in molti Paesi arabi).

La donna albanese ha sicuramente goduto di una timida emancipazione durante gli anni del regime comunista: nonostante il duro lavoro nei campi o nelle fabbriche, sotto il regime di Enver Hoxha, le donne avevano alcuni spazi e delle libertà e una certa indipendenza economica. Il passaggio da un regime di sussistenza ad un’economia di mercato fu drastico e portò molte conseguenze. La transizione non fu indolore: gli uomini andavano all’estero e le donne erano costrette ad occuparsi da sole della campagna, delle faccende domestiche, dei figli e dei parenti. In altri casi le donne che partivano in cerca di fortuna diventavano vittime di personaggi senza scrupoli che gestivano il traffico della prostituzione.

Essere donna oggi in Albania è ancora molto duro. Persiste un retroterra culturale ancora fortemente maschilista. Le ragazzine si vedono come future mogli e future madri. Spesso le giovani sono costrette a non proseguire gli studi perché “non è decoroso” spostarsi da una città all’altra da sole. E anche quando hanno raggiunto elevati livelli di istruzione, laureandosi, faticano a trovare un lavoro e se lo trovano hanno dei salari nettamente inferiori. Ma l’aspetto più inquietante è un’altra forma di violenza, più subdola, che subiscono: i maltrattamenti domestici causati spesso da alcolismo e la disoccupazione dilagante. Percosse fisiche e psicologiche che tengono le donne soggiogate ai propri mariti. Dal 2006 esiste una legge contro le violenze domestiche (varata per venire incontro alle pressanti richieste degli organismi internazionali) ma, di fatto, non serve a nulla, non essendo stato finanziato con le risorse necessarie per assistere le donne. Così laddove lo Stato albanese non arriva ci sono le associazioni e le Ong a sostenere le donne vittime di violenze come il Centro Donna, nato nel 2001, nella città di Scutari oppure “Useful to Albanian Women Association”. Il tema della violenza domestica non è oggi più tabù, tra tante difficoltà se ne comincia a parlare e si inizia a denunciare gli aggressori, tuttavia la rigida cultura patriarcale ed il maschilismo imperante fanno dell’Albania un Paese dove è ancora problematico vivere per il gentil sesso.


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