Amo il mio idioma nativo, l’Arbëresh degli Albanesi d’Italia, l’Arabesque, come dice un’amica francese che non riesce a dire bene la parola. Amo i suoi suoni dolci, inzuppati di miele, in punta di labbra, e quelli asperrimi, quasi impronunciabili per chi non li abbia imparati da bambino. Amo i suoi grovigli di consonanti in rotta di collisione, la sua musicalità sempre in minore nella preghiera, nella ninna nanna, nel compianto funebre. Amo il senso dell’esilio diventato un modo di essere dell’anima, separato ormai, dopo secoli, da ogni riferimento reale, ma che, inconsciamente, custodisce, anche in una vita piena e felice, una remota memoria di perdita e di assenza che rende più struggente ogni addio, oltremodo lacerante ogni perdita, nell’amore e nella morte.
Da bambina mi capitava di ascoltare dalle vecchie cantatrici il desolato lamento funebre, capace di spaccare il cuore eppure di accarezzarlo, perché il pianto liberatore, così aizzato, sgorgasse a fiumi lavando gli occhi, il volto, la mente, lo spirito. Da grande le ho ritrovate, le cantatrici, nei tragici greci e nei poemi omerici.
Amo il ricordo di secoli di fiabe, di miti, di racconti che popolavano le sere d’inverno accanto al camino, con gli occhi al fuoco che mormorava, sibilava, scoppiettava o ringhiava a seconda del vento che penetrava nella cappa; o semplicemente taceva, mentre anche la voce del narratore s'affievoliva, e i più piccoli cadevano nel sonno. Amo le vecchie canzoni d’amore che sembrano dire a coloro che Arbëreshë non sono: “Ma voi che ne sapete dell’Amore”!
Questo è realmente accaduto, e penso che la povertà diventi miseria nera e degradante solo quando i grandi non hanno più niente da raccontare e i piccoli più niente da ascoltare. Quando il deserto culturale dell’assoluta omologazione arriva a prosciugare le fonti, anche il benessere conquistato e benvenuto, anche la giustizia sociale –irrinunciabile- non possono colmare il baratro in cui fate, streghe, mostri, déi ed eroi si sono precipitati, come un esercito in rotta, portando con sé pregiudizi e superstizioni, ignoranza e ingiustizia, violenza e dolore, ma anche la radice prima della Poesia. La memoria è il solo scrigno prezioso dell’identità, portatrice di mito e di poesia, di forza interiore e di consolazione, dalla culla alla tomba.
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