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mercoledì 10 luglio 2013

L’Albania si tinge di viola

di Emanuela Frate
(Articolo pubblicato in Babel Med il 10 Luglio 2013)

Lo scorso 23 giugno gli albanesi si sono recati alle urne per il rinnovo dei 140 seggi parlamentari, voltando definitivamente pagina dopo oltre vent’anni di governo presieduto da Sali Berisha che, anche in questa ultima competizione elettorale si era candidato sperando fino all’ultimo in un terzo mandato. Un terzo mandato che però non è arrivato avendo vinto la coalizione di centro-sinistra capeggiata dall’ex Sindaco di Tirana Edi Rama che ha conquistato 84 seggi contro i 56 seggi di Berisha. Ci aveva sperato fino all’ultimo Sali Berisha tant’è che i due candidati, dopo le prime proiezioni, rivendicavano, ognuno, la propria vittoria.
Edi Rama
Ma, dopo due giorni di un interminabile scrutinio che ha tenuto col fiato sospeso tutti i contendenti, finalmente, sono arrivati i risultati definitivi ed il leader del Partito Democratico albanese Sali Berisha si è dovuto arrendere all’evidenza della sconfitta netta della sua coalizione attestatasi al 39,4% contro il 57,7% della coalizione di centro-sinistra capeggiata dal socialista Edi Rama. Il proverbio recita “chi la dura la vince”, infatti, Edi Rama sconfitto nel 2009, aveva contestato la vittoria di Berisha per presunti brogli ma questa volta, si è preso una bella rivincita sul suo rivale di sempre che ha perso consensi anche nelle città come Scutari, nell’ostile nord montagnoso, sue roccaforti. Contrariamente alle previsioni trionfalistiche non hanno superato la soglia di sbarramento neanche i due partiti di estrema destra che correvano da soli come “Fryma E Re Democratike” (Nuovo Spirito Democratico) dell’ex Presidente Bamir Topi ed il partito ultranazionalista di Kreshik Spahiu l’AZK (alleanza Rosso-nera) che, col suo irredentismo e rigurgiti patriottici, ha raccolto discreti consensi presso una popolazione che non ha mai smesso di sognare una “Grande Albania” in grado di riunire i territori di Albania, Kossova; Macedonia e le minoranze albanesi dal Montenegro, fino alla Grecia, in quel tratto dell’ Epiro -denominato in albanese “çamëria” (dall’omonimo fiume çam”) abitato da minoranze albanesi e da sempre rivendicato. Il voto di “testimonianza” dei due partiti di destra che non hanno ottenuto risultati significativi sta a dimostrare che la politica albanese si sta polarizzando attorno a due blocchi centrali (partito democratico e partito socialista) assumendo sempre più le sembianze delle competizioni elettorali europee.


Sali Berisha (foto di G. Nicoloro)
Dopo una campagna elettorale un po’ spenta sia da parte dei due leader politici che da parte dei cittadini, la gioia è esplosa nella notte quando è stata annunciata la vittoria ufficiale di Edi Rama. Grande festa per le strade, automobili a clacson spiegati, bandiere viola hanno colorato le vie di Tirana, Durazzo, Valona. Anche gli osservatori dell’OCSE non avrebbero riscontrato irregolarità talmente eclatanti da inficiare il voto. Insomma, a parte l’infausto episodio di sangue che aveva fatto presagire il peggio, non ci sarebbero stati brogli lapalissiani anche se, i voti di scambio, le promesse di un lavoro o 30.000 lek per ogni voto, quelli esistono ancora. Ecco perché buona parte degli albanesi all’estero temevano che anche queste elezioni decretassero la vittoria “comprata” di Berisha e del suo clan familiare. Ma così non è stato. E gli albanesi si stanno, a piccoli passi, incamminando verso la democrazia e lo hanno fatto senza manifestazioni di piazza, ma in silenzio, nella quiete della cabina elettorale, apponendo una X nella dicitura “Aleanca për Shqipërinë Europiane (Alleanza per l’Albania europea) manifestando, in questo modo, la volontà di cambiare rotta. Ma non è tutto oro quello che luccica.

Il cammino del Presidente Edi Rama sarà irto di difficoltà: c’è da arginare una corruzione dilagante, c’è da ristrutturare (o da ricostruire ex novo) le infrastrutture, il sistema sanitario, l’istruzione pubblica, la già flebile economia andata a picco per via delle minori rimesse degli albanesi residenti all’estero colpiti anch’essi dalla crisi. Insomma il cammino sarà più che mai in salita. Edi Rama ha il dovere principale di guadagnare la fiducia di tutto il popolo albanese ogni giorno con un lavoro instancabile e con una politica improntata sull’onestà. Così da far guadagnare all’Albania il giusto posto che merita in Europa. Ma non sarà affatto facile, pur essendo animato da nobili propositi e, guidare un Paese così piccolo ma così complesso come l’Albania, non è come fare il Sindaco di Tirana. L’artista (come viene chiamato Edi Rama dopo aver colorato i grigi e spenti agglomerati urbani della capitale) dovrà fare i conti con i suoi alleati, in primis Ilir Meta, esponente del LSI (Movimento Socialista per l’Integrazione) che, farà pesare i suoi 16 seggi conquistati.


 Ilir Meta
Molti si chiedono se Meta possa rappresentare l’ago della bilancia e se possa essere sfiorato, anche questa volta, da quella piaga insanabile che si chiama trasformismo. Il Movimento Socialista per l’Integrazione (una costola del partito socialista) è stato alleato del centro-destra di Berisha diventandone vicepremier ed è ricordato per esser stato, nel 2011, travolto da uno scandalo di tangenti e corruzione che avevano provocato anche insurrezioni popolari - sull’onda delle primavere arabe - presto sedate nel sangue. Ci si chiede se Meta possa essere un alleato affidabile per Edi Rama o se cambierà nuovamente schieramento politico. A mitigare l’entusiasmo per la vittoria dei socialisti c’è anche il fatto che i protagonisti del cambiamento “presunto” siano in fondo sempre gli stessi da decenni orsono. Per non parlare del fatto che, come ha annunciato lo stesso Edi Rama nel suo discorso dopo la vittoria, “tutti saranno chiamati a fare sacrifici” per sanare la disastrosa situazione economica ereditata dai precedenti governi dovuta principalmente a politiche clientelari. Insomma, molte speranze sono riposte in questo risultato elettorale quasi plebiscitario che ha decretato la fine di un sistema familiare, clientelare e corrotto, ma con la consapevolezza che non sarà facile e che ci vorrà molto tempo per scardinare i privilegi acquisiti ma soprattutto una mentalità che, a piccolissimi passi, si sta affrancando da categorie e sovrastrutture preconcette e da un modus operandi obsoleto.

venerdì 5 luglio 2013

Futuro: con o senza l’Arbëreshe?

di Anxhela Naka
Articolo pubblicato su "Albania NEWS"  il 4 Luglio 2013

Ci avete mai pensato a cosa fanno i bambini a quattro anni? Beh, a quattro anni si pettinano le bambole, si gioca con le macchinine, si va al parco giochi.Ed è cosi che un bel giorno, a quattro anni, ti dicono che presto partirai, andrai lontano, andrai in Italia.

Tu resti immobile, ferma, pensando a cosa significhi quella parola cosi strana, ‘ITALIA’, e poi inizi a immaginare, a fantasticare luoghi, paesaggi, e pensi che magari siano come li vedi nei cartoni, come il mondo delle fiabe, come le principesse, senza streghe cattive o brutti orchi. Alla fine hai capito che l’Italia sarà un altro mondo, ma chi l’avrebbe mai immaginato che in Italia si parlasse l’Albanese, o meglio l’Arbëreshe ?

Per “Arbëresh” s’intende il dialetto parlato oggi in alcune zone dell’Italia come Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, ecc. derivato dall’Albanese parlato cinquecento anni fa dai nostri antenati albanesi che, in fuga dalla dominazione ottomana, raggiunsero l’Italia e vi si stanziarono, mantenendo lingua e tradizioni del loro paese d’origine, l‘Albania.

URURI (Rùri in Arbëreshe) - provincia di Campobasso (Molise)
Anche qui a Ururi, il mio paese adottivo, si parla l’Arbëreshe. Ricordo che quando arrivai i primi giorni in Italia, non sapevo parlare l’italiano, e trovai molta difficoltà a interagire con i bambini dell’asilo che volevano fare amicizia. Le vicine di casa invece, che erano un po’ più anziane, mi parlavano in una ‘lingua’ che assomigliava alla mia! Potete immaginare la sorpresa di una bambina di 4 anni, in un Paese straniero nel sentir parlare una lingua simile alla propria.                                                                                                                                                                                                             Dovrei sentirmi onorata,  lusingata di sentir parlare ancora di questa lingua, non pensate? Ed è cosi, infatti.
Di solito nei musei si conservano antiche statue, gioielli, mummie, papiri, oggetti di valore, pietre preziose e molto altro. I musei servono a conservare. ‘CONSERVARE’ questo termine ha un significato particolare. Conservare vuol dire proteggere, proteggere da qualsiasi cosa, da qualsiasi fattore, e non per forza meteorologico. Anzi forse un legame con il tempo ce l’ha, sì, ma non con le previsioni. Il tempo. Il tempo passa per tutti, anzi per tutto. Cosi com’è passato per le mummie esposte al museo. Chi di voi non ha mai avuto la curiosità di sapere quanti anni avesse quella mummia? E chi di voi non è rimasto a bocca aperta nel sentire quel numero pronunciato dalla guida?
Bene, se quel tempo così lungo vi ha provocato uno stupore del genere perché non dovrebbe farlo anche il tempo di una lingua? Cinquecento anni. Una lingua parlata in un altro Paese. Sopravvissuta in un altro Paese. Come minimo deve essere stata conservata da cinque generazioni. Cinque generazioni che in questo caso hanno fatto da museo. L’hanno conservata e coltivata ogni giorno, nonostante esistesse una lingua ufficiale, ed è per questo che oggi ne sentiamo ancora parlare. Ma come tutte le cose belle prima o poi finiscono, è successo anche nel nostro caso. L’Arbëreshe sta scomparendo. Ebbene sì. I giovani non la parlano più e la catena sta per spezzarsi. Avete di sicuro sentito la famosa frase ‘I giovani sono il futuro’ oppure ‘I giovani sono la nostra speranza’, frasi molto ricorrenti, forse sembreranno anche frasi fatte, ma hanno il loro fondo di verità. E’ tutto nelle mani dei giovani, nelle nostre mani. Dobbiamo essere noi a decidere se essere un piccolo museo oppure seppellire con le nostre mani questa lingua. Seppellire la lingua che i nostri antenati hanno mantenuto integra per secoli. Dobbiamo essere noi a decidere se identificarci o no in quegli antenati, dobbiamo decidere chi essere. Possiamo scegliere di lasciarci il nostro passato alle spalle, o di imparare dal passato per migliorare il nostro presente. Ma come si fa a chiudere con il proprio passato? La Storia stessa ci insegna a ricordare, o meglio, ci da la possibilità di ricordare, di capire, di imparare dai nostri errori. Perché è solo conoscendoci che possiamo essere liberi.
Anch’io faccio parte di quei giovani, ognuno fa parte di quei giovani e nessuno deve pensare di essere piccolo e insignificante, perché se è vero che l’unione fa la forza, noi  siamo la forza.
Trovandomi tra due terre, tra due culture, essendo un albanese che vive in Italia, magari sarò anche un po’ di parte per la sopravvivenza dell’Arbëreshe; è importante per me e lo spero con tutto il cuore.
Non possiamo prevedere il futuro, ma possiamo avviare un processo per migliorarlo. E chissà se un giorno i nostri nipoti o pronipoti troveranno un vecchio libricino che parlerà di una lingua antica parlata anni fa, o magari, un giorno, i nostri nipoti parleranno quella lingua, la lingua dei loro antenati, NOI.

RURI, HORË ARBËRESHË

Horë e bukur mbë kolin
ktu ku u’ kam shtepin,
ku sërriten burrat e dheut
“jemi niprat e Skanderbeut”.

Arbëresh po i sërritën
që kur lurën Arbërinë,
përmes tumpestës shkovën
dhe ktu vurën shtëpin.

Si guarrier, si contadin
ngritën horën gur mbë gur,
e ruovën si gjë e shtreint
dhe e pagzovën Rur.

Mbi çdo gur nje pikez lot
mbi çdo lot nje lule çeli,
dhe kur zgjohëshën menat
varejen ka ha lei dielli.

Po p’atej nga vijën burrat
bëji sembu mot i lig,
bi te shkovën pesqind vjet
pë të dukëshi pakëz dritë.

Të mos harrojën kaha vijën
gjithë ndër to sërriteshin gjiri,
thojën bukë, thojën ujë
thojën prag, thojën shtëpi.

Mëma birit i mësoj
gjuhën kurr të mos harroj,
i tha: “Bir, ku do të vesh
mos harro se je Arbëreshë!”

Dhe kur larg horës shkoven
të kërkojen ca lavur,
qevën mbiçet, qeven kurmin
ma zëmrën e lurën Rur.

URURI, PAESE ARBËRESH

Bel paese su una collina,
qui dove io abito,
dove dicono gli uomini della terra
“ siamo figli di Skanderbeg”.

Arbëreshë li hanno sempre chiamati
da quando lasciarono l’Arbërinë,
la tempesta attraversarono
e qui costruirono la casa.

Come guerrieri, come contadini
costruirono il paese pietra dopo pietra,
lo difesero come cosa preziosa
e lo chiamarono Ururi.

Sopra ogni pietra una lacrima
sopra una lacrima un fiore sbocciò,
e quando si svegliavano al mattino
guardavano dove sorgeva il sole.

Ma da dove venivano gli uomini
faceva sempre brutto tempo,
dovettero passare cinquecento anni
per vedere un po’ di luce.

Per non dimenticare da dove provenivano
Tutti tra di loro si chiamavano parenti,
dicevano pane, dicevano acqua,
dicevano uscio, dicevano casa.

La madre al figlio insegnò
di non scordare mai la lingua,
gli disse: “ Figlio, dovunque tu vada
non dimenticare mai che sei Arbëresh!”

Anche quando andavano lontano dal paese
per cercare un po’ di lavoro,
hanno portato i panni, hanno portato il corpo
ma il cuore l’hanno lasciato a Ururi