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giovedì 23 febbraio 2012

Kamastra

di Anna Maria Ragno
La mia domenica è sempre dedicata al trekking con un gruppo di amici, alle escursioni nei boschi del Gargano e all’immancabile pranzo in qualche agriturismo. Non è solo una maniera per fare attività fisica all’aria aperta, ma per conoscere il territorio e raggiungere masserie lontane dalle strade statali, chiesette e scuole rurali, trulli di pietra e sorgenti naturali.

Gli agriturismi, che spesso sono masserie che hanno trovato nel turismo una maniera per integrare il proprio reddito, sono gli ultimi avamposti della nostra civiltà contadina e di un mondo che sta  cambiando troppo velocemente, o addirittura scomparendo, ma solo sul piano materiale. La cultura contadina, infatti, rimane, e continua a imperniare il nostro modo di fare e di essere.

La Sgarrazza è una di queste vecchie masserie che adesso fanno agriturismo. Qui, da lontano, ad indicarci la presenza di un ristorante, abbiamo intravisto un curioso albero spoglio, con una serie di paioli appesi. Ad accoglierci un vecchio caminetto tutto in pietra, con l’immancabile kamastra al centro: la catena che finisce con il gancio a cui si appende il paiolo. Kamastra è una parola che ancora esiste nel dialetto arcaico del mio paese, non molto distante dal Feudo di San Giovanni e Monte Sant’Angelo, che Ferrante d’Aragona donò a Giorgio Castriota Skanderbeg per l’aiuto ricevuto dall’eroe albanese, nella sua lotta contro Carlo d’Angiò.
L’albero dei paioli ha riportato alla mia mente quello che diceva l’antropologo Mircea Eliade a proposito di “questo issamento di pali o di campanili, che sempre rappresentano il centro intorno a cui viene costruito il villaggio e intorno a cui ruota tutto il resto”. La kamastra rappresenta proprio tutto questo: i valori del proprio focolare domestico, del gruppo sociale di riferimento, e di quella civiltà contadina che con il suo “raccontarsi” ancora continua a fare da centro di riferimento all’ “essere” e al “fare” Arbëreshë  e meridionale.

Kamastra è tutto quello che regge il paiolo e il gioco della propria rappresentazione sociale. E’ il cuore del focolare domestico, dove si prende riparo e ci si scalda, dove si prepara e si condivide il cibo, dove si accolgono gli amici di famiglia e dove gli anziani raccontano fatti comuni ed avvenimenti personali. E’ quell’insieme di anelli che rappresentano il sangue sparso degli Arbëreshë : sparso fra l’Albania e l’Arberia, la nazione della diaspora e la nazione invisibile, che li ha accolti, uniti e poi dispersi di nuovo nel Meridione d’Italia. E’ la catena che lega ogni Arbëreshë alle proprie origini albanesi e contadine, agganciandolo ai valori condivisi dal gruppo familiare e sociale, sostenendolo nella dura fatica che deve compiere per riscattare il proprio passato di emigrato ante litteram. 
Anche questo va detto: gli Arbëreshë  sono sempre stati il sud del Sud, il margine di una società meridionale, già di per sé marginale rispetto al resto dell’Italia. Sono sempre stati a sud di qualcosa, e anche per questo hanno sempre pagato con una grande povertà il mantenimento della propria identità. Questa grande povertà di mezzi materiali, non ha comportato la mancanza di mezzi culturali ed espressivi. Ha favorito, anzi, la sopravvivenza di una ricca tradizione orale fatta di miti 






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