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sabato 21 gennaio 2012

Luci e colori di Michele Greco da Valona

di Fernanda Pugliese

Sono i colori della bellezza e della luce, le icone di Michele Greco da Valona, testimonianza unica ed inequivocabile della storia e della presenza degli arbëreshë nel Molise nel 1500. I trittici ( tre ) e l'icona dell'Assunta, sono nella Chiesa di Santa Maria Maggiore a Guglionesi. Un quarto trittico detto " cona di mare" è invece nella Chiesa di San Giuseppe a Vasto. 
Tra i capolavori di Guglionesi, il trittico della Madonna con Bambino tra i Santi Pietro e Paolo, era stato dipinto per la Chiesa di San Pietro, non più esistente, dove celebravano il rito greco-bizantino gli albanesi ivi dimoranti, che poi furono mandati, dall'Università, a ripopolare il diruto casale di Montecilfone.





lunedì 16 gennaio 2012

I calzini di Skanderbeg: dissertazione semiseria sull’eroe dei due mondi


A 544 anni dalla morte dell’Eroe albanese, riproponiamo nel nostro blog “I calzini di Skanderbeg”, l’articolo della Prof.ssa Anna Maria Ragno, già comparso su Albanianews.it il 9 Dicembre 2011.

L’eroe albanese non indossava certo calzini ai tempi delle sue lotte contro i Turchi e contro gli Angioini, ma sarebbe importante capire cosa c’è “sotto” al mito del primo eroe dei due mondi.
 Pur consapevoli del fatto che intorno alla figura del grande condottiero di Croia è stata costruita l’identità nazionale albanese ed arberëshë, vogliamo proporre una rilettura semiseria del suo mito. Ma di quale mito stiamo parlando? 
I calzini di Skanderbeg: dissertazione semiseria sull’eroe dei due mondi
I calzini di Skanderbeg
Quello di Skanderbeg è sicuramente un mito di fondazione. Come tale, esso rientra in quell'insieme di pratiche e di conoscenze, che formano i modelli culturali della società Arbëreshë, svolgendo una funzione di trasmissione dei valori e delle norme, di istituzionalizzazione dei ruoli, di riconoscimento dell’identità, di mantenimento della coesione sociale.
Molto probabilmente, la mitizzazione dell’eroe albanese, va fatta risalire al periodo successivo alla prima grande diaspora del popolo albanese, risalente al XV secolo. Il motivo risiedeva nella necessità di compensare la fragilità identitaria dei primi profughi albanesi, giunti in Italia come “esuli” ed “ospiti”, ma divenuti ben presto “mercenari”, disposti a combattere al soldo degli Aragonesi, e “contadini”, disposti a colonizzare nuovamente le terre più povere del Meridione d’Italia, colpite da carestie e terremoti. 
Fragilità identitaria, dicevamo, causata anche dalla sostanziale impossibilità di affermare, sia pure parzialmente, la propria autonomia, sia sul piano politico che culturale. Gli Italo-Albanesi, infatti non hanno mai avuto la possibilità di stanziarsi in un unico territorio e di avere una capitale: sono sempre stati “sparsi” nelle zone più impervie del Regno di Napoli e “sangue sparso” si definiscono ancora oggi, in quanto consapevoli di essere uno dei popoli più dispersi della Terra. 
Fragilità identitaria, ancora, causata da una assoluta mancanza di interazione con la madrepatria, che in quel momento era più che mai allo sbando, a causa dell’invasione turca. Così è stato fino all’esodo del 1991, seguito al crollo del comunismo, e all’arrivo della nave Vlora, con ventimila Albanesi a bordo.

Carmine Abata
Carmine Abate: " Vivere per addizione"

Per queste ed altre ragioni, gli Italo-Albanesi hanno dovuto definire e ridefinire continuamente se stessi, in relazione ed opposizione sia alla cultura maggioritaria (italiana), che a quella originaria (albanese), diventando Arbëreshë. Oggi, dopo cinque secoli, essi non possono definirsi  né ancora
 Albanesi, né solamente Italiani. Ne è nato il gioco della doppia identità, per cui gli Arbëreshë - come dice anche Carmine Abate (l’autore della Moto di Skanderbeg) nel suo nuovo romanzo Vivere per addizione - all’identità italiana per “addizione”, hanno sommato quella albanese. 
L’io Arbëreshë è stato costruito attraverso il gioco dell’alterità e dell’opposizione io/voi: “Io sono Italiano e sono Albanese”, dicono gli Arbëreshë. Chiedo: “Allora anche io sono Arbëreshë?” . “No, tu sei solo Italiana”, rispondono. Il gioco funziona così: ogni Arbëreshë definisce la propria identità in relazione all’altro da sé, facendo ricorso ad un passato miticamente appagante, rappresentato dall’eroe fondatore Giorgio Castriota Skanderbeg. 
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L'elmo di Skanderbeg - Museo di Vienna
 Questo è il motivo per cui la statua dell’eroe, quale simbolo totemico della propria etnicità,  è collocata nella piazza principale di ogni paese Arbëreshë, e per cui ogni Arbëreshë cercherà di vedere la mitica spada e il leggendario elmodell’eroe dei due mondi, presso il Museo Kunsthistorisches di Vienna, o di visitare la sua tomba ad Alessio, in Albania. La spada e l’elmo compendiano sempre le gesta del “nobile Alessandro”. Perché? Cosa c’è sotto, o per così dire… come erano i calzini di Skanderbeg?
Le leggende che ce lo descrivono sono molteplici. In tutte è di alta statura, possente, invincibile, tale da incutere paura e sgomento tra i nemici, che certamente non erano da sottovalutare. Una di queste narra che in punto di morte Skanderbeg, preoccupato per la sorte dei suoi uomini e della sua famiglia, abbia chiesto al figlio Gjon di rifugiarsi con la sua gente in Italia, dove avrebbe trovato protezione presso il papato e i principi aragonesi per i quali si era battuto. Skanderbeg, infatti  era venuto a Roma, non soltanto per sollecitare aiuti per la difesa dell’Albania, ma perché il papa Pio II pensava di organizzare una crociata contro i Turchi e affidargli il comando. 
ScanderbegEgli mise in guardia il figlio Gjon contro l’inarrestabile pericolo turco e gli predisse che al suo arrivo al di là dell’Adriatico, avrebbe trovato sulla spiaggia un albero. A questo albero avrebbe potuto legare il suo cavallo e la sua spada, in modo tale che al minimo soffio del vento, i Turchi avrebbero udito ancora ruotare nell’aria la spada di Skanderbeg e nitrire il suo cavallo. Ciò avrebbe scatenato un enorme terrore fra i suoi acerrimi nemici, che si sarebbero guardati bene dall’inseguire il popolo albanese fino in Italia. 

Queste armature hanno in sé un grande valore archetipale, che costituisce un riferimento costante per ogni Albanese e per ogni Arbëreshë: il richiamo alla forza, al coraggio, a quei valori cioè, che costituiscono i capisaldi della propria identità collettiva. Eppure in Skanderbeg vivono qualità opposte: il coraggio, l’astuzia, la fedeltà alle proprie origini; ma anche la tragicità, il senso della sconfitta e persino la violenza, che a volte diveniva bruta, vendetta (besa) e tracotanza. Perché in questo mito si riconoscono tanto gli Albanesi che gli Arbëreshë? E come? 
Il mito di Skanderbeg nasce in un mondo arcaico, che nulla ha a che vedere con quello della condizione umana. La sua continua riattualizzazione permette di creare una realtà virtuale, distante dalla realtà sociale, ma, nel contempo, interagente con essa, che consente, tanto agli Albanesi quanto agli Arbëreshë, di chiudersi in un tempo ciclico in cui tutto si ripete continuamente, consentendo quell’ autocelebrazione mitica di sé, che spesso scade nell’esaltazione autoreferenziale. 
Quello che è sicuro è che il mito di Skanderbeg costituisce la prova documentale dell’antica origine macedone degli Albanesi. Il suo nome, infatti, rappresenta la garanzia di una origine storica indiscutibile; la certificazione di una continuità nella storia della razza albanese, dalle remote fasi della storia balcanica, sino all’arrivo dei primi Albanesi in Italia, dove sono diventati Arbëreshë. Ancora oggi la memoria collettiva si serve del nome di Skanderbeg per rivendicare l’unità di sangue di uno dei popoli più diasporizzati della Terra. 
Molti Albanesi hanno dovuto ripercorrere il viaggio del primo eroe dei due mondi e rivivere la sua stessa condizione, capendo che quando egli partì dall’Albania, aveva solo il suo onore, un elmo, una spada e… un paio di calzini.

•    ABATE C., Vivere per addizione, Mondadori, 2010
•    BARLETI M., Historia de vita et rebus gestis Scanderbegi Epirotarum principis, Roma, 1508-1510
•    DI MICELI F., Identità e auto identità albanese. Il mito di Skanderbeg, Conferenza tenuta a Palermo il 29 marzo 2007. Pubblicata in Il mito in Sicilia, Carlo Saladino Editore, Palermo, 2007
•    ELIADE M., Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino, 1954, ried. Bollato Boringhieri, Torini, 1999

Nota: Ringrazio vivamente Rossella De Rosa per aver infilato i calzini a Skanderbeg... e realizzato il fotomontaggio.

giovedì 12 gennaio 2012

L'approdo. Opera all'Umanità Migrante



di Anna Maria Ragno


Nell’ambito del progetto artistico "L'Approdo. Opera all'Umanità Migrante", otto giovani artisti hanno accolto la sfida di trasformare la motovedetta albanese Kater I Rades in un'opera d'arte dedicata ai dispersi per mare durante le migrazioni.

Lo scafo arrugginito della Kater-I-Rades
Il workshop internazionale d'arte contemporanea è stato organizzato dalla cooperativa Artemisia, in collaborazione con la Biennale dei Giovani Artisti d'Europa e del Mediterraneo e coordinato dallo scultore greco Costas Varotsos. Alla conferenza stampa, tenutasi ad Otranto il 29 dicembre scorso, era presente anche lo scrittore Alessandro Leogrande, autore del saggio “Il Naufragio. Morte nel Mediterraneo”. Nel corso dei dieci giorni del workshop sono stati ideati e realizzati otto opere d’arte,  utilizzando materiali e linguaggi diversi, dalla pietra al legno, dallo specchio al gesso, dalla luce al suono alla fotografia. 

Gli artisti Arta Ngucaj e Arben Beqiraj (Scaf.Scaf), in rappresentanza dell’Albania, hanno interpretato il desiderio dei familiari delle vittime di partecipare attivamente al progetto promosso dal Comune di Otranto, fornendo le immagini dei volti delle vittime.

L’artista italiana Raffaela Zizzari, ha eretto i remi a simbolo degli approdi che da vent'anni si verificano sulla costa salentina. Venti remi tutti diversi, appositamente prestati per l'occasione dai pescatori di Otranto e Gallipoli. Venti remi come gli anni passati dai primi sbarchi. Remi come uomini appena sbarcati, per ricordare quanti un remo, o uno scoglio a cui aggrapparsi non l'hanno trovato. 


VIDEO CORRELATO:




Anna Stratigò e Checco Pallone: Oj ebukura more Teatro Alhambra di Ginevra




                                


"Fuga da la morea” è il titolo originale della leggenda dalla quale deriva il canto meglio conosciuto come Oj ebukura more (O mia bella Morea). E’ una poesia a rime baciate.
Il testo è uno dei tanti contenuti nel libro (archivio personale) Canti popolari albanesi di Demetrio De Grazia pubblicato nel 1889 dalla tipografia Zammit di Noto e scritto solo in lingua italiana. 
L’autore di questa melodia è sconosciuto e non esiste partitura musicale: un tempo chi componeva molto spesso non sapeva scrivere la musica e la canzone si tramandava solo oralmente senza essere documentata e depositata. Possiamo chiamarla canzone d’autore sconosciuto.
L’antico canto Oj ebukura more è quello della diaspora albanese e viene eseguito sia nelle comunità arbëreshё d´Italia che in Albania. I contesti dove si canta sono diversi : concerti, feste popolari, tra amici: è una canzone che trasmette emozioni e ricordi da secoli.
Testo originale della leggenda

Aveva un duce Un prigionier ed era truce ed era altier.
Nessun favella muovergli osò, solo una bella sì gli parlò:
-Signor, tu vuoi meco veder, quale di noi Val più nel ber?
O l’uom legato a me darai ,O il ricamato mio letto avrai.
-Egli alla cara graziosa gara Acconsentì:
Essa le astute Serve sapute tosto ammonì:
-.Al cane turco, o vergini quando il vin verserete si dee la coppa empir:
Ma non il mio bicchiere ove col vin dovete un poco d’acqua unir.
-E arrossita , sorridendo,tolse un po’ di bianca neve
E il bicchier di vin prendendo quivi dentro la lasciò
pien di gioia ei beve beve, poscia al sonno s’inchinò.
La donzella dà l’armi al prigione, ed i ceppi a spezzar l’aiuta;
Poi su nave dal vento battuta, fugge e approda ad un lido lontan.
Ma su terra straniera discesa, come statua rimase e piangea
volta al mar:- O mia bella morea,ho desio di vederti, ma invan
Vi ho la mia signora madre, ivi è il mio fratello amato,
vi è sepolto il mio buon padre, che mi crebbe alla virtù:
Da quel di che t’ho lasciato, Te, Morea, non ti vidi più.

Riassunto della leggenda
Aveva un duce preso un prigioniero e nessuno osava parlargli tranne una giovane fanciulla albanese che lo invita a fare una scommessa e cioè chi tra lei e lui beve più vino. Lei scommetteva il suo letto ricamato con serpenti di seta e lui il prigioniero..Lei al posto del vino nel bicchiere chiese alle serve (complici) di versargli la neve bianca e fece finta di essere ubriaca fino a quando il duce, veramente ubriaco, si addormentò. Allora la fanciulla prese il prigioniero e con lui s’imbarcò per fuggire, ma appena arrivò sulla sponda della terra straniera, canto’

Testo in Italiano (originale del testo di De Grazia)
O mia bella morea, ho desio di vederti ma invan
Quivi ho la signora madre, quivi ho mio fratello 
Quivi ho il signor padre, coperto sotto terra.
O mia bella Morea, come t’ho lasciato /più non ti vidi.

Testo in arbёresh (parlata di Lungro)
Oj ebukura More /si tё lee /u mё nëng tё pee
Atje kam u zotin tatё /atje kam u zonjen mёmё
atje kam edhè tim vёlla /gjithë mbuluarë ndën dhe!

(Anna Stratigò)


mercoledì 11 gennaio 2012

SILVANA LICURSI, Il Natale dei Migranti





Il mio sangue è rosso come il tuo,
se mi spari muoio anche io
in mezzo alla strada, a Firenze,
cadavere senza vita,
tomba senza lapide, 
indifferenza senza speranza.
Io sono il Cristo dei Migranti,
che galleggia sull'acqua,


dopo lo speronamento del Kater I Rades;
il senegalese che raccoglie i pomodori a Foggia,
a tre euro all'ora;
l'egiziano che muore a Piazza Tahrir.

Il mio sangue è rosso come il tuo
e le mie lacrime pure,
ma in Senegal, nel mio Paese,
la parola "straniero" non esiste:
si dice Gan per dire Ospite, 
per chimarti Amico.

(Anna Maria Ragno)

martedì 10 gennaio 2012

La Leggenda di Rozafat, la Burrnesh e la Brigantessa


di Anna Maria Ragno


“L’amore di una madre per i figli non può nemmeno essere compreso dagli uomini [...] Con donne simili una nazione non può morire.”   Giuseppe Garibaldi



La leggenda di Rozafa e del castello di Scutari è una delle più antiche dell’Albania. Racconta di tre fratelli impegnati nella costruzione delle mura della fortezza. Durante la notte, il lavoro eseguito nella giornata crollava. Un vecchio saggio, che si trovò a passare di lì, disse loro che le mura, per essere forti e solide, necessitavano del sacrificio di una delle loro mogli. La scelta della moglie doveva avvenire casualmente, cosicché i tre fratelli giurarono di non dire niente alle proprie mogli  e che sarebbe stata immolata per il bene della comunità, colei che l’indomani sarebbe giunta con il pranzo. Il giuramento di assoluto silenzio venne infranto da due dei tre fratelli, che raccontarono tutto alle rispettive mogli. Fu così che l’indomani toccò portare il pranzo a Rozafa, moglie del più giovane dei fratelli e madre di un bambino. Le venne raccontato quanto il vecchio saggio aveva detto e il giuramento che era stato fatto fra di loro. La giovane accettò di farsi murare viva all'interno delle mura, ma pose la condizione che rimanessero scoperti un braccio per poter cullare il proprio bambino, una mammella per poterlo allattare, una gamba per poterlo cullare e un occhio per poterlo vedere. 
Rozafa è un mito di passaggio, che vede l’opposizione fra due generazioni, fra il vecchio e il nuovo, rappresentato dall’età dei tre fratelli, durante la costruzione del Castello di Scutari, che storicamente è avvenuta nel XIII secolo. Come in tutti i miti, fatti storici e fatti leggendari si confondono e si mescolano, ma una cosa rimane: il sacrificio di sé per il proprio bambino, quei gesti d’amore che solo una madre sa fare. In una prospettiva più ampia, questa leggenda rimanda  al sacrificio di sé per la propria stirpe, durante la costruzione del castello-Albania. Un processo che, come sappiamo, è stato lunghissimo e che, in un certo senso, non si è ancora pienamente concluso, con la democratizzazione dell’Albania.
Nella società albanese esiste un’altra figura femminile, emblematica di un mondo arcaico ancora legato alla famiglia patriarcale e al Kanun: la Burrnesh o Vergine giurata (Virgjinat e bitume in albanese). Secondo il codice di onore di Lekë Dukagjini, infatti, la donna ha la possibilità di proclamarsi uomo e di acquisire tutti i diritti, che il codice riservava esclusivamente agli uomini. La pratica sopravvive da trecento anni, anche se i casi di "Vergini giurate" moderne sono pochi (30-40 al massimo) e limitati ad Albania, Kosovo, Serbia e Montenegro. 
In questi casi la sessualità non conta, viene completamente soppressa in funzione del mantenimento dei valori della famiglia patriarcale e della trasmissione della proprietà, non consentita alle donne. Le donne, infatti, nella società albanese ancora oggi non ereditano la terra, perdono il proprio cognome quando si sposano, e vanno a vivere presso la famiglia del marito. Sottostanno quindi alla norma della residenza virilocale (la residenza viene stabilita presso la casa paterna del marito), la proprietà rimane indivisa nel caso in cui i fratelli lavorino e conducano ancora vita comune nella grande shpi (casa) patriarcale. Per gli Arbereshe questa è la norma della frëreshe, per i Croati del Molise è la norma della zadruga: la proprietà rimane indivisa, i mezzi di produzione rimangono in comune. 
In questa società segmentaria, basata su di una organizzazione piramidale, la donna è esclusa dall’asse ereditario, perché non trasmette la discendenza ai propri figli: “La legge riconosce per erede il figlio e non la figlia (art 36, comma 88 del Kanun)”, “La donna non eredita né dai parenti né dal marito” (art. 36, comma 91). La funzione attribuita dal Kanun alla donna, la assimila ad un “otre, fatta per sopportare pesi e fatiche” (art. 29). In tale contesto, la donna per “compensare” la famiglia della morte di un padre o dell’assenza di un capofamiglia di sesso maschile, diventa burrnesh. Dice l’antropologa Antonia Young nel suo Women who become men, scritto mirabile su vite e costumi delle vergini giurate. «La conversione avviene soprattutto in mancanza di maschi in famiglia. Una ragazza diventa uomo per ereditare le proprietà familiari che altrimenti non avrebbe potuto avere. Ma la conversione avviene anche in memoria di un padre morto presto o di un fratello». 
 Anche Hana, la protagonista del romanzo della scrittrice albanese Elvira Dones (Vergine giurate, Feltrinelli 2008), decide di compiere questo passo fatale per l’affetto nei confronti di uno zio, gravemente ammalato, che l’ha cresciuta come un padre, dopo che essa è rimasta orfana di entrambi i genitori. Un atto d'amore e di gratitudine che assume i tratti di uno spaventoso olocausto di sé, dopo il rifiuto di accettare un matrimonio combinato e la sottomissione al volere maschile. Hana pensa che l’unico modo per risolvere i suoi problemi sia cambiare il suo sesso sociale, diventando una burrnesh. «Nulla di strano» - racconta l’antropologo albanese Moikom Zego -  « la nostra è una terra di magici travestimenti. In qualche villaggio dopo la nascita di un figlio l’uomo si finge madre e accoglie gli ospiti sdraiato nel letto. Vestito da donna».

Video:http://www.youtube.com/watch?v=-aMaI91lA-M 


Quello che la Vergine giurata compie è quindi il sacrificio totale di sé per la famiglia, che assume la connotazione di un atto di amore estremo per il mantenimento dei valori familiari. Anche la sessualità è funzionale a questi valori, e laddove serva il maschio si produce in un certo senso il maschio o una donna ne assume lo status sociale, diventando burrnesh. Hana non è l’espressione di un mondo arcaico, il riflesso del primitivismo dell’ultima regione tribale europea, come la definisce l’antropologo Stahl l’area balcanica composta dall’Albania settentrionale, dalla Macedonia e dal Montenero . La sua figura, e in un certo senso la sua funzione sociale e affettiva, è vicina a quella delle tante zie, che nel Meridione d’Italia dedicano la propria vita alla famiglia del fratello o della sorella. Chi non ha una zia Marietta nella propria famiglia? Sono persone devote, totalmente dedite alla preghiera e alla famiglia, paterna o materna che sia: madri putative dei figli delle sorella;  sostegno morale ( e certe volte anche  economico) della famiglia del fratello; figlie devote che dedicano la propria vita all’assistenza dei genitori anziani; perpetue instancabili del fratello celibe o prete. Persone che si scusano sempre di esistere, trasparenti e silenziose, vere colonne portanti della famiglia meridionale, dei suoi saperi e dei suoi valori, certe volte fino al familismo, al totale sacrificio di sé in nome della famiglia altrui.
La figura della Brigantessa rimanda al contributo degli Arbereshe al Risorgimento (1860-70), ma soprattutto al sacrificio di sé per amore. Secondo lo storico Giordano Bruno Guerri, che si auspica una profonda opera di revisione storiografica del Risorgimento, «queste donne combattevano anche per amore, per stare con i loro uomini». Sono donne come l’arbereshe Maria Oliverio, detta Ciccilla, capace di uccidere la sorella Concetta, amante del brigante Pietro Monaco, con 48 colpi di scure, per seguirlo e diventare brigantessa e capobanda come lui. Si trattava di «partigiane ante litteram, antesignane di un femminismo istintivo e rabbioso, ribelli stanche di essere confinate – da sempre – al letto, al focolare e ai figli» (G. Bruno Guerri).  Donne capaci di capovolgere ogni luogo comune, di infrangere ogni regola, per vivere la propria passione amorosa fino all’estremo, fino alla morte. Donne che comunque furono interpreti del proprio tempo, di quell’Italia preunitaria, annichilita tanto dall’invasione delle camicie rosse di Garibaldi, quanto dall’invasione dell’esercito blu dei Savoia: "Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti", così scrisse l’italo-albanese Antonio Gramsci nel 1920 in "Ordine Nuovo". Quello che i Piemontesi non capirono è che il Meridione poteva essere Italia senza diventare terra di conquista.
A Montecilfone, in provincia di Campobasso, in Molise, ancora si raccontano queste storie , anzi si cantano. Silvana Licursi ha raccolto questi canti come le perle di una collana, che l’amica Rossella De Rosa, con i suoi montaggi video, sta rinfilando una per una su di un filo di seta. Dice la Cantantessa di Portocannone “Donna Tommasina è la storia di una donna giovane, bella e ricca che si innamora del giovane brigante che l'ha rapita. Moriranno insieme, uccisi dai soldati, ma prima di morire si saranno molto amati e lei avrà molto ballato! E' una storia un po' vera, un po' leggendaria di "Amore e Morte, ma -innanzi tutto- di violenta infrazione di regole rassicuranti e opprimenti, di capovolgimento dei luoghi comuni come solo la passione d'amore sa fare. Purtroppo il prezzo è altissimo, ancora oggi.” 

Il canto è eseguito “a cappella”, senza l’accompagnamento di strumenti. Anche questo fa storia.



P.S.  Zia Marietta è contenta di non essere stata citata alla fine dell’articolo e, come è nel suo stile, non fa capolino neanche nelle conclusioni. Lei pensa che la sua figura non possa essere accostata a donne così importanti come Rozafa, Donna Tommasina e Hana, ma la vera eroina della poetica del nostro quotidiano è lei, così silenziosa ed essenziale.

Bibliografia
Del Boca Angelo, Italiani, brava gente?, Ed. Neri Pozza, 2005
Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Mondadori, Milano, 2010
Giordano Bruno Guerri, Il bosco nel cuore, Lotte e amori delle brigantesse che difesero il sud, Mondadori Milano 2011
Stahl. P.H., Se stessi e gli altri (alcuni esempi balcanici) in Lévi Strauss (a cura di), L’identità, Sellerio ed. Palermo, 1986, pag. 271-285
Stahl. P.H, Terra, Società, Miti nei Balcani, Rubettino editore, Soveria Mannelli, Messina, 1993

lunedì 9 gennaio 2012

KAMASTRA: Cibo e Codici Culturali







CIBO e CODICI CULTURALI a MONTECILFONE, TG3 Settimanale Molise.

Servizio di ENZO RAGONE e FRANCESCO SALATI








SILVANA LICURSI : Qifti





IL FALCO
Era un giorno
del mese di maggio
con poco sole"
e niente vento.
Ho alzato gli occhi, 
su, verso il cielo,
ho visto il falco
che parlava la nostra lingua.

Era un giorno
del mese di maggio
con poco sole
e niente vento.
C'era una violetta
 molto graziosa:
ho teso la mano
e l'ho colta con gioia.

E quando sono giunto
sulla soglia di casa
mia madre mi ha chiesto:
"Che fiore è questo?"
"E' una violetta
molto graziosa:
ho teso la mano
e l'ho colta con gioia."

Tu rosa, 
tu fiore novello, 
che mi appartieni
tutti lo sanno.
Ora che t'hanno vista
questi miei occhi,
nessun altro
osi avvicinarti.