Di seguito, troverete la monografia completa di Giorgio Castriota Scanderbeg contenuta nel volume I Padroni dell’Acciaio, scritto da Gabriele Campagnano Zweilawyer e illustrato da Francesco Saverio Ferrara.
L'articolo del 17 marzo 2017 è copiato integralmente da Zhistorica (link nel fondo pagina).
Giorgio Castriota Scanderbeg
è il personaggio più importante della storia albanese. L’idea stessa di
Albania si cementa durante la sua ascesa e riesce a sopravvivere fino
al XIX secolo nonostante il giogo turco.
Scanderbeg
è al tempo stesso eroe, guerriero, comandante militare, politico,
mediatore e, inevitabilmente, le sue biografie sono spesse ammantate da
una coltre impenetrabile fatta di mito e leggenda. Studiando a fondo la
sua figura, possiamo ammettere che, per certi versi, il vero Scanderbeg
supera quello leggendario.
Giorgio Castriota nasce nel 1404 (altri riportano il 1405). La sua famiglia è quella dei Castriota (“Dera e Kastriotitv”), fresca
di titolo nobiliare. Alcuni testimoni dell’epoca sostengono che il
piccolo Giorgio sia nato con una voglia a forma di spada sul braccio.
Una probabile aggiunta posteriore, così come il sogno fatto dalla madre
poco prima del parto: avrebbe dato alla luce una fiera.
Ad ogni
modo, il piccolo Giorgio non tradisce questi segnali. Fin da
piccolissimo, si interessa molto al combattimento. Eccelle in tutte le
attività fisiche, anche grazie all’altezza e alla costituzione
massiccia, ma tutti quelli che lo conoscono ne apprezzano anche le virtù
morali.
Purtroppo
per lui, l’Impero Ottomano è in piena espansione. Il padre, Giovanni
Castriota, viene sconfitto più volte da Murad II assieme ad altri nobili
greci, ma nonostante la sostanziale sottomissione alle armate
islamiche, le sue capacità di governo sono riconosciute dal Sultano, che
gli chiede di rimanere come suo vassallo.
1.L’Infanzia del Castriota: fra Mito e Leggenda
1.L’Infanzia del Castriota: fra Mito e Leggenda
Proviamo
a percorrere, per qualche riga, la linea temporale dell’adolescenza di
Scanderbeg così come ci è stata tramandata da Barlezio.
Oltre a
un tributo annuo, Murad II chiede a Giovanni di consegnargli tutti e
quattro i suoi figli come ostaggi. Nella disperazione più nera, il padre
di Giorgio acconsente alla richiesta.
Giorgio Castriota arriva alla corte del sultano a nove anni circa.
Immediatamente,
lui e i suoi fratelli vengono convertiti forzatamente all’Islam e
circoncisi. A tutti loro, Murad assegna degli ottimi appezzamenti di
terreno, ma è il piccolo Giorgio a dare le maggiori soddisfazioni al
Sultano, che lo cresce come un figlio proprio. Nel giro di pochi anni,
il ragazzo mostra il suo valore nello studio, tanto da essere in grado
di padroneggiare correttamente sei lingue: albanese, greco, turco,
arabo, italiano e schiavone. Nell’arte del combattimento raggiunge
risultati ancora migliori e considera un vero e proprio disonore
l’essere sconfitto nella lotta o nel duello.
Giorgio Castriota diventa Scanderbeg (“Scander”, ossia Alessandro, e “beg”,
ossia principe, signore). A diciotto anni, Murad lo reputa abbastanza
maturo per guidare un contingente di 5.000 soldati contro il governatore
della Cilicia. Scanderbeg torna indietro da trionfatore e continua a
guidare i soldati di Murad in giro per l’Asia minore.
Scanderbeg
si trova ad Adrianopoli, allora capitale dell’Impero Ottomano, quando
un guerriero tartaro, convinto di essere il migliore del mondo, inizia a
sfidare i più forti combattenti turchi. Egli sostiene che nessuno sia
in grado di batterlo, ed effettivamente la sua forza e le sue dimensioni
fanno desistere la maggior parte dei soldati ottomani. Il Sultano
stesso promette una grande ricompensa a chi riesca nell’impresa di
sconfiggerlo.
Ad accogliere la sfida è Scanderbeg. Secondo le testimonianze, egli si reca dal Tartaro e gli parla così:
“Benché
io pensi che un uomo magnanimo non debba mettere a repentaglio la sua
vita o quella dei suoi simili, sono comunque venuto qui per accettare il
combattimento. Lo faccio per mostrarti che anche in questo Impero ci
sono uomini abbastanza valorosi da umiliare la tua arroganza e per
impedirti di tornare in patria e vantarti che nessun Ottomano abbia
osato misurarsi con te.”
Non
conosciamo la risposta del Tartaro, ma è di disprezzo, soprattutto vista
la giovane età del suo sfidante. Scanderbeg lo esorta quindi a non
esitare oltre e a raggiungerlo nell’arena.
Fra i
testimoni dello scontro, che avviene all’interno di un campo delimitato
da una palizzata, c’è lo stesso Murad. I due guerrieri si svestono fino
alla cinta e impugnano le scimitarre. L’assalto del Tartaro è violento,
ma Giorgio devia la lama verso l’esterno e lo colpisce alla gola. Il
Tartaro frana a terra e muore dissanguato.
Scanderbeg
mostra il suo valore anche in un’altra occasione. Durante il soggiorno
di Murad in Bitinia (a Prusa), arrivano alla sua corte due cavalieri
persiani, Jaia e Zampsa, intenzionati a entrare nella sua guardia
personale. Entrambi sostengono di essere imbattibili nel combattimento a
cavallo e sfidano gli uomini di Murad. Nessuno accetta la sfida,
neanche Giorgio. Tuttavia, è proprio Murad a chiamarlo per nome e a
chiedergli di mettere alla prova i due giovani persiani. L’albanese
obbedisce senza esitare e monta a cavallo. Jaia e Scanderbeg rompono le
rispettive lance contro la corazza dell’altro e passano a combattere con
la scimitarre. Zampsa, vedendo Jaia in difficoltà, accorre in suo aiuto
a briglia sciolta. Scanderbeg però lo vede arrivare e gli squarcia il
petto con la sua arma, facendolo cadere da cavallo. Jaia, infuriato, lo
incalza, ma Giorgio para i colpi e risponde. Alla fine, riesce a
colpirlo fra il collo e la spalla, quasi “bipartendolo”.
Entusiasta
per la vittoria del suo protetto, Murad II chiede a Scanderbeg di
chiamarlo “padre”, perché lui lo avrebbe trattato come un figlio. In
realtà i due hanno solo pochi anni di differenza.
Secondo
Demetrio Franco, dopo lo scontro, Murad prevede che, quando Scanderbeg
raggiungerà l’età perfetta, non ci sarà un solo guerriero in grado di
batterlo in tutto il mondo.
Scanderbeg
però, pur essendo esteriormente un guerriero Turco, continua a provare
(sebbene siano passati molti anni) un grande dolore quando è costretto a
versare sangue cristiano. Per quanto possibile, cerca di evitarlo, ma
quasi tutti gli avversari dell’Impero Ottomano professano il credo
romano.
Giorgio
Castriota viene a conoscenza, nel 1437, della morte del padre, Giovanni
Castriota. Per non arrecare un dolore a Murad II, per cui prova
sentimenti simili a quelli che intercorrono fra padre e figlio, Giorgio
tace il dolore. I sudditi di Giovanni chiedono a Murad di mandare a
governare l’Albania uno dei figli del re morto, tutti cresciuti presso
la corte di Adrianopoli. Murad però contravviene alla promessa fatta
decenni prima e si limita a dare una ricca rendita a Voisava, vedova di
Giovanni e madre di Giorgio, e a trasferirla con l’unica figlia non
ancora sposata in Macedonia.
Le
guarnigioni ottomane prendono possesso di molte città e fortezze
albanesi e Murad, per evitare che i figli di Scanderbeg possano
reclamare il trono paterno, decide di farli avvelenare. L’unico a
salvarsi è Giorgio. Murad evita di ucciderlo per l’affetto che prova nei
suoi confronti, ma soprattutto, a detta di molti, per evitare
un’insurrezione delle sue truppe, che apprezzano immensamente le doti
del guerriero albanese.
Scanderbeg
comprende però che dietro la morte dei suoi fratelli c’è un ordine di
Murad, e inizia a considerarlo solo un vile assassino, oltre che un
soggetto incapace di mantenere la parola data al padre Giovanni. Sebbene
Murad, per tenerlo accanto a sé, gli prometta uno stato tutto per lui,
più grande e ricco dell’Albania, Scanderbeg ormai sa di non potersi più
fidare di lui.
Inoltre,
Giorgio Castriota attira su di sé le invidie della corte del sultano,
che insinua proprio in quest’ultimo il dubbio che l’albanese punterà,
prima o poi, a sottrargli addirittura il trono. Ed è a questo punto che
Giorgio decide definitivamente di liberarsi dalla prigione dorata di
Adrianopoli.
Fin qui
la leggenda. Ma cosa accade se procediamo a una rigida consultazione e
comparazione delle fonti? Al fine di evitare una deriva prettamente
accademica della monografia, possiamo dire con certezza che questo
immane lavoro è già stato compiuto da un dottorando della Università di
Boston alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Theofan Stilian Noli non
può essere però menzionato come un semplice dottorando. Parliamo
infatti di uno degli uomini più eruditi della storia d’Albania, nonché
primo ministro del paese appena liberato dal dominio ottomano. Con tre
lauree, sei lingue conosciute in modo quasi perfetto e un enorme numero
di documenti da poter consultare in lingua originale, il Noli redige
quindi una biografia straordinaria (e ancora insuperata) dell’eroe
albanese.
2. L'ascesa del Dragone.
Le fonti
storiche ci danno un’unica certezza: Giorgio Castriota partecipa alle
spedizioni militari di Murad II (che regna da 1421 al 1451) e quindi
concordano sul fatto che abbia, all’inizio del suo servizio, almeno
sedici anni.2. L'ascesa del Dragone.
In
realtà, alcuni documenti sembrano confermare addirittura la presenza di
Giorgio in Albania, quindi non alla corte del Sultano, fino al 1426
(all’età di ventidue anni) o al 1430 (ventisei). C’è quindi la concreta
possibilità che Giorgio non abbia l’obbligo di risiedere alla corte del
Sultano (men che meno come ostaggio), quanto piuttosto sia obbligato a
prestare aiuto militare a quest’ultimo assieme ai suoi fratelli.
La storia di un Giorgio cresciuto ad Adrianopoli, sotto le amorevoli cure di Murad II, è smentita da altri dati.
Nel
1436, a Scanderbeg viene concesso il sangiacco di Dibra e, nel
1438-1439, Scanderbeg e suo fratello maggiore Stanisha (quello che,
secondo la leggenda, viene ucciso dal Sultano), divenuti cittadini
onorari di Venezia e Ragusa, sono in Albania.
All’inizio,
Scanderbeg rimane fedele a Murad II. La Rivolta Albanese del 1432-1436
è, in questo senso, esplicativa, visto che l’eroe albanese non si
schiera contro gli Ottomani. Anzi, negli anni successivi egli combatte
al fianco del Sultano nelle campagne europee. In quel periodo, la
barriera più ostica all’espansionismo ottomano in Europa è rappresentata
dal condottiero ungherese Giovanni Hunyadi (Janos Hunyadi).
Nel 1441
e 1442, quest’ultimo infligge pesanti sconfitte alle forze armate di
Murad II, tanto che lo stesso Papa Eugenio IV vede la concreta
possibilità di cacciare gli Ottomani dal territorio europeo. La bolla
con cui indice una nuova crociata è del 1° gennaio 1443.
È
proprio durante la Crociata di Varna, e in particolare nel corso della
Battaglia di Nish, nel Novembre del 1443, che Giorgio Castriota, in quel
momento ancora prezioso membro dell’esercito ottomano, prende una
decisione che passerà alla storia.
Assieme a
300 fedeli albanesi, abbandona l’armata ottomana e passa dalla parte di
quella cristiana, che esce vincitrice dallo scontro.
Scanderbeg
non aspetta un solo istante prima riprendere possesso dei feudi di
famiglia. Il supporto unanime del popolo albanese gli permette di riconquistare le
roccaforti turche nel suo territorio, situate fra Croia e Svetigrad.
Secondo le fonti dell’epoca, a Giorgio bastano tre o quattro giorni per
riprendere il controllo totale dei territori paterni.
Fra le fortezze in mano turca la più grande è quella di Croia, che
riesce a prendere dopo un breve assedio; le altre invece, come Petrella,
Petralba, Stellusi, Modrici, Ternaci, si arrendono senza combattere.
L’unica a resistere per qualche tempo è Svetigrad, che viene presa da
uno dei suoi luogotenenti, Mosè di Dibra.
Insediatosi
al governo, Scanderbeg abbandona subito l’islam, cui si è convertito
attorno al 1430, e torna al cristianesimo. È una (seconda) conversione
particolarmente sentita, la sua, tanto che ordina a tutti i musulmani,
coloni ottomani e convertiti, di scegliere immediatamente fra il
Cristianesimo e la morte.
Disegno originale di Francesco Saverio Ferrara |
“Et così fece amazzare tutti li Turchi che non si volsero battizzare”
Tornato cristiano, Giorgio Castriota non abbandona però il suo soprannome turco, Scanderbeg (“Scander”, ossia Alessandro, e “beg”, ossia principe, signore) e lo aggiunge sempre alla fine della sua firma.
Questa è
la prima parte della sua storia, quella confermata da un raffronto fra
le fonti almeno, mentre per quanto riguarda la leggenda, le cose sono
andate diversamente. È possibile che alcuni dei fatti riportati nelle
sue biografie più “mitologiche” siano veri o almeno verosimili, mentre
altri inventati in modo integrale.
Una
volta rotto definitivamente il giogo turco, Giorgio sa benissimo che le
sue possibilità di uscire vincitore da uno scontro con l’esercito
Ottomano sono basse; cerca quindi di stabilire un’alleanza duratura con
gli altri principi Albanesi e con Venezia. Il 2 Marzo 1444, riunisce i
principi Albanesi nella Cattedrale di San Nicolò ad Alessio. Sono
presenti anche degli inviati veneziani, che però si limitano a redigere
un accurato rapporto per il governo della Serenissima.
Ognuno
dei Principi è libero di mettere a disposizione della Lega (conosciuta
come Lega di Alessio) gli uomini e i mezzi finanziari che reputa
necessari. La risposta complessiva è più che buona, visto che nella
biografia scritta da Barlezio leggiamo “Scanderbegi proventus in Epiro ducenta annua aureorum millia excessisse“. La Lega quindi può contare su una rendita annua di circa 200.000 ducati.
Nel
1444, Scanderbeg mette insieme il suo esercito: non più di diecimila
uomini, di cui solo una piccola parte provengono dagli altri Principi,
visto che il condottiero albanese si fida molto poco degli altri. La
cavalleria leggera ha un ruolo essenziale, così come la sua guardia
personale, costituita dalla gioventù di Croia. La nota dolente del suo
esercito è la mancanza di artiglieria d’assedio, che lo rende quasi
inoffensivo davanti alle città fortificate.
Lo
stesso Scanderbeg – e qui mito e realtà storia concordano – è un soldato
eccezionale. Alto e robusto (a detta delle fonti, egli supporta e
mantiene la sua stazza grazie a quantità enormi di cibo e vino),
combatte al fianco dei suoi uomini con la sua famosa spada curva o con
una mazza. Ma è soprattutto un abile stratega, capace di spiegare la sua
arma principale, la cavalleria leggera, in modo veloce e devastante. La
sua tattica preferita è quella di colpire all’improvviso e ritirarsi (i
manuali di guerra americani oggi la chiamano hit and run), trascinando spesso i nemici verso trappole e imboscate.
Pur non
avendo, come anticipato, artiglieria, Scanderbeg è capace di difendere
le sue piazze d’arme grazie a continue incursioni di alleggerimento, che
costringono quasi sempre gli assedianti a desistere.
Come
previsto da Scanderbeg, Murad II invia il suo miglior generale, Ali
Pashà, a punire gli albanesi. È l’estate del 1444 quando un esercito di
25.000 uomini, per la maggior parte cavalieri, arriva in Albania.
Giorgio
Castriota lo punge ai fianchi, colpisce le retrovie e poi l’avanguardia,
fino a portarlo dove vuole lui. La valle di Torvioll è stretta e
scoscesa. La cavalleria ottomana vi si ammassa nel tentativo di
superarla velocemente. Il 29 Giugno Scanderbeg raggiunge gli uomini di
Ali Pashà. Alì è un comandante smaliziato, e ha già intuito il rischio
di un’imboscata. Al primo assalto albanese, riesce a resistere anche
grazie al rapporto di 3:1 fra i suoi e il nemico. Scanderbeg ha tenuto
però un contingente di riserva nascosto nella boscaglia, e un altro
dietro il grosso della sua cavalleria. Quando entrambi irrompono sul
campo di battaglia, per gli Ottomani non c’è scampo. Ali Pashà riesce a
fuggire con la sua guardia personale, mentre 7.000 dei suoi vengono
massacrati e 500 catturati. Scanderbeg perde, secondo le fonti
dell’epoca, solo 190 uomini, mentre ricerche più recenti parlano di
circa 2.000.
Con
l’esercito turco in rotta, Scanderbeg consente ai suoi uomini di
saccheggiare i territori ottomani limitrofi, rimasti senza protezione.
Gli Albanesi riescono a ottenere un ottimo bottino, soprattutto in
termini di capi di bestiame. A tal proposito, Barlezio si supera
scrivendo “vicini Principes aerarium Scaanderbegi agrum hostilem appellabant.”
In sostanza, gli alleati di Giorgio Castriota sono a conoscenza che a
sostenere le casse del Castriota sia il bottino fatto in territorio del
nemico.
Tornando
a casa, i soldati compongono canzoni satiriche su Alì Pashà e sugli
altri comandanti ottomani, il cui enorme esercito, arrivato in pompa
magna, è stato sconfitto da un gruppo di “ladri di cavalli”.
La
vittoria albanese ha una grande eco in Europa. Papa Eugenio IV e
Ladislao III di Polonia sono i primi a congratularsi con lui. I
Veneziani invece, che hanno interesse a vedere indebolito il potere
ottomano, non solo altrettanto felici all’idea di un regno albanese
forte e stabile, capace di insidiare i loro possedimenti costieri. La
Serenissima avvia addirittura una serie di negoziati con i Turchi al
fine di farsi cedere Vallona, Canina e Argirocastro.
Ad ogni modo, il Papa e i sovrani dell’Europa Orientale smettono di festeggiare ben presto il trionfo di Scanderbeg.
Abbiamo
menzionato, in precedenza, la Crociata della Varna. Il nome deriva dalla
battaglia omonima con cui si conclude la spedizione. Il 10 Novembre
1444, pochi mesi dopo la grande vittoria di Scanderbeg, le forze
superiori di Murad II annientano l’esercito cristiano di Ladislao III e
Giovanni Hunyadi. Durante la Battaglia di Varna, le forze guidate
dall’Hunyadi infliggono pesanti perdite agli Ottomani, ma l’inesperienza
di Ladislao III, appena ventenne, fa volgere lo scontro a favore dei
musulmani. Nel tentativo infatti di sfondare il centro dello
schieramento avversario, formato dai giannizzeri, e prendere prigioniero
Murad II, il giovane perde la vita. Il suo cavallo cade in una trappola
a pochi metri dalla tenda di Murad e un mercenario turco lo decapita,
portando la sua testa al Sultano. Con l’esercito in rotta e 35.000 morti
sul campo (20.000 cristiani e 15.000 musulmani) l’Hunyadi riesce però a
mettersi in salvo.
Il 1445
sembra aprirsi, per Scanderbeg, in modo più lieto, con le nozze fra la
sorella minore, Namitza Castriotia, e Musachi Thopia. La celebrazione,
che vede la partecipazione di quasi tutti i dignitari albanesi, si
conclude con una vera e propria battaglia tra fazioni rivali. Al centro
della contesa c’è una lite fra Lek Ducaghini e Lek Zacaria, entrambi
innamorati della bella Irere Dushmani di Zadrima. I “festeggiamenti”
provocano 105 morti e 200 feriti (!); Lek Zacaria riesce a stendere il
rivale con un colpo al volto. Purtroppo per lui, non lo uccide. A due
anni da quegli eventi, Lek Ducaghini non ha ancora sbollito la rabbia,
tanto che organizza un’imboscata e massacra Zacaria. La madre di
quest’ultimo cerca protezione presso i Veneziani, consegnando loro la
città di Dagno. Ma la città è anche nelle mire di Scanderbeg e della
Lega di Alessio. La guerra fra Albanesi e Veneziani scoppia nel 1447.
Prima che questa raggiunga il suo apice, il Castriota è però costretto
ad affrontare una minaccia molto più grave.
3.Svetigrad, Croia e Albulena
All’inizio
del 1448, gli informatori di Giorgio lo avvertono che Murad II in
persona guiderà a breve una enorme armata contro la fortezza di
Svetigrad. Alla testa del suo esercito, 80.000 uomini in tutto, si muove
verso il castello albanese, raggiungendolo nel Maggio 1448. Oltre a
preparare le difese, Scanderbeg si posiziona con 4.000 cavalli leggeri a
pochi chilometri dal campo turco. In realtà, tutti i rilievi intorno a
Svetigrad pullulano di uomini albanesi pronti alla guerriglia. Gli
ufficiali di Murad, venuti a sapere che Scanderbeg è lì, da qualche
parte in mezzo alle montagne, mandano migliaia di cavalieri per
stanarlo. I Turchi riescono effettivamente a trovare il Castriota, o,
più probabilmente, è lui che trova loro, visto che nessuno di loro
sopravvive al violentissimo scontro con gli uomini del Castriota. Per
tutta risposta, Murad II inizia a colpire le mura del castello con
alcune delle artiglierie più potenti mai viste fino a quel momento: due
cannoni in grado di sparare palle da 200 libbre. Nei primi due mesi di
assedio, gli Albanesi funestano il campo turco con sortite diurne e
notturne, ma Scanderbeg è costretto, nel Luglio 1448, a distogliere
buona parte dei suoi uomini dalla difesa di Svetigrad per andare
incontro all’esercito veneziano che sta scendendo da nord.
Nella Battaglia del Drin, combattuta il 23 Luglio 1448, Scanderbeg annichilisce le forze veneziane, che lasciano sul campo 2.500 morti e un migliaio di prigionieri. Una settimana dopo però, Svetigrad si arrende a Murad II alla condizione che questi permetta alla guarnigione di tornare in Albania. Il Sultano accetta i termini e, nonostante le pressioni del figlio Maometto (che vorrebbe decapitare tutti i difensori per vendicare i 20.000 Turchi morti), rispetta la parola data.
Nella Battaglia del Drin, combattuta il 23 Luglio 1448, Scanderbeg annichilisce le forze veneziane, che lasciano sul campo 2.500 morti e un migliaio di prigionieri. Una settimana dopo però, Svetigrad si arrende a Murad II alla condizione che questi permetta alla guarnigione di tornare in Albania. Il Sultano accetta i termini e, nonostante le pressioni del figlio Maometto (che vorrebbe decapitare tutti i difensori per vendicare i 20.000 Turchi morti), rispetta la parola data.
Il
Castriota, vittorioso su un fronte e sconfitto sull’altro, cerca di
riorganizzare l’esercito assieme alla Lega. Venezia invece è talmente
terrorizzata da cercare un sicario che faccia fuori il Dragone d’Albania
in cambio di uno stipendio perpetuo di 100 ducati l’anno. Non trovando
nessuno disposto a farlo, Venezia si rivolge addirittura agli Ottomani.
Fra
Venezia e Adrianopoli (mancano ancora cinque anni alla conquista di
Costantinopoli da parte di Maometto II) i rapporti sono analoghi a
quelli fra Roma e Ctesifonte o fra altre civiltà rivali del passato:
grandi guerre, razzie e violenze, ma anche scambi commerciali e qualche
temporanea concordanza d’interessi.
La
diplomazia e le promesse veneziane convincono Mustafa Pashà a invadere
l’Albania con 15.000 uomini solo pochi giorni dopo la sconfitta
veneziana. Il 14 Agosto incrocia a Oranik (odierna Debar, in Macedonia)
l’esercito di Scanderbeg, che conta meno della metà dei suoi uomini. Gli
Albanesi però hanno il morale alto e conoscono bene il territorio. I
Turchi vacillano già ai primi contatti, poi crollano davanti agli
assalti Albanesi e finiscono massacrati. Ne muoiono 3.000, ma Scanderbeg
vuole sfruttare le disponibilità economiche del Sultano. Cerca quindi
di catturare il generale Mustafa Pashà vivo. E ci riesce. Proprio da
quest’ultimo viene a sapere che a sollecitare l’attacco sono stati i
Veneziani. Il Castriota va su tutte le furie. La sua rabbia si placa
solo temporaneamente quando arrivano i messi di Murad II, che hanno
portato la cifra incredibile di 25.000 ducati per riscattare Mustafa
Pashà.
Con la
sconfitta di Drin e quella dell’alleato ottomano, Venezia si trova in
grave affanno e vede la possibilità concreta di essere completamente
estromessa dalla riva orientale dell’Adriatico. Tuttavia, Scanderbeg ha
intenzione di continuare la sua guerra totale contro i Turchi, quindi
accetta di buon grado di sedersi al tavolo con i Veneziani per
sottoscrivere un accordo di pace e mantenere sicuri i confini
settentrionali dell’Albania.
Il 4
Ottobre 1448 conclude con loro un trattato di pace. Per Venezia è
particolarmente oneroso, visto che prevede (i) una pensione annua di
1.400 ducati per Scanderbeg, (ii) altri 1.500 ducati in “prestito” per
contribuire alla spedizione contro gli Ottomani che intende dirigere
assieme a Giovanni Hunyadi, (iii) l’eliminazione dei dazi sul sale per
un totale di 200 cavalli ben carichi del bene ogni anno, (iv) la
possibilità, in caso di sconfitta contro gli Ottomani, di trovare
rifugio nei territori veneziani, e altre previsioni minori.
In soli
quattro anni, Scanderbeg e i suoi alleati hanno sconfitto sia gli
Ottomani che i Veneziani, ossia due nemici dalle finanze molto solide, e
con grande esperienza di cose militari e diplomatiche. È il 1448, e la
lotta per l’indipendenza albanese è appena iniziata.
A metà
Ottobre del 1448, quindi pochi giorni dopo la firma del trattato con i
Veneziani, Scanderbeg prova a raggiungere l’esercito dell’Hunyadi. Il
despota di Serbia però, Durad Brankovic, non gli permette il passaggio e
diserta la causa cristiana. Hunyadi affronta quindi gli Ottomani senza
l’aiuto del comandante albanese, e viene sconfitto nella Seconda
Battaglia del Kosovo, conclusasi il 20 Ottobre 1448.
Per
punire Brankovic, Scanderbeg mette a ferro e fuoco i suoi territori
prima di ritirarsi. È conscio del fatto che, dopo aver conquistato
Svetigrad e sconfitto duramente Giovanni Hunyadi, Murad II colpirà di
nuovo l’Albania.
Scanderbeg
conosce anche l’obiettivo del Sultano, ossia la fortezza di Croia.
Prima cerca di alzare il morale dei suoi facendo raccontare dai diversi
religiosi visioni di vittoria e gran massacro di Ottomani, poi inizia i
preparativi militari. Affida la difesa della città al conte Vrana e ai
suoi 1.500 soldati, cui si aggiungono tutti gli uomini abili di Croia.
Il resto degli abitanti (le c.d. “bocche inutili”) viene evacuato sulle
montagne vicino alla costa.
Il 14
Maggio 1450, Murad si presenta con tutto il suo esercito sotto le mura
della città. Lo accompagna ancora il giovane figlio Maometto (che
diventerà celebre come Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli).
Giammaria Biemmi, nella sua Istoria di Giorgio Castrioto Scanderbeg-Begh, riportando la confessione di un ufficiale turco, dice:
“Un
uffiziale Turco che fu fatto prigione sul fine dell’Assedio dichiarò
che da principio non superavano il numero di cento mila. Al che poi
aggiungendo i guastatori, i vivandieri, i bagaglioni, e quella bassa
gente, che è solita seguir le armate non sono lontano dal credere che
potessero in tutto arrivare a quel mentovato numero di cento e
sessantamila”
Murad ha
portato il metallo necessario a forgiare sul posto dieci grossi
cannoni, ciascuno capace di sparare pietre da 600 libbre. Il conte Vrana
rifiuta la richiesta di capitolazione immediata e, successivamente,
rifiuta anche l’enorme somma di denaro promessagli dal Sultano in caso
di passaggio fra le sue fila.
I
cannoni prendono a martellare le mura, riuscendo ben presto ad aprire
una breccia. L’assalto generale dei Turchi è violentissimo. Lo stesso
conte Vrana subisce una grave ferita, ma alla fine riesce a infliggere
agli uomini del Sultano abbastanza perdite da farli desistere. E il
Sultano non ha ancora fatto i conti con Scanderbeg. Gli 8.000 uomini
guidati dall’eroe albanese sono ovunque: nei boschi intorno alla
fortezza, sulle montagne, a presidiare le strade. Attaccano
l’accampamento turco giorno e notte, tagliano l’arrivo dei viveri,
impediscono le comunicazioni e massacrano tutti i contingenti inviati a
stanarli.
Scanderbeg
sa di non poter vincere un assedio statico, quindi punta tutto sulla
sua abilità nelle tattiche di guerriglia e di pressione psicologica.
Quando i Turchi lanciano gli assalti alla città. Scanderbeg si
materializza nelle retrovie e massacra i reparti arretrati prima di
ritirarsi. I soldati turchi non dormono praticamente più, e sono
costretti a razionare i viveri come gli albanesi all’interno della
fortezza.
Le voci
relative allo scarso vettovagliamento del campo arrivano ai Veneziani;
pochi giorni dopo, i mercanti della Serenissima arrivano con derrate
alimentari e polvere da sparo che il Sultano paga a caro prezzo.
Gli
Albanesi però non apprezzano il comportamento dei mercanti veneziani,
tanto che alcuni di questi ultimi finiscono con la gola tagliata nelle
loro tende. La tregua fra i due popoli è fragile, e sono i Veneziani a
cedere per primi, dando ordine al governatore di Durazzo di supportare
solo gli Albanesi.
Durante
questo assedio Scanderbeg elabora, secondo la leggenda, una sortita
notturna che getta i Turchi nel terrore. Per alcuni giorni, fa radunare
ai suoi uomini migliaia di capre e, a notte inoltrata, lega delle torce
alle loro corna prima di lanciarle contro il nemico. Dietro gli animali,
avanzano anche i suoi soldati. Gli Ottomani si precipitano fuori dalle
tende, convinti che l’esercito che li sta attaccando sia addirittura più
numeroso del loro. Quando si accorgono dello stratagemma è già troppo
tardi. Il Castriota miete centinaia di vittime e ritorna trionfante
sulle montagne. Sempre secondo la leggenda, a seguito di questa
vittoria, Scanderbeg inizia a indossare il celebre elmo con le corna di
capra che trova posto in tutte le sue rappresentazioni iconografiche.
Il 26
Ottobre 1450, dopo mesi di assedio, il Sultano capisce che non c’è modo
di prendere la città. Più di 8.000 dei suoi sono morti e i feriti
riempiono il campo, così preferisce rientrare ad Adrianopoli ed evitare
una disfatta di proporzioni ancora più larghe. Circa tre mesi dopo,
ancora infuriato per lo smacco subito, Murad II si ammala e muore. Gli
succede però il figlio, Maometto II, che ha capacità di governo e
strategiche forse addirittura superiori a quelle paterne.
Pur
avendo sconfitto un esercito dieci volte più numeroso del suo,
Scanderbeg non naviga in buone acque. Le continue guerre hanno stremato
terre e abitanti, mancano i soldi necessari a pagare truppe e provviste,
e molti nobili albanesi hanno abbandonato la lotta o sono addirittura
passati dalla parte dei turchi o dei veneziani.
Alla
ricerca di un alleato più solido, Giorgio Castriota Scanderbeg sembra
trovarlo in Alfonso V d’Aragona, che regna sull’Italia del Sud e
combatte i Veneziani dall’altro lato dell’Adriatico rispetto agli
Albanesi. Il 26 Marzo 1451, i due si incontrano a Gaeta per stipulare
un’alleanza. Alfonso V, avendo risorse molto più consistenti, sa di
essere la parte più forte, e quindi pone a Scanderbeg delle condizioni
piuttosto onerose (pagamento a lui dello stesso tributo versato al
Sultano, proprietà delle terre conquistate ai danni dei Turchi,
accettazione di un Vicerè aragonese a Croia, ecc.). Alfonso V stipula
alleanze dello stesso tipo con gli altri principi Albanesi, e si
ritrova, de facto, a comandare la Lega di Alessio, con Giorgio Castriota Scanderbeg come Capitano Generale della Corona d’Aragona.
In
realtà, stando agli archivi napoletani, Scanderbeg non versa mai alcun
tributo ad Alfonso V, ma gli invia, dopo ogni vittoria, armi, stendardi e
prigionieri turchi. Certo, Scanderbeg deve accettare una guarnigione di
100 soldati catalani nella sua Croia, e la presenza del Vicerè Ramon
d’Ortofa nel suo palazzo, ma ha bisogno della pensione di 1.500 ducati
l’anno proveniente da Alfonso V, che, insieme a quella che riceve da
Venezia (1.400 l’anno), gli permette di sfamare e armare i suoi uomini.
Appena
un mese dopo l’incontro con Alfonso V, Scanderbeg sposa la figlia di
Giorgio Araniti, importante nobile albanese che l’anno precedente si era
alleato con i Veneziani. Quella di Scanderbeg è una mossa intelligente,
perché gli permette di legarsi a una famiglia potente ma sempre incerta
nelle alleanze. La ragazza si chiama Andronica (ma ricorre anche il
nome Marina), e Araniti versa al Castriota una dote così consistente da
suscitare le ire dei suoi tre figli maschi (che disertano la cerimonia).
Bisogna anche sottolineare come il condottiero albanese abbia atteso
fino ai quarantasette anni prima di prendere moglie, cosa che palesa
meglio di ogni altra i sacrifici di una vita passata sui campi di
battaglia.
Nel
1453, con la caduta di Costantinopoli e il sacco della città, la
Cristianità trema. Venezia comprende di come Maometto II rappresenti un
pericolo enormemente maggiore rispetto a Scanderbeg, e ordina quindi al
governatore di Alessio di scortarlo in Italia per stringere le alleanze
necessarie a contrastare gli Ottomani. Alfonso V, sempre generoso,
concede al Castriota 2.000 uomini e un discreto numero di pezzi
d’artiglieria.
Nel
Giugno 1455, i soldati napoletani si uniscono a quelli albanesi
nell’assedio di Berat, che si arrende non appena l’artiglieria cristiana
fa breccia nelle mura. I difensori di Berat chiedono undici giorni di
tregua prima di cedere la città, così Scanderbeg reputa opportuno
lasciare quasi tutti gli uomini intorno alla città e tentare l’assedio
di un’altra fortezza con un piccolo contingente. Purtroppo però, i
soldati lasciati indietro diventano in pochi giorni una torma di
razziatori senza scrupoli. Il luogotenente albanese, Musachi Thopia, non
riesce a tenerli a freno o forse non ci prova nemmeno.
Divisi
in gruppi e intenti a devastare i dintorni della città, gli Albanesi non
si accorgono dell’arrivo del comandante ottomano Isa-Beg Ishakovic, e
soprattutto dei 40.000 cavalieri al suo seguito.
Gli
Ottomani massacrano tutti gli Italiani e oltre la metà degli Albanesi.
Una carneficina cui non sfugge neanche il menzionato Musachi Thopia.
Isa-Beg Ishakovic, soddisfatto dell’impresa, permette ai suoi uomini di
prendere le teste degli Albanesi morti come trofei. Come umiliazione
finale, i soldati turchi le vendono ai ragazzini di Costantinopoli per
giocarci a calcio.
Quando
la notizia della disfatta giunge alle orecchie dei Veneziani, questi
tentano di convincere i nobili Albanesi ad abbandonare Scanderbeg. Molti
rimangono al suo fianco. Altri, invece, preferiscono passare nelle fila
di Venezia o degli Ottomani. Il miglior generale ed amico del
Castriota, Mosè di Dibra, diserta per i Turchi poco dopo Berat. Quello
delle alleanze di cristallo è un problema che funesta il Castriota fino
alla fine dei suoi giorni. I cambi di schieramento non sono certo una
prerogativa esclusiva dei nobili albanesi o dei Veneziani, ma le
difficoltà economiche della Lega di Alessio e la ricchezza dei due
poteri che più la contrastano sono un forte incentivo a tradimento e
trattative sottobanco.
Nel
Maggio del 1456 – appena due mesi prima dell’Assedio di Belgrado, che si
chiude con una roboante vittoria di Giovanni Hunyadi – è proprio il
vecchio amico di Scanderbeg, Mosè, a guidare un’armata turca di 15.000
cavalieri nella bassa Dibra. Il Castriota lo conosce bene e sembra
prevedere le sue mosse. Quando vince la battaglia e mette in rotta gli
Ottomani, Giorgio vede presentarsi innanzi a lui Mosè. Invece di
ritirarsi, questi si presenta a Croia chiedendo il perdono di
Scanderbeg, che glielo concede quasi subito. Pur essendo un combattente
spietato, il Castriota sa essere molto magnanimo con i suoi fratelli
albanesi.
Fra gli
altri traditori di Giorgio ci sono due suoi nipoti: Giorgio Stresi
Balsha (figlio della sorella di Scanderbeg, Yella), e Hamza Castriota.
Quest’ultimo, in particolare, non ha mai abbandonato la religione
islamica, e comunica ai Turchi di poter ottenere il supporto di tutti i
nobili Albanesi per rovesciare Scanderbeg. Il suo voltafaccia è
“giustificato” dal fatto che, con la nascita del figlio di Scanderbeg,
Giovanni, non gli rimane più alcuna possibilità di ereditare i
possedimenti e la carica dello zio.
Nell’estate
del 1457, il Sultano ordina al governatore del sangiacco di Üsküp,
Isa-Beg Ishakovic, di guidare l’esercito ottomano in Albania e regolare
definitivamente i conti con Scanderbeg. Al suo seguito i soliti 80.000
soldati, con Hamza Castriota comandante in seconda. Scanderbeg è in
grado di schierare un esercito dieci volte meno numeroso, quindi non
solo si sposta sulle montagne, dove il terreno è più scosceso e
accidentato, ma divide i suoi uomini in gruppi di poche centinaia di
unità e ordina loro di proseguire sui monti in direzioni diverse. Hamza e
Ishakovic non si fanno problemi a torturare gli Albanesi che trovano
sul loro cammino per estorcere informazioni sul Castriota. Nessuno
parla, tanto che, alla fine dell’estate, tutti pensano che Scanderbeg
sia fuggito definitivamente.
Il
governatore veneziano di Durazzo, Marco Diedo, annuncia addirittura al
Doge che ormai tutta la nobiltà Albanese è passata dalla parte dei
Turchi e che il problema Scanderbeg può dirsi risolto:
“El
magnifico Signor Scanderbergo va per le montagne fuzendo la sua testa,
el quale è stato abandonado da tuti li principali suoi, li quali sono
andati cum el Turcho… In questo esercito del Turcho è tuta la possanza
del gran Turcho, secondo se dice, che sono tra da cavallo et da pè
persone 80.000.”
Per
tenere sotto controllo sia Croia che Alessio, la maggior parte
dell’esercito ottomano (50.000 soldati) si posiziona nei pressi di
Albulena (Ujëbardha)
a nord-ovest della prima città e a sud della seconda. Gli altri 30.000
soldati vengono messi a presidio della logistica e a tenere sotto scacco
i forti albanesi di Cidhna, Dibra, Guri i Bardhe, Mat, Rodon e Petrela.
Hamza Castriota è acclamato nuovo sovrano d’Albania, ma sotto la
protezione del Sultano. Alla fine di Agosto del 1457, Ishak Bey e Hamza
celebrano la loro vittoria.
Ma non hanno fatto i conti con Scanderbeg.
Il 2
Settembre 1457, dopo aver segnalato ai suoi uomini di raggrupparsi,
Scanderbeg li fa avanzare in silenzio verso l’esercito ottomano, in quel
momento intento a riposare dopo il pranzo. Alle spalle del campo
ottomano c’è la costa, quindi Scanderbeg divide nuovamente i suoi uomini
in tre gruppi, in modo da poter colpire sia frontalmente che dai due
fianchi. Prima dell’attacco, è lui stesso a guidare una veloce sortita
per eliminare le guardie perimetrali. Un soldato turco riesce però a
dare l’allarme, e nel campo si scatena il putiferio.
Scanderbeg
guida immediatamente l’assalto frontale. Hamza riorganizza i suoi e
scambia con gli ex-amici Albanesi alcune cariche e controcariche di
cavalleria. Ishakovic invia altri uomini a supporto di Hamza. Scanderbeg
non aspetta altro e ordina di caricare il campo turco dalle altre due
direzioni. Gli Ottomani sono convinti di trovarsi di fronte un esercito
molto più numeroso, e a nulla valgono le rassicurazioni di Hamza sul
fatto che gli Albanesi non possano essere più di 8.000.
Dopo
averli incalzati ai fianchi, Scanderbeg tempesta il fronte dello
schieramento nemico di archibugiate, dardi e frecce, facendolo
arretrare. Schiacciati al centro del campo, gli Ottomani si lasciano
prendere dal panico e tentano di fuggire. È una fuga disperata, una
rotta completa. Il condottiero albanese guida la cavalleria leggera
all’inseguimento dei fuggitivi e li massacra. La stima più conservativa
parla di 15.000 Ottomani morti e di altrettanti finiti in catene.
Ishakovic riesce a mettersi in salvo grazie all’eroismo dei suoi, mentre
Hamza viene fatto prigioniero. La Battaglia di Albulena è il capolavoro
tattico del Castriota e rappresenta forse la sua più grande vittoria
sia dal punto di vista militare che da quello del morale.
Scanderbeg,
che ha già perdonato Mosè di Dibra, comprende che non può fare lo
stesso con Hamza. D’altro canto però, non riesce a giustiziare quello
che era stato un fedele compagno e un ottimo comandante. Lo invia quindi
a Napoli, dove rimane prigioniero per qualche tempo. È lo stesso
Sultano a riscattarlo, permettendogli di passare gli ultimi anni a
Costantinopoli con la moglie e i figli.
La
notizia della grande vittoria del Castriota viene accolta a Roma con
grande giubilo. Il 17 Settembre, Papa Callisto III impugna personalmente
la piuma d’oca per dimostrare la sua gratitudine al condottiero
albanese e, soprattutto, per spronarlo a continuare la sua guerra contro
gli Ottomani:
“Itaque,
dilecte fili, ut fecis, persevera in tua sincera devotione tuende et
defendende fidei catholice: nam deus, cuius res agitur, non deseret
causam suam, sed tibi et aliis Christianis de perdentissimis Turchis et
aliis infidelibus victoria cum summa gloria et triumpho pro certo dabit.”
Nel 1457
dunque, l’Albania ottiene la sua più grande vittoria sull’Impero
Ottomano, e tuttavia tutti sono a conoscenza del fatto, Giorgio
Castriota Scanderbeg in primis, che resistere alle invasioni annuali dei Turchi sarà sempre più difficile.
4.La Spedizione Italiana
L’anno
successivo, Giorgio perde due dei suoi amici e alleati più preziosi, il
Conte Vrana, che nel 1450 ha difeso Croia resistendo sia ai cannoni che
ai tentativi di corruzione turchi, e soprattutto Re Alfonso V d’Aragona.
Il Castriota, scrivendo al Principe di Taranto, dice di lui:
“Quello sancto et immortale Re de Aragona, del quale io ne nullo di li miei vassalli ni potemo recordare senza lacrime”
Oltre ad
averlo privato di un forte alleato, la morte di Alfonso V ha provocato
una violenta lotta di successione per il Regno di Napoli fra il figlio
illegittimo di Alfonso, Ferdinando (conosciuto anche come Ferrante), e
gli Angioini, che hanno perso il regno anni prima proprio per mano di
Alfonso. Il Re di Francia, Carlo VII, sostiene con forza le ragioni di
Giovanni d’Angiò, e a lui si uniscono molti nobili napoletani e Papa
Callisto III. Tuttavia, alla morte di quest’ultimo prende il potere Pio
II, che parteggia per Ferdinando e lo incorona Re di Napoli presso la
cattedrale di Barletta nel 1459. Per fronteggiare Giovanni d’Angiò,
entrambi chiedono il supporto di Scanderbeg. Pur avendo ristabilito,
dopo dieci anni di tensioni, discreti rapporti commerciali con Venezia,
il Castriota teme che, lasciando i suoi territori per una campagna
italiana, vi sia il rischio di una guerra civile, di un attacco turco o,
forse, di entrambe le cose. Anche grazie all’intervento
dell’Arcivescovo di Durazzo, Scanderbeg si riconcilia con i nobili
albanesi e, nel 1460, sottoscrive anche un accordo di pace con i Turchi.
Con
queste premesse, l’impresa italiana sembra possibile. Il Castriota si
inserisce nel conflitto meridionale in punta di piedi, inviando alcuni
contingenti di cavalleria leggera da impiegare in azioni di guerriglia
analoghe a quelle utilizzate contro i Turchi.
Il piano
di Scanderbeg funziona. Ce ne accorgiamo, in modo indiretto, da una
lettera inviatagli l’11 Ottobre 1460 dal Principe di Taranto, Giovanni
Antonio Orsini, in cui questi cerca di convincerlo a non mandare altre
truppe. L’Orsini si è infatti schierato dalla parte di Giovanni d’Angiò,
ed è letteralmente terrorizzato dall’idea che i cavalieri albanesi
arrechino ai sostenitori degli Angioini gli stessi danni fatti ai
Turchi. Quello che Giovanni Antonio Orsini non ha preso in
considerazione è che il Castriota “non
si lascia scoraggiare dalle situazioni, anche quando sembrano
disperate, e porta sempre a termine il suo dovere a dispetto di
qualsiasi difficoltà”. La risposta del Castriota è infatti un raro esempio di analisi strategica e volontà incrollabile:
“Ma
ricordatevi, che maiore era la possanza del gran Turco, che non è la
vostra, ne ancho il Signore che substenite. Et essendomi restata la sola
città de Croia […] contro tanto podere la defesi et conservai, fin che
con danno et vergogna li Turchi se levarono, et io in breve tempo et con
poca gente racquistai quello, che molti inimici in longo haviano
guadagnato. Sichè quanto più se deve sperare la restauratione de lo
stato de Re Ferrando, che se non havesse se non Napoli habiate per
certo, che ha ad essere vincitore”
Nel mese
di Giugno del 1461, Scanderbeg promette a Re Ferdinando che gli
presterà soccorso personalmente alla testa di mille cavalieri e duemila
arcieri. Ferdinando, appena sconfitto alla foce del Sarno da Giovanni
d’Angiò e Giovanni Antonio Orsini, versa in condizioni militari ed
economiche disastrose, tanto che la moglie Isabella, pur di raccogliere
denaro sufficiente ad assoldare un nuovo esercito, chiede a tutti i
cittadini di Napoli di recarsi alla Chiesa di San Pietro Martire e lì,
vestita in abiti dismessi, chiede loro l’elemosina!
A
Ferdinando, assediato a Barletta dai suoi nemici, non rimane nulla. Solo
la promessa fatta da un condottiero albanese. E il Castriota tiene
sempre fede alla parola data.
Nell’Agosto
del 1461 porta i suoi uomini a Ragusa, dove riceve un contributo per
l’impresa italiana. Lì fa imbarcare per l’Italia il nipote, Giovanni
Stresu Balsha, con parte del contingente. Il 25 Agosto prende terra a
Barletta con il resto degli Albanesi, trovando una situazione disperata.
La città, l’unica rimasta in mano a Ferdinando insieme a Napoli e
Trani, è stretta dall’assedio di Giacomo Piccinino, figlio di Giovanni
d’Angiò. Re Ferdinando gli comunica inoltre che la sua situazione
finanziaria è anche peggiore di quella militare.
L’arrivo
del Castriota trasforma la disperazione degli assediati in una
rinnovata energia. Gli basta un solo giorno per costringere alla
ritirata i soldati del Piccinino.
Scrive il Biemmi:
“La
comparsa della flotta Albanese commandata da un guerriero d’un si
terribile grido gittò un tale spavento nell’armata degli assedianti, che
questi subito ritiraronsi dalla Piazza, e perdute in un colpo tante
loro speranze allontanaronsi alcune miglia”
Ferdinando
non crede ai suoi occhi, ma coglie l’occasione per lasciare la città e
raggiungere le truppe di supporto in arrivo dal Ducato di Milano, al
comando di Alessandro Sforza. A partire dal 5 Settembre 1461, la difesa
di Barletta e la guerra contro il Principe di Taranto sono nelle mani di
Scanderbeg. Egli ha costruito la sua fortuna sulle violentissime
incursioni della sua cavalleria leggera, quindi non ha alcun interesse a
barricarsi dentro le mura di Barletta. Al contrario, lancia continue
sortite nelle campagne circostanti, massacrando i contingenti mandati
dal Piccinino e distruggendo tutte le fonti di approvvigionamento del
nemico. Il Castriota guida personalmente la maggior parte delle azioni e
combatte sia con la sua famosa spada curva che con la mazza d’arme. La
cavalleria italiana, dotata di armature a piastre complete e rispettosa,
almeno nella maggior parte dei casi, agli usi della guerra fra
gentiluomini, si trova a dover combattere contro veterani albanesi con
dieci o venti anni di guerriglia con i Turchi sulle spalle. Sono uomini
duri, brutali, che non lasciano scampo agli uomini del Piccinino e
dell’Orsino.
Il
Castriota stesso dimostra di non badare troppo alla forma quando, venuto
a sapere che il capitano della guarnigione di Trani, Antonio Infusado,
ha intenzione di vendersi ai francesi, lo invita a un incontro.
Scanderbeg però non vuole parlare, ed infatti si limita a incatenarlo e
costringerlo a cedere la città al nipote Giovanni Stresi Balsha. È
l’inizio di dicembre del 1461 e gli Albanesi del Castriota hanno
letteralmente distrutto i piani di conquista degli Angiò. Re Ferdinando,
pur essendo passato da una situazione difensiva a una offensiva, ha
ancora bisogno dell’aiuto del Castriota, ma purtroppo per lui, nel
Gennaio del 1462 la moglie di Scanderbeg, fa recapitare al marito un
messaggio di questo tenore: “i Turchi sono alle porte. Devi tornare a casa!”
Costretto
a imbarcarsi in tutta fretta, il Castriota è stato comunque in grado di
fiaccare le forze del nemico in modo decisivo. Pochi mesi dopo la sua
partenza, Ferdinando e Alessandro Sforza pongono fine alla guerra
annientando l’esercito angioino a Troia (18 Agosto 1462).
5.Sei Anni di Fuoco
Mentre
Ferdinando vince la sua battaglia decisiva, il Castriota deve
fronteggiare tre armate turche in un solo mese. Un’estate rovente,
quella del 1462, in cui il condottiero albanese annienta prima
l’esercito di Sinan Pashà e Hussein Beg (catturando quest’ultimo), poi
quello guidato da Yussuf Beg e, infine, le milizie di Caradza Beg.
Sfruttando questi successi, gli Albanesi chiedono al Castriota di
negoziare delle buone condizioni di pace con i Turchi. Giorgio si
rifiuta e prende tempo; alcune fonti sostengono che la firma del
Castriota arrivi nel 1463, altre invece lo negano. Se sull’esistenza di
questo documento sussistono molti dubbi, è invece certa quella del
trattato stipulato fra il Castriota e Venezia, sua vecchia nemica, il 20
Agosto del 1463. L’oggetto dell’accordo con Venezia è, come
immaginabile, la guerra contro Maometto II. La Serenissima si impegna a
sostenere Scanderbeg con uomini e mezzi, e a garantire al figlio di lui,
Giovanni Castriota, l’ingresso nella Nobiltà Veneziana. Il Castriota si
premunisce anche per l’eventualità in cui, sconfitto dai Turchi, sia
costretto a fuggire; sarà Venezia a ospitarlo, e a fornirgli supporto
per l’eventuale riconquista dell’Albania. Quando Gabriele Trevisan,
nell’Ottobre dello stesso anno, arriva in Albania alla testa di 1.300
soldati veneziani, 2.000 ducati per pagarne altri e tutti gli arretrati
delle pensione promessa a Scanderbeg anni prima, il Castriota capisce
che – per ora – può fidarsi di Venezia.
Disegno originale di Francesco Saverio Ferrara, da "I padroni dell'Acciaio" (Centro Studi Zhistorica, 2017). |
Un paio di settimane dopo, Pio II indice
una nuova crociata contro l’Impero Ottomano, cui si aggregano sia gli
Albanesi che i Veneziani. Il Castriota attacca subito i territori turchi
confinanti e riesce a razziare più di centomila capi di bestiame fra
vacche, maiali e cavalli. La crociata sembra partire quindi con il piede
giusto; e addirittura destinata a grandi risultati quando Pio II in
persona si reca ad Ancona per raggiungere l’altra sponda dell’Adriatico.
Il Papa è partito da Roma già ammalato, e pochi giorni dopo essere
giunto ad Ancona, spira a causa di un attacco febbrile proprio mentre le
vele veneziane iniziano a stagliarsi all’orizzonte.
Il 14 Agosto 1464, a poche ore di distanza dalla morte del Papa, il Castriota (all’oscuro dell’evento luttuoso), sconfigge un nuovo generale ottomano, Sheremet Beg, nei pressi del Lago di Ocrida. I festeggiamenti albanesi hanno breve durata; la notizia del trapasso di Pio II arriva come un fulmine a ciel sereno e lascia tutti interdetti. Ora, senza poter più contare sull’intermediazione del Pontefice per ricevere aiuto dagli altri sovrani europei, al Castriota rimane il supporto di Venezia, ormai sempre più intermittente.
Il 14 Agosto 1464, a poche ore di distanza dalla morte del Papa, il Castriota (all’oscuro dell’evento luttuoso), sconfigge un nuovo generale ottomano, Sheremet Beg, nei pressi del Lago di Ocrida. I festeggiamenti albanesi hanno breve durata; la notizia del trapasso di Pio II arriva come un fulmine a ciel sereno e lascia tutti interdetti. Ora, senza poter più contare sull’intermediazione del Pontefice per ricevere aiuto dagli altri sovrani europei, al Castriota rimane il supporto di Venezia, ormai sempre più intermittente.
La furia
di Maometto II sta per abbattersi nuovamente su di lui. Questa volta,
il conquistatore di Costantinopoli sceglie di spedire contro gli
Albanesi un loro connazionale, il rinnegato Ballaban Pashà.
Rispetto
agli altri generali ottomani, Ballaban conosce molto bene il territorio
e preferisce le azioni di guerriglia alle grandi battaglie campali.
Dopo aver rischiato egli stesso di essere catturato da Ballaban, il
Castriota lo sconfigge nei pressi di Ocrida; una vittoria che Giorgio
maledirà per tutta la vita. Durante lo scontro infatti, finiscono nelle
mani del nemico ben tredici dei suoi migliori ufficiali, compreso Mosè
di Dibra. Nei giorni seguenti – siamo nell’Aprile del 1465- il Castriota
offre al Sultano tutto l’oro a sua disposizione e centinaia di
prigionieri per riscattare i suoi capitani. Maometto II è però
irremovibile. Appena Mosè di Dibra e gli altri Albanesi arrivano a
Costantinopoli in catene, Maometto li fa scorticare vivi nella pubblica
piazza. Fra tutti i cronisti, è Barlezio a descrivere il tormento nel
modo più particolareggiato:
“Con una crudeltà delle più detestabili commandò che tutti si scorticassero vivi ed a liste affine [a strisce sottili]
de render più durabile il tormento; e non saziato della pena dei vivi,
fece gittar i lor cadaveri divisi in pezzi ad esser divorati dai cani.”
Mosè di
Dibra, che anni prima ha tradito Scanderbeg ricevendo poi il suo
perdono, resiste al supplizio per quindici giorni prima di morire. Il
boia e la folla rimangono ammutoliti.
Da quel
momento, il Castriota non fa più prigionieri. Uno dopo l’altro,
sconfigge tutti i contingenti turchi e fa giustiziare i sopravvissuti.
La battaglia più sanguinosa avviene nello stesso luogo in cui Ballaban è
riuscito a catturare gli ufficiali albanesi. Gli Ottomani provano a
difendersi, ma il Castriota li fa tutti a pezzi.
Maometto
II è furioso. Tredici anni prima ha conquistato Costantinopoli, mentre
ora non riesce ad avere ragione di quel manipolo di “ladri di cavalli”
che hanno già avuto ragione del padre. Nel 1466, si mette a capo del più
grande esercito che abbia mai raggiunto l’entroterra albanese (oltre
100.000 uomini) e cinge d’assedio Croia. Tanush Topia, il miglior
comandante di Scanderbeg, difende la città con 4.400 uomini. Il Sultano
bombarda il forte e cerca di corrompere i difensori con tesori immensi,
ma gli Albanesi non cedono un passo. Il Castriota, nonostante abbia
ormai superato i sessanta, continua a fiaccare le forze turche con le
solite incursioni di cavalleria. Con la situazione in stallo, Maometto
II torna indietro, lasciando sul luogo 80.000 uomini e Ballaban Pashà.
Prima di iniziare la marcia verso Costantinopoli però, il Sultano sfoga
la sua rabbia sugli abitanti della città di Chidna, massacrandoli dal
primo all’ultimo. I dintorni di Croia sono completamente in mano agli
Ottomani, tanto che Ballaban trova il tempo di far costruire la fortezza
di Elbassan, da cui guida le operazioni.
Nel
Settembre 1466, le forze albanesi sono allo stremo. Sia i difensori di
Croia che i cavalieri di Scanderbeg hanno quasi finito le scorte di
cibo, polvere, munizioni e, ancora peggio, denaro. Al Castriota non
resta che imbarcarsi con pochi uomini per andare a raccogliere i ducati
necessari presso Paolo II e Re Ferdinando. Quando arriva a Roma, il 12
Dicembre dello stesso anno, Scanderbeg viene accolto con grandi onori e
7.500 ducati, cui riesce ad aggiungere i 1.000 donati dal Re di Napoli e
un buon quantitativo di vettovaglie e munizioni. Ritorna quindi in
Albania per organizzare un nuovo esercito. È una lotta contro il tempo;
Croia ha le settimane contate. A metà del 1467, gli esploratori del
Castriota lo avvertono che c’è un altro esercito turco diretto a Croia.
Il condottiero albanese si muove per intercettarlo e lo sconfigge in
modo brutale facendo prigioniero Yonuz Pashà, fratello di Ballaban.
Quest’ultimo ha eretto una serie di altre fortificazioni intorno Croia, e
attende lì l’arrivo del fratello con i rinforzi. Al posto di Yonuz,
però, arriva Giorgio Castriota Scanderbeg.
Il suo
esercito rompe l’assedio e, al tempo stesso, Tanush Topia apre le porte
della città per la prima volta dopo un anno, mandando alla carica i suoi
uomini. Ballaban è incredulo: i due comandanti puntano proprio la sua
guarnigione. Quando una palla di piombo lo passa da parte a parte e un
dardo di balestra gli si conficca nel petto, il comandante turco si
rende conto di essere appena stato sconfitto. Il Castriota esulta e
incita il Topia a massacrare i Turchi, che senza il loro comandante non
riescono a riorganizzarsi. I soldati ottomani, ora assediati nei loro
forti (da assedianti ad assediati il passo è stato breve), offrono una
resa completa in cambio della possibilità di tornare in Turchia. Questa
volta, l’unico disposto ad accettare la proposta è proprio Scanderbeg,
che dice agli altri “Omnia timentes nihil timent”
(“quelli che hanno paura di tutto non hanno paura di nulla”), con
riferimento al fatto che i Turchi sono comunque più del doppio degli
Albanesi e non ha quindi senso gettarli nella disperazione più nera. Gli
altri comandanti però vogliono vendetta. Uno di loro, Lek Ducaghini,
dice solo “Embe ta”, traducibile come “Diamogli addosso”. Come racconta un cronista “… non gli pareva doversi usare misericordia verso l’infedeli nimici, ma quelli in pezzi tagliare”.
La
carneficina ha subito inizio, ma, come previsto dal Castriota,
moltissimi Turchi riescono a mettersi in salvo aprendosi la strada con
la forza. Scanderbeg li guarda fuggire, ben sapendo che il Sultano
tornerà a breve con un altro esercito. Anche questa volta però, nel
Luglio 1467, Maometto II non riesce a prendere Croia, e procede quindi a
devastare completamente ogni angolo del paese. Saccheggi, stupri,
incendi ed esecuzioni di massa vanno avanti per più di due settimane, ma
gli assalti improvvisi del Castriota provocano gravi perdite e
costringono il Sultano all’ennesima ritirata ignominiosa.
All’inizio
del 1468, giunta notizia che le milizie ottomane si stanno dirigendo,
questa volta, verso Scutari, Scanderbeg prepara i suoi soldati.
L’influenza lo sta fiaccando da giorni, ma monta comunque a cavallo e
avanza in testa agli Albanesi, che pochi giorni dopo sconfiggono gli
Ottomani.
Questa è
l’ultima vittoria del Castriota. Una vittoria postuma, perché Giorgio
Castriota Scanderbeg, uno dei più grandi guerrieri e condottieri del XV
secolo, è morto cavalcando tre giorni dopo la partenza. I Turchi però
sono all’oscuro del fatto e fuggono terrorizzati appena vedono apparire
la sua cavalleria all’orizzonte.
Respinta
– forse per pochi mesi – la minaccia turca, per i nobili e tutto il
popolo albanese è il momento di piangere il suo eroe. I solenni funerali
e la sepoltura hanno luogo nella Cattedrale di San Nicola ad Alessio.
Quando gli Ottomani, anni dopo, conquistano la città, il mito
dell’invincibilità del Castriota è ancora fortissimo. Alcuni di loro
aprono la sua tomba e fanno a pezzi il suo scheletro per utilizzare i
frammenti di ossa come amuleti dell’invulnerabilità.
Lo
spirito di Scanderbeg sopravvive nei suoi compatrioti e, per dieci anni,
li guida nella resistenza contro l’invasore. Quando l’Albania cede
definitivamente a Maometto II, inizia uno dei periodi più difficili per
il paese. I nuovi dominatori impediscono ogni espressione della cultura
albanese e fanno stabilire decine di migliaia di turchi nelle città
spopolate. I Cristiani subiscono le violenze e le tasse più dure. Molti
di loro, per non vivere nella miseria e nel terrore del genocidio,
abbracciano solo esteriormente l’islam, diventando criptocristiani.
Molti, però, non vogliono rinunciare a ciò per cui hanno combattuto
negli ultimi decenni. Così, alle tre ondate migratorie verso il Sud
Italia della popolazione albanese avvenute prima della morte del
Castriota, ne seguono altre cinque fra il 1478 e il 1774. A tutt’oggi
gli Arbëreshë,
gli Albanesi d’Italia (quasi 100.000 persone), continuano a tramandare
le stesse tradizioni vecchie di secoli, al cui centro rimane la fede
cristiana di rito bizantino. A parte l’adozione, nella maggior parte dei
casi solo nominale, della fede islamica, gli Albanesi rimasti nella
terra dei loro avi (specie nell’entroterra rurale) rimangono ostili ai
governanti ottomani fino alla liberazione del paese, nel 1912.
Link: http://zweilawyer.com/2017/03/17/giorgio-castriota-scanderbeg-la-monografia-completa/
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