A 544 anni dalla morte dell’Eroe albanese, riproponiamo nel nostro blog “I calzini di Skanderbeg”, l’articolo della Prof.ssa Anna Maria Ragno, già comparso su Albanianews.it il 9 Dicembre 2011.
L’eroe albanese non indossava certo calzini ai tempi delle sue lotte contro i Turchi e contro gli Angioini, ma sarebbe importante capire cosa c’è “sotto” al mito del primo eroe dei due mondi.
Pur consapevoli del fatto che intorno alla figura del grande condottiero di Croia è stata costruita l’identità nazionale albanese ed arberëshë, vogliamo proporre una rilettura semiseria del suo mito. Ma di quale mito stiamo parlando?
I calzini di Skanderbeg |
Quello di Skanderbeg è sicuramente un mito di fondazione. Come tale, esso rientra in quell'insieme di pratiche e di conoscenze, che formano i modelli culturali della società Arbëreshë, svolgendo una funzione di trasmissione dei valori e delle norme, di istituzionalizzazione dei ruoli, di riconoscimento dell’identità, di mantenimento della coesione sociale.
Molto probabilmente, la mitizzazione dell’eroe albanese, va fatta risalire al periodo successivo alla prima grande diaspora del popolo albanese, risalente al XV secolo. Il motivo risiedeva nella necessità di compensare la fragilità identitaria dei primi profughi albanesi, giunti in Italia come “esuli” ed “ospiti”, ma divenuti ben presto “mercenari”, disposti a combattere al soldo degli Aragonesi, e “contadini”, disposti a colonizzare nuovamente le terre più povere del Meridione d’Italia, colpite da carestie e terremoti.
Fragilità identitaria, dicevamo, causata anche dalla sostanziale impossibilità di affermare, sia pure parzialmente, la propria autonomia, sia sul piano politico che culturale. Gli Italo-Albanesi, infatti non hanno mai avuto la possibilità di stanziarsi in un unico territorio e di avere una capitale: sono sempre stati “sparsi” nelle zone più impervie del Regno di Napoli e “sangue sparso” si definiscono ancora oggi, in quanto consapevoli di essere uno dei popoli più dispersi della Terra.
Fragilità identitaria, ancora, causata da una assoluta mancanza di interazione con la madrepatria, che in quel momento era più che mai allo sbando, a causa dell’invasione turca. Così è stato fino all’esodo del 1991, seguito al crollo del comunismo, e all’arrivo della nave Vlora, con ventimila Albanesi a bordo.
Carmine Abate: " Vivere per addizione" |
Per queste ed altre ragioni, gli Italo-Albanesi hanno dovuto definire e ridefinire continuamente se stessi, in relazione ed opposizione sia alla cultura maggioritaria (italiana), che a quella originaria (albanese), diventando Arbëreshë. Oggi, dopo cinque secoli, essi non possono definirsi né ancora
Albanesi, né solamente Italiani. Ne è nato il gioco della doppia identità, per cui gli Arbëreshë - come dice anche Carmine Abate (l’autore della Moto di Skanderbeg) nel suo nuovo romanzo Vivere per addizione - all’identità italiana per “addizione”, hanno sommato quella albanese.
L’io Arbëreshë è stato costruito attraverso il gioco dell’alterità e dell’opposizione io/voi: “Io sono Italiano e sono Albanese”, dicono gli Arbëreshë. Chiedo: “Allora anche io sono Arbëreshë?” . “No, tu sei solo Italiana”, rispondono. Il gioco funziona così: ogni Arbëreshë definisce la propria identità in relazione all’altro da sé, facendo ricorso ad un passato miticamente appagante, rappresentato dall’eroe fondatore Giorgio Castriota Skanderbeg.
L'elmo di Skanderbeg - Museo di Vienna |
Questo è il motivo per cui la statua dell’eroe, quale simbolo totemico della propria etnicità, è collocata nella piazza principale di ogni paese Arbëreshë, e per cui ogni Arbëreshë cercherà di vedere la mitica spada e il leggendario elmodell’eroe dei due mondi, presso il Museo Kunsthistorisches di Vienna, o di visitare la sua tomba ad Alessio, in Albania. La spada e l’elmo compendiano sempre le gesta del “nobile Alessandro”. Perché? Cosa c’è sotto, o per così dire… come erano i calzini di Skanderbeg?
Le leggende che ce lo descrivono sono molteplici. In tutte è di alta statura, possente, invincibile, tale da incutere paura e sgomento tra i nemici, che certamente non erano da sottovalutare. Una di queste narra che in punto di morte Skanderbeg, preoccupato per la sorte dei suoi uomini e della sua famiglia, abbia chiesto al figlio Gjon di rifugiarsi con la sua gente in Italia, dove avrebbe trovato protezione presso il papato e i principi aragonesi per i quali si era battuto. Skanderbeg, infatti era venuto a Roma, non soltanto per sollecitare aiuti per la difesa dell’Albania, ma perché il papa Pio II pensava di organizzare una crociata contro i Turchi e affidargli il comando.
Egli mise in guardia il figlio Gjon contro l’inarrestabile pericolo turco e gli predisse che al suo arrivo al di là dell’Adriatico, avrebbe trovato sulla spiaggia un albero. A questo albero avrebbe potuto legare il suo cavallo e la sua spada, in modo tale che al minimo soffio del vento, i Turchi avrebbero udito ancora ruotare nell’aria la spada di Skanderbeg e nitrire il suo cavallo. Ciò avrebbe scatenato un enorme terrore fra i suoi acerrimi nemici, che si sarebbero guardati bene dall’inseguire il popolo albanese fino in Italia.
Queste armature hanno in sé un grande valore archetipale, che costituisce un riferimento costante per ogni Albanese e per ogni Arbëreshë: il richiamo alla forza, al coraggio, a quei valori cioè, che costituiscono i capisaldi della propria identità collettiva. Eppure in Skanderbeg vivono qualità opposte: il coraggio, l’astuzia, la fedeltà alle proprie origini; ma anche la tragicità, il senso della sconfitta e persino la violenza, che a volte diveniva bruta, vendetta (besa) e tracotanza. Perché in questo mito si riconoscono tanto gli Albanesi che gli Arbëreshë? E come?
Il mito di Skanderbeg nasce in un mondo arcaico, che nulla ha a che vedere con quello della condizione umana. La sua continua riattualizzazione permette di creare una realtà virtuale, distante dalla realtà sociale, ma, nel contempo, interagente con essa, che consente, tanto agli Albanesi quanto agli Arbëreshë, di chiudersi in un tempo ciclico in cui tutto si ripete continuamente, consentendo quell’ autocelebrazione mitica di sé, che spesso scade nell’esaltazione autoreferenziale.
Quello che è sicuro è che il mito di Skanderbeg costituisce la prova documentale dell’antica origine macedone degli Albanesi. Il suo nome, infatti, rappresenta la garanzia di una origine storica indiscutibile; la certificazione di una continuità nella storia della razza albanese, dalle remote fasi della storia balcanica, sino all’arrivo dei primi Albanesi in Italia, dove sono diventati Arbëreshë. Ancora oggi la memoria collettiva si serve del nome di Skanderbeg per rivendicare l’unità di sangue di uno dei popoli più diasporizzati della Terra.
Molti Albanesi hanno dovuto ripercorrere il viaggio del primo eroe dei due mondi e rivivere la sua stessa condizione, capendo che quando egli partì dall’Albania, aveva solo il suo onore, un elmo, una spada e… un paio di calzini.
• ABATE C., Vivere per addizione, Mondadori, 2010
• BARLETI M., Historia de vita et rebus gestis Scanderbegi Epirotarum principis, Roma, 1508-1510
• DI MICELI F., Identità e auto identità albanese. Il mito di Skanderbeg, Conferenza tenuta a Palermo il 29 marzo 2007. Pubblicata in Il mito in Sicilia, Carlo Saladino Editore, Palermo, 2007
• ELIADE M., Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino, 1954, ried. Bollato Boringhieri, Torini, 1999
Nota: Ringrazio vivamente Rossella De Rosa per aver infilato i calzini a Skanderbeg... e realizzato il fotomontaggio.
Visto che fra le fonti del vostro articolo
RispondiEliminaavete citato
BARLETI M., Historia de vita et rebus gestis Scanderbegi Epirotarum principis, Roma, 1508-1510
vi consiglio caldamente di leggerlo (non limitatevi solo a citarlo)
così,forse, la smetterete di sostenere che Scanderbeg è un mito!!!!!
La vostra ignoranza avvilisce la figura del nostro amato ed indimenticabile eroe nazionale!!!
Se proprio vi divertite a sminuire la figura di certi personaggi storici potreste farlo con i vostri: a iniziare da Giulio Cesare sino a Benito Mussolini!!!
Chissà quanti casi Kujau esisteranno... Intorno al 1980 i presunti diari di Hitler vennero presentati dal settimanale Stern come lo «scoop» giornalistico del secolo. Si convinse che erano autentici perfino lo storico Hugh Trevor-Roper. Li aveva scritti Konrad Kujau, falsario e nostalgico nazista, imitando alla perfezione la calligrafia di Hitler, in parte usando discorsi del Führer, libri di storia e testimonianze, in parte inventando di sana pianta, sempre basandoli sui fatti. Lo Stern pagò i sessanta volumi rilegati in cuoio quasi 10 milioni di marchi (all’epoca circa 6 miliardi di lire). Rivelarono la truffa due fatti: uno sbianchetto, usato in alcune pagine, che era entrato in commercio in Germania solo dopo la Guerra, e la carta che era stata prodotta tra il 1949 e il 1955.
EliminaDel caso Kujau parla anche Matteo Mandalà, decente di Lingua e Letteratura Albanese presso l’Università di Palermo, nel suo bellissimo libro “Mundus vult decipi. I miti della storiografia arbereshe (Palermo, 2007)”, nel quale denuncia come falsa la “memoria” attribuita ad Agostino Tocci e gran parte della tradizione storiografica arbereshe settecentesca.
Il documento di Tocci, citato come autentica fonte storica anche da Gabriele Dara junior e Giuseppe Schirò, e pubblicato da Girolamo De Rada a più riprese nella seconda metà del XIX secolo, viene fatto risalire al 1650, ma è scritto in un perfetto italiano ottocentesco. In esso si narra l’epopea dell’eroe Skanderbeg e degli Albanesi al suo seguito, i quali si sarebbero insediati nelle regioni meridionali della Penisola, fondando un imprecisato numero di colonie arbreshe.
I pilastri concettuali della mistificazione storiografica arbereshe e di questo testo si fondano sul seguente sillogismo:
1) gli albanesi giunsero in Italia o quando Scanderberg era ancora in vita oppure immediatamente dopo la sua morte;
2) ad eccezione di questi ultimi, i primi erano imparentati con il principe albanese e quindi appartenevano o alla casta militare oppure a quella aristocratica e, pertanto,
3) godettero di speciali concessioni o di consistenti privilegi, reali o ecclesiastici o baronali, nelle terre italiane in cui furono accolti.
Sull’inattendibilità della “memoria” oggi non vi sono dubbi. Anche Paolo Petta ne ha parlato in termini di “una ingenua Eneide italo-albanese, priva di fondamento storica e zeppa, del resto, di incongruenze: ma che corrisponde all’immagine di migrazione creata da una tradizione orale, che amava ricordarla come un grande movimento del popolo albanese, organizzato sotto la guida dei suoi capi naturali”.
In pratica, dice Mandalà, “nel '700 gli Arbereshe si sono costruita una identità 'credibile' che potesse metterli al riparo dall'emarginazione sociale, economica, religiosa e culturale in cui quei difficili tempi tendevano a spingerli”.
Ai nostri giorni c’è un nuovo caso Kujau, che ha saputo fare senz’altro di meglio, inventandosi un intero popolo, il sostegno di docenti universitari che esistono solo su Facebook e, come se questo non bastasse, la partecipazione a fantomatici istituti di studi filosofici e accademie di studi storici bizantini. La cosa più grave è che queste persone si pongono come i referenti dell’intera Arberia e trovano il loro pubblico! Ma forse sarebbe meglio dire che certi "esperti", per mancanza di talento e competenza, trovano i loro redattori fra questi falsi pubblicisti storici, imponendo la loro ignoranza come verità assoluta,gestendo cose e spazi editoriali come feudi personali, a danno dell’immagine di tutti gli Arbereshe. Ma che idea si staronno facendo i fratelli Albanesi dell'Arberia?
E quidi, che cosa vuol dire?
EliminaChe si può affermare che Skenderbeg è un mito e al tempo stesso citare tra le fonti una sua biografia????
Secondo me non avete molto chiare le idee.
P.s. Non ci siamo costruiti proprio nessuna identità,
altrimenti non sarebbero state emanate, in passato, leggi restrittive nei nostri confronti....
nè tantomeno oggi, ahimè, leggi di tutela.
P.p.s. se voi capiste minimante l'arberisht,
Eliminanon trovereste nessuna difficoltà a capire il significato della parola "Besa"... che non ha proprio nulla a che vedere con la vendetta!!!
Significa che per amare l'Arberia, Skanderbeg, ecc ecc non c'è bisogno di nessuna mistificazioni storiografica, di negare la realtà delle burrnesh o di calunniare chi cura questo blog.
RispondiEliminaL'identità, afferma l'antropologo Franco Remotti in Contro l'identità, «viene sempre, in qualche modo, 'costruita', 'inventata', e costantemente ricostruita, reinventata». Essa è il risultato di ibridazioni, rielaborazioni, cambiamenti dei propri paradigmi culturali. In quanto alla Besa le interpretazioni non possono essere univoque. Cofalato ha definito la Besa come “la parola veritiera essenziale, non superflua che comprende il rispetto di colui a cui è rivolta. Nella Besa si raccolgono e si dispiegano un ventaglio di emozioni…onore, fiducia, lealtà. Un detto albanese dice “Fjalen e dhene nuk e thith te dheu” ossia la parola data non l’assorbe neanche la terra”. Patrizia Resta intende, invece, la Besa come “la parola data, il rispetto delle regole, il sentimento che spinge un albanese ad agire secondo un modello cruento, che impone tanto omicidio e vendetta quanto ospitalità e ossequio alle gerarchie. La parola di un uomo vale più della stessa vita”. In quanto a Skanderbeg, per finire, tutti i miti hanno una parte di verità che viene in qualche modo trasfigurata ed ingigantita, perchè diventi esemplare. La cosa interessante è proprio capire quanto e perchè la storia vera diventa mito.
Come vedi, caro anonimo (o dovrei dire anonima?, sei sulla strada sbagliata. La tua ignoranza danneggia l'Arberia e tutto quello che dici di amare.
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