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venerdì 3 febbraio 2012

L’arbërisht. Patrimonio della nostra Umanità

di Anna Maria Ragno

Cosa rappresenta per gli Italo-albanesi parlare l’arbërisht? Che cosa rappresenta per i non Arbëreshë salvaguardare questa lingua minoritaria? Quali sono i “pericoli” della lingua? Questo breve scritto cerca di dare una risposta a queste domande e al contempo suggerisce una riflessione sulla lingua e su come intenderla correttamente, in funzione del rispetto della diversità culturale e  dell’Umanità di ciascuno di noi.                                                                                                                                                   
Ogni lingua ha una dimensione storica e geografica, sociale e culturale, socio-etnologica ed addirittura onirica. Ognuna di queste dimensioni contribuisce a realizzare la diversità culturale di ogni gruppo sociale e la singolarità di ogni individuo. Riconoscere questa diversità ha valore per ciascuno di noi, Arbëreshë e non, Italiano o Albanese: significa, infatti, riconoscere ciò che è Patrimonio dell’Umanità, della “nostra” Umanità. L’arbërisht è la lingua che gli Arbëreshë hanno “inventato” fondendo ghego e tosco ai vari dialetti dell’Italia meridionale e a diversi prestiti linguistici. Ha sicuramente una origine storica, che risale al XV sec. e all’arrivo dei primi esuli albanesi in Italia, e fa riferimento ad una specifica area geografica, il Meridione d’Italia. Ha una funzione identitaria: per gli Arbëreshë, come sappiamo, la lingua costituisce lo strumento privilegiato attraverso cui è stata costruita e mantenuta la propria identità, celebrati i riti religiosi, trasmessi i valori, i miti e le leggende, i canti e le tradizioni. L’oralità, infatti, attraverso questa lingua segreta veicola miti come quello di Skanderbeg, leggende come Rozafat, canti come E ìkura e certe ninna nanne del cuore…
L’arbëresht, inoltre, ha una dimensione socio-etnologica che si rifà all’etnolinguistica e alla sociolinguistica. L´etnolinguistica studia le relazioni tra lingua e cultura, e il modo in cui diversi gruppi etnici concepiscono il mondo. Secondo l’interessante ma contestata teoria di Whorf-Sapir la concezione del mondo è limitata da ciò che è possibile descrivere nelle propria lingua. Chi scrive, come insegnante di storia e filosofia in contesti linguistici “diversi” come l’Etiopia, si è dovuta interrogare spesso sulla relazione lingua-pensiero e risolvere problematiche di questo tipo: Come si fa parlare di immanenza e trascendenza se nell’amarico, la lingua madre di questi studenti, neanche esistono questi termini? Ciò che non esiste nella lingua non esiste neanche nel pensiero e viceversa?
La sociolinguistica, invece, è la disciplina che studia i fenomeni linguistici dal punto di vista della dimensione sociale, interessandosi non alla lingua come sistema astratto, ma a come essa si realizza concretamente nell’uso che ne fanno gli individui e i gruppi sociali, e alle variazioni cui essa è soggetta in relazione ai suoi contesti d’uso. Ogni Arbëreh, come sappiamo, è bilingue, ma certe cose le dice e le pensa meglio in arbërisht: ad esempio se parla della dote della sposa o di come coltivare la terra.
Le ragioni per cui salvaguardare l’arbërisht risiedono, dunque, nel fatto che una lingua non è solo un mezzo di comunicazione, ma il tessuto stesso delle nostre espressioni culturali, il vettore della nostra identità, dei nostri valori e delle nostre concezioni del mondo. Nostra/e/i nel senso di Tutti, giacchè è interesse di ognuno di noi preservare la diversità linguistica come condizione necessaria della diversità culturale, e promuovere il multilinguismo, il dialogo interculturale e i diritti alla cittadinanza di tutti. Salvaguardare l’arbërisht significa mettere l’accento “sull’unità nella diversità”, cioè sull’Umanità che emerge dalle nostre differenze. La diversità linguistica e culturale costituisce il garante di un esercizio effettivo di questi diritti, poiché essa rafforza la coesione sociale e offre una fonte d’ispirazione per il rinnovamento delle forze di governance democratica.
Se la diversità è un valore da accogliere e valorizzare, mai dovrebbe  essere intesa come “ differenza” e usata come un’arma d’offesa, come alcune esternazioni fanno pensare.  “Non è Arbëresh” non offende chi non è, né non può dirsi Arbëresh, ma l’intelligenza di chi non capisce che gli Arbërshë  sono Italiani due volte:
1) perché, arrivati in Italia come ospiti e come esuli, qui hanno trovato nuove possibilità di vita e di lavoro, mantenendo e costruendo una doppia identità (italiana e albanese), e ragionando, come dice lo scrittore Carmine Abate, per “addizione” (non per sottrazione);
2) perchè, come dimostra la partecipazione al Risorgimento e ai Conflitti Mondiali, gli Arbëreshë hanno conservato la propria antica origine Albanese, diventando più Italiani degli Italiani. Se così non fosse dalla caduta del Comunismo e dagli anni 90 in poi, avremmo visto tornare nel Paese delle Aquile orde di Arbëreshë.
Come tale l’italo-albanese non può essere inteso come una maniera per chiudersi in una sorta di feudo personale nel quale può entrare solo chi parla l’arbërisht come lingua materna. Sarebbe come dire che può studiare e leggere Dante solo chi è nato a Firenze e usare l’invenzione di Meucci (il telefono) solo chi è Italiano.
Chi si lascia andare a queste esternazioni, non solo denuncia un acceso egocentrismo, ma un disumano etnocentrismo: il campanile del proprio paese o la statua di Skanderbeg collocata al centro della sua piazza principale è il centro del mondo stesso, e tutto deve essere misurato e valutato rispetto ad esso. Sia l'etnocentrismo (che si esprime sul piano culturale in rapporto ad un io collettivo), che l'egocentrismo (che invece trova interpretazione nella sfera psicologica in rapporto all'io individuale) significano la tendenza dell'io (collettivo o individuale che sia) a non decentrarsi, ad avere una confusione incosciente del proprio punto di vista con quello degli altri, e ad imporlo senza mezzi termini. Nelle peggiori delle conseguenze, l’etnocentrismo può assumere comportamenti patologici. Ciò si verifica quando vi è un eccessivo rifiuto verso gli altri, fino a sfociare in una vera e propria intolleranza o in forme mentali complesse dirette o indirette in genere dannose per chi non faccia parte del noi. Quando l'etnocentrismo si traduce nella sua forma mentale, sociale e culturale più esasperata diviene razzismo, tendenzialmente orientato non solo al rifiuto ma alla distruzione dell'altro.
Chi pensa che queste considerazioni siano esagerate, sottovaluta i pericoli che possono derivare dall’esaltazione della lingua e della razza,  dimenticando qualche pagina di storia della filosofia.
Infatti, le origini del "Mein Kampf" ("La mia battaglia”) di Hitler, la Bibbia del Terzo Reich, sono rintracciabili nei pensieri di filosofi come Hegel e Nietszche, Ma il primo filosofo nelle cui parole si possono riscontrare elementi della futura dottrina nazionalsocialista è Fichte, che per l’appunto nei suoi "Discorsi alla nazione tedesca" esaltò la superiorità naturale degli abitanti della Germania, basata sulla purezza della lingua tedesca!
Dunque, in Germania si trovava il popolo originario del ceppo europeo, il popolo per antonomasia, che aveva conservato la sua lingua originale e che, anche per questo, possedeva la vita spirituale più profonda e più autentica. Fichte andò addirittura oltre l'idea della purezza etnica, individuando in quello tedesco «un popolo primordiale» (Ur-Volk) con una lingua primordiale (Ur-Sprache), destinato metafisicamente a divenire la guida del mondo. Il filosofo auspicava l'avvento di una nuova generazione di tedeschi e proclamava che solo la Germania era la nazione spiritualmente "eletta" a realizzare l'«umanità tra gli uomini». Il suo pensiero fu certo frainteso, ma proprio per questo ci deve essere d’insegnamento che l’esaltazione della lingua e della razza, il far risalire, come molti fanno, l’origine degli Albanesi al Paleolitico e il collocare l’Albania nell’ombelico del mondo, insieme al totalitarismo dell’ignoranza, può produrre frutti velenosi.
Di diverso tenore è invece quello che diceva, sempre a proposito della lingua, il poeta di Bagheria (Sicilia), Ignazio Buttitta:
Un populu | mittitulu a catina | spugghiatulu | attuppatici a vucca | è ancora libiru. || Livatici u travagghiu | u passaportu | a tavola unni mancia | u lettu unni dormi | è ancora riccu. || Un populu, diventa poviru e servu | quannu ci arrubbano a lingua | addutata di patri: è persu pi sempri.
Un popolo rimane libero anche se lo mettono in catene, se lo spogliano di tutto, se gli chiudono la bocca; un popolo rimane ricco anche se gli tolgono il lavoro, il passaporto, la tavola su cui mangia, il letto in cui dorme. Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua ereditata dai padri: allora sì, è perso per sempre!
Sì, la lingua dei padri… e dei sogni.
Fernanda, durante una intervista ha dichiarato: “Vuoi sapere in che lingua sogno? Io sogno in arbërisht! Per venti generazioni noi Arbëreshë abbiamo mantenuto la lingua dei nostri padri, la lingua dei sogni ...”.




7 commenti:

  1. Trovo l'articolo di Anna Maria Ragno veramente interessante. Il suo argomentare di alto profilo, tratta un tema di pressante attualità: la diversità linguistica e culturale dei popoli, sinonimo di ricchezza, di apertura, di condivione e di attenzione verso un patrimonio di tutti e non di pochi. La dissertazione ricca di contenuti e di riferimenti documentati, accenna al pericolo delle " nuove forme del razzismo intellettuale" che si celano dietro atteggiamenti e sbandierate forme di superficialità e saccenza. L'Arberisht, come tante altre lingue e culture del mondo, in via di estinzione, sono da riconsiderare, tutelare e valorizzare consapevolmente e al di sopra di ogni forma di banalizzazione, motivata dall'" IO" miope di persone che credono di possedere il mondo, senza rendersi conto che la sfera che recano in mano può essere bolla di sapone. L'articolo di Anna Maria è un pezzo scritto con passione, è corredato da spunti e punti di vista critici, analogie, parallelismi, ricerche storiche che presuppongono studi e cultura profonda. Fernanda Pugliese

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  2. Cara Fernanda, se il linguaggio è l'abito del pensiero, tu vesti Chanel.

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  3. Piccole puntualizzazioni:
    1) noi arbereshe non abbiamo "inventato" nessuna lingua: ci è stata tramandata oralmente quella esistente... dei nostri avi;
    2) Scanderbeg non è un mito: è il nostro eroe nazionale, personaggio storico(ergo realmente esistito);
    3) non si può paragonare l'esaltazione della lingua albanese a certe teorie naziste: l'albanese E' la lingua più antica esistente in Europa.
    4) un popolo è perso per sempre non solo quando gli rubano la lingua, ma anche quando gli rubano la storia..... quindi, per favore, voi e tutti i finti intellettuali
    SMETTETELA DI SCRIVERE BAGGIANATE sul nostro conto!!!!!
    Se proprio volete parlare della nostra cultura,
    abbiate il buon gusto di studiarla prima.
    Grazie.

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  4. Come dice l'articolo, l'etnocentrismo è l'anticamera del razzismo.

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    1. Nessuno ha parlato di etnocentrismo: se non sapete comprendere nemmeno 4 semplici righe, tornatevene tra i banchi delle scuole elementari che è meglio per tutti.

      E con questo chiudo ogni discussione: non vale la pena fare guadagnare soldi a degli ignoranti e morti di fame con i miei click!!!

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  5. Se esiste la diffamazione a mezzo Facebook esisterà anche a mezzo blog. Una recente sentenza del Tribunale di Monza, ovvero la sentenza n. 770 del 2 marzo 2010, afferma che: "ogni utente di social network (nel caso di specie di "facebook") che sia destinatario di un messaggio lesivo della propria reputazione, dell'onore e del decoro, ha diritto al risarcimento del danno morale o non patrimoniale, ovviamente da porre a carico dell'autore del messaggio medesimo". In realtà non sei un anonimo perchè la tua aggressività mi dice nome e cognome.

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