ARBËRIA NEWS Blog

ARBËRIA NEWS Blog

Visualizzazioni totali

mercoledì 8 aprile 2020

L'Inno ai Cherubini.

(articolo di Anna Maria Ragno)




L'Inno dei Cherubini è cantato da un coro che rappresenta spiritualmente gli angeli nel momento in cui, all'interno della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, praticata nelle Eparchie di Lungro e Piana degli Albanesi (che ricordiamo sono chiese sui jusris di tradizione orientale all'interno della Chiesa Cattolica), sono portati all'altare i doni del pane e del vino da consacrare. Questo momento comprende una piccola preparazione, una piccola processione nella chiesa, che prende il nome di "grande ingresso".
L'inno unisce il popolo di Dio alla presenza degli angeli raccolti intorno al trono di Dio, pertanto l’inno simboleggia la concelebrazione della liturgia terrena con quella celeste.
Il canto invita i fedeli a "deporre ogni preoccupazione mondana". Non si deve più essere distratti da cose che non c'entrano nulla con la Liturgia, poiché il Re è invisibilmente presente, "scortato da angeliche schiere"! Il testo recita più o meno così:

"Noi che misticamente rappresentiamo i Cherubini
e alla Trinità vivificante cantiamo l'inno "Tre volte santo",
deponiamo ora ogni sollecitudine mondana....
affinché possiamo accogliere il Re dell'universo,
scortato invisibilmente dalle angeliche schiere.
Alleluia, alleluia, alleluia."

Mentre il coro canta l’Inno dei Cherubini, il Celebrante recita la seguente preghiera: Nessuno che sia schiavo di desideri e di passioni carnali è degno di presentarsi o di avvicinarsi o di offrire sacrifici a Te, Re della gloria, poiché il servire Te è cosa grande e tremenda anche per le stesse Potenze celesti. Tuttavia, per l’ineffabile ed immenso tuo amore per gli uomini, ti sei fatto uomo senza alcun mutamento e sei stato costituito nostro sommo Sacerdote, e, quale Signore dell’universo, ci hai affidato il ministero di questo liturgico ed incruento sacrificio. Tu solo infatti, o Signore Dio nostro, imperi sovrano sulle creature celesti e terrestri, tu che siedi su un trono di Cherubini, Tu che sei Signore dei Serafini e Re di Israele, Tu che solo sei santo e dimori nel santuario. Supplico dunque Te, che solo sei buono e pronto ad esaudire: volgi il tuo sguardo su di me peccatore ed inutile tuo servo, e purifica la mia anima ed il mio cuore da una coscienza cattiva; e, per la potenza del tuo Santo Spirito, fa che io, rivestito della grazia del sacerdozio, possa stare dinanzi a questa tua sacra mensa e consacrare il tuo corpo santo ed immacolato ed il sangue tuo prezioso. A te mi appresso, inchino il capo e ti prego: non distogliere da me il tuo volto e non mi respingere dal numero dei tuoi servi, ma concedi che io, peccatore ed indegno tuo servo, ti offra questi doni. Tu infatti, o Cristo Dio nostro, sei l’offerente e l’offerto, sei colui che riceve i doni e che in dono ti dai, e noi ti rendiamo gloria insieme con il tuo Padre senza principio, ed il santissimo, buono e vivificante tuo Spirito, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amìn.
Ecco l'Inno dei Cherubini (I tà mistikòs) del Coro Polifonico della Cattedrale di Lungro: 


L'Inno dei Cherubini è stato introdotto nella Divina Liturgia dall'imperatore Giustino II durante il 9° anno del suo regno (573-574), al fine di coprire il tempo necessario al sacerdote per preparare l'ingresso e accompagnare il trasferimento dei doni preziosi.

L'Inno dei Cherubini è un elemento fisso nella struttura della Divina Liturgia, e questo ha spinto quasi tutti i principali compositori di tutti i tempi a musicarlo più di una volta, in tutti i modi dell'Octoechos bizantino e in vari stili musicali. Ricerche pertinenti sull'argomento hanno dimostrato che dalle prime composizioni dell'Inno dei Cherubini della fine del 13° secolo a quelle del 19° secolo, ci sono state più di 1500 composizioni, effettuate da oltre 200 Maestri.
L'inno dei Cherubini fa riferimento alle angeliche schiere in quanto, secondo la tradizione ebraica e successivamente cristiana, gli angeli sono organizzati in una gerarchia di differenti ordini, detti nel medioevo cori angelici.
Queste gerarchie consistono in entità intermedie tra Dio e gli uomini, in quanto collegano e descrivono il rapporto esistente fra l'assoluta trascendenza divina e la sua attività nel mondo.
Lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, nel libro "De coelesti hierarchia", indica alcuni passaggi del Nuovo Testamento, sulla cui base costruire uno schema di tre gerarchie, sfere o triadi di angeli, ognuna delle quali contiene tre ordini o cori. In decrescente ordine di potenza esse sono:
Nella prima gerarchia rientrano, quindi, i Serafini e i Cherubini.
I Serafini appartengono al più alto ordine di Angeli, quello situato nel cielo Empireo, il più prossimo a Dio, da cui ricevono in forma immediata le idee e le direttive con cui far evolvere un complesso cosmico.
La Bibbia li raffigura come angeli dotati di sei ali: due per volare, due per coprirsi il volto e due per coprirsi i piedi. Cantano continuamente le lodi di Dio: «Santo, Santo, Santo è il Signore dei cieli. Tutta la terra è piena della Sua gloria».
I Cherubini, invece, risiedono oltre il trono di Dio, nelle profondità del firmamento. Sono, perciò, i guardiani della luce e delle stelle. Essi rielaborano le intuizioni immediate dei Serafini traducendole in riflessioni e pensieri di saggezza riguardanti l'evoluzione dei sistemi planetari.
La Bibbia li raffigura come esseri con quattro ali e quattro facce, ovvero una umana, una di bue, una di leone ed infine una di aquila. I Cherubini vengono inoltre descritti come angeli dediti alla protezione, posti a guardia dell'Eden e del trono di Dio. Ad essi è attribuita una perfetta conoscenza di Dio, superata soltanto dall'amore di Dio dei serafini.
Sempre secondo la Bibbia, le sculture di due cherubini contrapposti erano rappresentate sul coperchio dell'Arca dell'alleanza.




domenica 9 giugno 2019

Il francobollo emesso dalle Poste Vaticane per il centenario dell'Eparchia di Lungro.



(di Anna Maria Ragno)

Il 13 febbraio 1919 Papa Benedetto XV, con la Costituzione Apostolica «Catholici fideles», istituiva l’Eparchia di Lungro degli Italo-Albanesi dell’Italia continentale. Con tale provvedimento la Santa Sede riconosceva giuridicamente la realtà unitaria degli Italo-Albanesi, donando loro una configurazione di diritto ecclesiale e civile, in risposta alle richieste di tutela avanzate dai discendenti del condottiero albanese ed eroe europeo Giorgio Castriota Skanderbeg. L’esodo degli albanesi in Italia avvenne tra il XV e il XVIII secolo, dopo il Concilio di Firenze del 1439, la caduta di Costantinopoli del 1453 e la morte di Skanderbeg nel 1468. 
Il foglietto emesso per l’occasione dall’Ufficio Filatelico del Vaticano riproduce “il Cristo Pantocrator”, mosaico realizzato dall’artista albanese Josif Droboniku, che domina dalla cupola centrale della Cattedrale di San Nicola di Mira in Lungro, la principale chiesa dell’Eparchia. 

Valore facciale: € 2,40
Formato: 38 mm (diametro)
Dimensioni del foglietto: 95 x 95 mm
Prezzo del foglietto: Euro 2,40
Stamperia: Joh. Enschedé (Olanda)
Tiratura Max: 60.000 foglietti






martedì 25 dicembre 2018

La Natività della Martorana.


(di Anna Maria Ragno)

I mosaici della Martorana.
Tra i mosaici siciliani in cui è più visibile l’influenza greca vi sono quelli della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, conosciuta anche con il nome de “la Martorana” . La chiesa appartiene all’Eparchia di Piana degli Albanesi, circoscrizione della Chiesa italo-albanese, e officia la liturgia per gli Arbëreshë residenti a Palermo secondo il rito bizantino.

I suoi mosaici, al pari di quelli della Cappella Palatina, si distinguono per il calore della gamma cromatica e per l’esecuzione fine e delicata, ma anche per il grande effetto emotivo ed estetico e per il loro valore simbolico e insieme ideologico. Fra questi si distingue la scena della Natività e della Dormizione della Vergine, che appartiene al cosiddetto "Ciclo delle feste", cioè alla serie canonica di immagini che nell'arte bizantina rappresenta i fatti salienti della vita di Cristo e della Vergine.



L’edificio.
La Martorana fu fondata da uno dei più insigni funzionari di Ruggero II, l’ammiraglio Giorgio di Antiochia che, per metà greco e per metà siriaco, aveva vissuto alcuni anni in Tunisia al servizio dell’emiro Al Madia, trasferendosi poi nel 1112 a Palermo dove aveva fatto una brillante carriera. Qui egli patrocinò la costruzione di una chiesa dedicandola alla Madre di Dio, che lo aveva protetto nei lunghi anni della sua milizia sui mari.

Il ciclo delle feste.
Il punto focale delle decorazioni della Martorana è la cupola dove è raffigurato Cristo Pantocratore seduto in trono. Nel l'anello esterno della cupola vi sono gli arcangeli Michele, Gabriele, Raffaele e Euriale in atteggiamento di adorazione.
Un secondo punto focale era costituito dall'immagine della Vergine che indubbiamente occupava l'abside centrale distrutta nel XVII secolo. Nel tamburo sono raffigurati i profeti e nelle nicchie angolari i quattro evangelisti.
L'arco trionfale è decorato con l'Annunciazione.
Nelle due piccole absidi vi è a sinistra San Gioacchino e a destra sant'Anna.
I quattro archi portanti contengono sette tondi, ognuno col busto di un santo.
Ogni raffigurazione descrive in modo "popolare", cioè facilmente comprensibile, la liturgia celeste e la vicenda biblica.
Nel transetto sono raffigurate otto figure di apostoli in piedi.
Di fronte al presbiterio, sulla volta a occidente dello spazio quadrato centrale sul quale proietta la cupola, sono raffigurate la Natività di Cristo e la Morte della Vergine, scene necessarie a mettere in evidenza che la chiesa era dedicata alla Madonna.
L'apparato musivo si può dividere in categorie:
Le figure singole nel loro raggruppamento (il Pantocratore e gli arcangeli adoranti, la Vergine e il suo corteggio, il coro dei Profeti, gli Evangelisti, gli Apostoli, i santi).
Le scene (l'Annunciazione, la Presentazione di Cristo al tempio, la Natività e la Dormizione della Vergine). Tutte le scene appartengono al cosiddetto "Ciclo delle feste" (corrisponde alle feste più importanti nel calendario liturgico greco), cioè alla serie canonica di immagini che nell'arte bizantina rappresenta i fatti salienti della vita di Cristo e della Vergine. Sono chiamate dodekaorton, serie canonica di dodici scene che comincia con l'Annunciazione e termina con la Dormizione della Vergine. Da questo ciclo l'ideatore del programma musivo, riprese le scene che vedono protagonista la Vergine, fermando così l'attenzione più su di lei che su Cristo.

La Natività
Nella Natività la Madonna domina la scena, è la figura più imponente ed è come adagiata, o meglio seduta, su una bianca coltre, che fa spiccare il suo azzurro manto. Ben nota è la serie dei personaggi che ne fanno parte, come anche la loro distribuzione "concentrica", con la Vergine quale centro di interesse e tutti gli altri motivi che le fanno corona.


Maria accarezza amorevolmente il Bambino avvolto in fasce e posto in una mangiatoia. Una grande montagna fa da sfondo a questa scena corredata dal bue, dall’asinello e da San Giuseppe con un ruolo marginale. Dietro la sommità del monte compaiono tre angeli adoranti, a mezza figura, le mani levate verso la stella aurea che si libra in alto dentro la sfera azzurra del cielo. Da essa un raggio scende sul Bambino. Due angeli volti verso l'apparizione celeste sono a destra, uno è a sinistra. Un perfetto equilibrio è ottenuto tramite un secondo Angelo a sinistra, pure a mezza figura, il quale però è rivolto verso il basso, la mano destra tesa in direzione di due pastori che guardano in su, verso di lui.
In alto è la stella che con un raggio colpisce il sacro infante. In basso, sulla sinistra vi sono due armenti che concorrono a conferire una certa atmosfera naturalistica. A destra è la rara scena della Lavanda del Bambino.

La Dormizione della Vergine.
La scena la Vergine giace su un letto funebre, il capo a sinistra, gli occhi chiusi, le mani incrociate sul petto. Testa e spalle seguono una curva ascendente cui dà ampio rilievo una bianca coltrice (parte del giaciglio) che incornicia l’intero profilo del corpo. Cospicua è la corrispondenza così stabilita con la figura della Vergine nella scena della natività che occupa l’opposta sezione della medesima volta a botte.


Il lato lungo del letto funebre è coperto da un drappo ornato, davanti al quale una pedana ingemmata segna l’asse centrale della scena.
Dietro al letto c’è il Cristo, che sta lievemente piegato a sinistra verso il capo di sua madre, lo sguardo rivolto a lei, le braccia sollevate a destra in rigoroso movimento opposto ad innalzarne l’anima e porgerla ad una coppia di angeli che scendono dall’alto pronti a riceverla con mani velate. L’anima ha l’aspetto di un infante avvolto in strette fasce a guisa di mummia. L’apostolo Giovanni in sembianze di vecchio, posto dietro la figura di Cristo, si china in avanti abbandonando il capo sul petto della vergine.
A capo del letto, un secondo gruppo di afflitti: li guida Pietro agitando un turibolo. Nessuno dei personaggi ha l’aureola. Paolo sembra stringere con la sinistra il piede della Vergine.

La stella cometa.
Nella Natività vi è una inedita rappresentazione della stella cometa. Essa si disegna sì, come sempre, dentro un cielo notturno, ma levandosi, zampillando direttamente dalla culla del bambino Gesù come un fiore che in essa affonda le radici, finendo così per confondersi e coincidere con Lui.
Nel racconto evangelico la stella cometa indica ai Magi la strada che conduce al “Re dei Giudei”, a Colui che viene per rivelare quale è il senso del cammino dell’uomo nel mondo. E sarà proprio lui, poi, a dichiararsi “Via, Verità e Vita”, a designarsi come la verità dell’uomo, a indicare in sé la strada da seguire per raggiungerla. E allora si comprende la ragione per cui il cristianesimo delle origini non veniva indicato come una setta o una religione, ma più semplicemente come “la via”.


La simbologia della stella cometa accomuna a Cristo anche la Vergine sua madre. La pietà popolare, infatti, la invoca come Stella Maris, la stella che indica la rotta al marinaio nella notte tempestosa, la stella dell’ammiraglio che deve condurre la nave al porto sicuro. Di questo abbiamo conferma nella stella che adorna il manto di un’altra immagine della Vergine presente nello stesso ciclo musivo.


domenica 23 settembre 2018

L'Epitaffio di Gllavenica (1373).


(di Anna M. Ragno)
L’Epitaffio di Gllavenica, detto anche Cristo di Gllavenica, è un grande drappo di lino, interamente ricamato con fili di seta, d'oro, di rame e argento sul quale è raffigurato con vigorosa naturalezza, il corpo del Cristo morto.

Il Cristo di Gllavenica presenta una ricca serie di ornamenti.
Intorno all'immagine di Cristo, sono raffigurati, tra medaglioni ornamentali, diversi angeli e apostoli, ricamati secondo i canoni dell'arte bizantina, e in alto sono evidenziati due personaggi tipici tratti dal racconto evangelico della Passione: Maria, la madre di Gesù e Giovanni, il discepolo prediletto a cui Gesù morente raccomandò la madre. La singolarità consiste proprio nell'imponente raffigurazione del "lenzuolo", oggetto che è solitamente ignorato o trascurato dagli artisti.






Il drappo, di raffinatissima fattura, serviva alle celebrazioni del Venerdì Santo. E' un tessuto di lino di 250 x 117 cm. Foderato e ricamato con fili d'oro, argento, rame e di seta rosa, blu, verde, e gialla di diverse tonalità che creano effetti di chiaroscuro. Sul sudario è ricamato in greco, con lettere d'oro, il vero e proprio epitaffio che ne ricorda il committente (Gjergj Arianiti) e la data (1373).

venerdì 30 marzo 2018

Le tradizioni pasquali di Frascineto: i Tintori e il rito del Teschio.

(di Anna M. Ragno)
Durante le celebrazioni per la Pasqua, a Frascineto è consuetudine eseguire le vallje, le tipiche danze, o ridde, albanesi. Le vallje sono formate da giovani vestiti con il ricco costume tradizionale arbëresh, che tenendosi a catena per mezzo di fazzoletti e guidati all'estremità da due figure particolari, chiamati "flamurtarë" (portabandiera), si snodano per le vie del paese eseguendo canti epici, rapsodie tradizionali, canti augurali o di sdegno per lo più improvvisati.
Nelle danze è consuetudine coinvolgere i “lëinjt” (i non albanesi, ossia i latini), che un apposito gruppo di “untori” ha già provveduto ad individuare annerendogli il volto. Contemporaneamente, altri giovani sono soliti ripetere il rito del Teschio (kùtula).

La tradizione dei Tintori. Il martedì di Pasqua, girano per il paese i Tintori, i quali provvedono a segnare con la fuliggine il volto di chi non sa parlare l’arbërisht, chiedendo all’ospite di pronunciare la frase “tumac me qiqrra / tagliatelle e ceci”.


La tradizione del Teschio (kùtula). Giovani incappucciati, vestiti di bianco, impersonano gli “spiriti” che invitano gli anziani (non arbëreshë) a baciare un teschio d’asino o di bue, dicendo: “Mbaj mend se ke të vdesësh (ricorda che devi morire)”.


La frase trae origine da una particolare usanza tipica dell'antica Roma: quando un generale rientrava nella città dopo un trionfo bellico e sfilando nelle strade raccoglieva gli onori che gli venivano tributati dalla folla, correva il rischio di essere sopraffatto dalla superbia e dalle manie di grandezza. Per evitare che ciò accadesse, un servo dei più umili veniva incaricato di ricordare all’autore dell’impresa la sua natura umana e lo faceva pronunciando questa frase: “Memento mori! (Ricordati che devi morire!)”. Il seguito memento mori divenne il motto dei monaci trappisti.



martedì 13 marzo 2018

Le mattre per San Giuseppe.

(di Anna Maria Ragno)


La tradizione delle “tavolate” di San Marzano di San Giuseppe, trae origine dell’usanza di bandire banchetti da offrire ai poveri ed ai forestieri nel giorno della festa di S. Giuseppe, in memoria dell’ ospitalità ricevuta dalla Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto.
Nell’antica comunità arbereshe, che alcuni amano definire “Albania Tarantina”, la realizzazione delle tavolate era affidata alle donne di uno stesso quartiere, che si riunivano in casa per preparare le tredici pietanze, in ricordo dell’ Ultima Cena.

Il 10 marzo di quest’anno, in occasione del 152° anniversario del patrocinio del Santo Patrono, il Comitato feste Patronali ha realizzato una “Mattra” della lunghezza di 152 metri. L’intento degli organizzatore non è stato quello di raggiungere un Guinness dei Primati, ma semplicemente di rafforzare la devozione verso il Santo Patrono.

Le tavolate o “mattre”, come vengono chiamate in arberisht, venivano allestite su tavolieri di legno e disposte lungo la via principale che parte dalla Chiesa Madre. Sovente prendevano l’aspetto di veri e propri altarini a sette piani (simbolo dei sette sacramenti).
Si utilizzano ancor oggi gli alimenti tipici della civiltà contadina: olio, farina, pepe, pesce, legumi ed ortaggi. Non compaiono né formaggio né carne perché costosi e perché la festa coincide con il periodo di quaresima.
Il piatto principale è il pane servito con finocchio ed un’ arancia; segue l’ insalata, i “ lampascioni “ lessati con olio e pepe; fave con olio, pepe ed un’ acciuga; ceci e fagioli conditi nello stesso modo; cavolfiore lessato intero ed insaporito con olio e pepe; riso con sugo ed un pezzetto di baccalà fritto; stoccafisso al sugo; massa di San Giuseppe con olio, “spunzale” ed un pezzo di baccalà; maccheroni lunghi fatti a mano e conditi con miele e mollica di pane fritto; “carteddate” con pepe.
I 13 piatti potevano essere serviti per 3,5 o 15 “Santi” scelti tra le famiglie più povere del paese, che rappresentavano la Sacra Famiglia (da sola o accompagnata da San Gioacchino e Sant’ Anna o dai dodici apostoli)
La sera del 18 marzo, dopo la messa e prima dell’accensione di un falò di proporzioni eccezionali di cui parleremo in seguito, il parroco benedice le tavolate e, dopo che i padroni di casa hanno lavato le mani ai Santi ( gesto rituale che ricorda l’ Ultima Cena), questi possono assaggiare le pietanze. Terminata la rappresentazione il cibo viene offerto ai poveri e/o ai forestieri. Negli anni addietro il rituale prevedeva che i santi facessero il giro delle case dove erano state allestite le tavolate.

La benedizione del pane.
Il rito della benedizione del pane si ricollega all’ origine del culto del santo, protettore dei bisognosi. Il pane, nella forma circolare recante le iniziali di S. Giuseppe o il simbolo della croce, è senza dubbio uno dei protagonisti della festa.
Le donne devote preparano, nei due giorni precedenti i festeggiamenti, l’ impasto che lasciano lievitare per una notte intera. All’alba del 18 marzo viene portato nei forni a cuocere e tutto il paese è invaso dalla fragranza del pane caldo.


La mattina della vigilia si celebra la “ benedizione del pane di San Giuseppe”: la Chiesa Madre è ricolma di grandi ceste piene di pane che, al termine della benedizione, verrà distribuito ai poveri ed ai forestieri. Il pane deve essere spezzato con le mani e consumato dopo aver recitato una preghiera al Santo. Anticamente veniva conservato un pezzo della pagnotta e le briciole venivano sparse nelle campagne per allontanare il cattivo tempo.

Il falò e la processione delle fascine.
Il pomeriggio della vigilia è contrassegnato da un’altra importante cerimonia: la processione della legna, che si conclude con “zjarri e mate”, un falò dalle proporzioni straordinarie, alto anche 10 metri.
L’ origine di questo rito è da rintracciare in un evento accaduto agli inizi dell’ 800, che è rimasto nella memoria collettiva sanmarzanese. A causa delle temperature molto rigide e dell’ eccessiva miseria, gli abitanti del paese decisero di rinunciare ai piccoli falò che abitualmente venivano offerti a S. Giuseppe nei vicoli. Ma durante la notte della vigilia si scatenò sul paese un violento nubifragio, che divelse molti alberi nella campagne. Il fatto venne interpretato come un atto punitivo del Santo. I saggi del paese decisero allora di offrire a S. Giuseppe un unico grande falò da accendere sul largo Monte ( “ laerte Mali” ), in modo da essere visto anche dai paesi limitrofi.
Da allora, per quasi due secoli, la processione dei carri e delle fascine rimane il momento più suggestivo dell’anima popolare e religiosa dei sanmarzanesi.
E’ una processione interminabile che si snoda per le vie del paese e vede la partecipazione di tutti.
Protagonisti della processione sono anche i cavalli, addobbati per l’ occasione con eleganti finimenti. Essi sono ammaestrati a trainare gli enormi carri carichi di fascine, sormontati dall’immagine del Patrono, e a “genuflettersi” davanti alla statua del santo, appena giunti davanti alla chiesa.


Al termine della Messa serale il parroco, dopo la benedizione della legna ( fatta ai quattro lati della catasta, secondo i punti cardinali), accende il fuoco che per tutta la notte illuminerà il paese invocando la protezione del Santo Protettore.